Accordi Usa-Arabia Saudita su nucleare e terre rare. Data center e domanda elettrica, Germania già in difficoltà. Nucleare e shale oil, Usa pragmatici.
Creato un Consiglio ad hoc: la strada, tracciata già nel 2024, prevede di puntare sul gas di scisto. Asse con l’Arabia Saudita.
Dopo la botta dei dazi, arriva quella dell’energia. D’altronde i martelli spesso hanno due teste. E l’obiettivo degli Usa sembra quello di usarle entrambe. Ieri, la Casa Bianca ha annunciato la creazione del Consiglio nazionale per il dominio energetico. A presiederlo saranno Burgum e Wright, rispettivamente segretario dell’Interno e dell’Energia. Non è difficile comprendere a cosa serva. Lo dice il nome stesso: a creare posti di lavoro, ridurre i costi e a rendere gli Usa la forza dominante del mercato energetico. L’obiettivo è piegare o favorire i Paesi avversari, ma anche gli alleati. Esattamente secondo lo schema dei dazi. Con una differenza di fondo. Cioè che la partita dell’energia non sarà un tira e molla come per le tasse sul commercio. Qui la strada è già stata avviata. Secondo un percorso messo a terra nel primo trimestre del 2024, ben prima che arrivasse Donald Trump a Washington. Per capirlo bisogna andare a vedere i flussi finanziari che a partire dalla primavera del 2024 - e poi in forte accelerazione dall’ultimo trimestre dello scorso anno - si sono riversati sull’industria dell’estrazione del gas di scisto americana. Un comparto che certamente nn si può definire green, visto l’impatto che ha sul sottosuolo. Mentre l’Europa uccideva la propria manifattura in nome della transizione green, gli Usa di Joe Biden facevano finta di essere verdi. In realtà hanno visto confluire negli ultimi sei mesi ben 210 miliardi di dollari di capitali offshore nel settore del gas. Di questi alcune ricerche dimostrano che il 60% circa sarebbe da ricondurre a fondi sovrani tutti dell’area del Golfo. Con un focus particolare sull’Arabia Saudita. Non solo. La stessa Fed, la Banca centrale Usa, nell’ultimo anno, tramite iniezioni di liquidità di emergenza avrebbe garantito flussi per 117 miliardi di dollari a intermediari che gestiscono a loro volta fondi che investono sul gas. Il meccanismo è chiaro. Dopo la guerra in Ucraina si è voluto sganciare l’Europa dall’energia russa e riavvicinare a forza Bruxelles al gas Usa. Non a caso, le esportazioni di greggio o gas derivato dallo scisto verso le nazioni allineate alla Nato sono aumentate del 26,3%. I movimenti di investimento paralleli da parte di entità finanziarie sostenute dagli Stati Uniti hanno avviato il riallineamento del dominio energetico globale, incorporando il controllo strategico sulle catene di fornitura attraverso meccanismi commerciali influenzati politicamente.
Ora siamo al secondo grande step. Da un lato mitigare i prezzi per strozzare meno il mercato Ue e dall’altro, soprattutto, creare un nuovo asse che mira a monopolizzare l’energia. Asse che parte dall’America e arriva ai Paesi sunniti del Golfo. Emirati e in particolare Arabia Saudita. Nel corso del 2024 sono stati firmati contratti di fornitura a lungo termine per 178,6 miliardi di dollari tra gli esportatori di scisto statunitensi e gli importatori dell’Asia-Pacifico, spostando deliberatamente la dipendenza energetica dagli accordi Opec. Questa ristrutturazione geopolitica garantisce una domanda sostenuta per la produzione di scisto statunitense, controbilanciando al contempo le quote di produzione mediorientali, rafforzando il predominio degli Stati Uniti sul commercio mondiale di petrolio. E qui arriva la spiegazione dell’asse con i sauditi. Il Paese guidato da Mohammad Bin Salman accetta di contare meno nella storica associazione dei produttori di petrolio, ma dall’altro lato finanzia (e beneficerà dei ritorni di cedola) l’industria produttrice americana.
Non sappiamo se l’aver avviato il meccanismo finanziario un anno fa significhi che c’era già consapevolezza dell’arrivo alla Casa Bianca di Trump, oppure (più facilmente) che questa del dominio energetico sarebbe comunque stata la strada che avrebbe intrapreso il presidente americano. Indipendentemente dal nome, per capirsi. Ciò che conta è che siamo di fronte a un fatto nuovo e in grado di travolgere gli equilibri. Così come è apparecchiata la tavola dell’energia, l’Europa sembra non avere nemmeno la seggiola su cui sedersi. Per noi certo non è un bene. D’altra parte ciò spiegherebbe bene perché l’Arabia Saudita stia diventando per Trump, tramite il genero Jared Kushner il più grande alleato. In Medio Oriente la Casa Bianca vuole affidarle la gestione di Hamas e di Gaza, la possibilità di aprire un porto nel Mediterraneo e influenzare i flussi tra Maghreb ed Europa. D’altro canto, a livello globale Trump o più in generale il Deep State pensa, evidentemente, che il nuovo ordine del Medio Oriente possa garantire la forza necessaria per contrastare la Cina e la sua economia. Insomma, si parla di qualcosa di rivoluzionario. E limitarsi a dare a Trump del matto o del fascista, come molti italiani fanno, significa ostinarsi a non guardare in faccia la realtà. La postura americana verso l’estero, la nuova geopolitica che si sta realizzando, non prende forma perché un presidente da solo lo desidera. Ma perché l’intera struttura è proiettata in quella direzione. Questo Trump non è il Trump della prima elezione. Non è più un battitore libero, ma una punta che serve a martellare nei punti definiti dall’intera politica americana. Certo, ciò significa che per l’Europa sono problemi. Già detto in tutte le salse. Non è facile trovare una soluzione. Certamente ammettere la svolta è importante e per quanto riguarda l’Italia fare in modo che la penisola torni a essere un porto naturale. Il governo dovrebbe avvicinarsi ancora di più all’Arabia Saudita e cercare di andare in scia all’onda che è in arrivo sul Mediterraneo e il Medio Oriente. Si tratta di stabilità e garanzia dei confini, ma soprattutto di economia e finanza. Quella che serve ai cittadini italiani per stare più sicuri.
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Riduci
Jake Sullivan (Getty Images)
Prove di disgelo tra Stati Uniti e Arabia Saudita? Domenica, il consigliere per la sicurezza nazionale americano, Jake Sullivan, si è incontrato a Dhahran con il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman.
Secondo la Saudi Press Agency, «durante l'incontro sono state esaminate le relazioni strategiche tra i due Paesi e le modalità per rafforzarle in vari campi». I due hanno anche discusso della «versione semifinale dei progetti di accordi strategici tra i due Paesi, che sono quasi in fase di finalizzazione». Al centro del colloquio è stata inoltre posta «la questione palestinese, per trovare un percorso credibile verso una soluzione a due Stati che soddisfi le aspirazioni e i diritti legittimi del popolo palestinese».
Nonostante abbia avviato una distensione diplomatica con Teheran l’anno scorso, Riad resta preoccupata delle ambizioni nucleare iraniane. Inoltre, si è ulteriormente impensierita a seguito dell’attacco che gli ayatollah hanno di recente condotto contro lo Stato ebraico. Una serie di fattori che ha portato i sauditi a riavvicinarsi agli Stati Uniti dopo una fase particolarmente turbolenta. Non dimentichiamo infatti che i rapporti tra Riad e l’amministrazione Biden sono sempre stati significativamente freddi. Il punto è che il timore nei confronti degli iraniani si sta facendo sempre più forte tra i vertici della monarchia saudita.
È in questo senso che Riad sta negoziando un accordo con Washington nel settore della difesa: un accordo che, secondo Reuters, prevedrebbe anche l'assistenza americana sul fronte del nucleare a uso civile. In un primo momento, Joe Biden sperava di legare tale intesa alla normalizzazione dei rapporti tra Riad e Gerusalemme: tuttavia, in assenza di un cessate il fuoco a Gaza, i sauditi hanno, almeno per ora, fatto marcia indietro su questo fronte, privando l’attuale presidente americano di un successo diplomatico che il diretto interessato avrebbe potuto sbandierare in campagna elettorale. Non dimentichiamo che, a settembre scorso, Biden era a un passo dall’ottenere la normalizzazione dei rapporti tra Gerusalemme e Riad: un processo diplomatico che è tuttavia improvvisamente saltato a seguito del brutale attacco condotto da Hamas contro Israele il 7 ottobre. Era d’altronde questo l’obiettivo dell’Iran, che ha sempre avversato la logica degli accordi di Abramo: quell’Iran che risulta storicamente il principale finanziatore sia di Hamas che di Hezbollah.
Sotto questo aspetto, è tutto da dimostrare che i sauditi stiano realmente iniziando a fidarsi dell’attuale Casa Bianca. Certo: il timore nutrito verso Teheran - lo abbiamo visto - li sta riavvicinando a Washington. Ma il rifiuto di procedere con la normalizzazione dei rapporti con Israele potrebbe essere letto anche come un modo per evitare di dare a Biden un assist nel pieno della campagna elettorale americana. Fermo restando che l’attuale presidente degli Usa continua a mantenere un approccio fondamentalmente blando nei confronti del regime khomeinista. Domenica, l’Iran ha fatto sapere di aver avuto recentissimamente dei colloqui indiretti con Washington nell’Oman.
Insomma, non è affatto escludibile che i sauditi (e gli israeliani) stiano scommettendo su un ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, essendo certi del fatto che una sua eventuale nuova presidenza ripristinerebbe la politica della “massima pressione” su Teheran: una premessa fondamentale, questa, per rispolverare concretamente la logica degli accordi di Abramo.
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Riduci
Joe Biden (Ansa)
Il principe ieri era ad Ankara. A luglio riceverà il presidente Usa, cui serve l’aiuto di Riad nell’Opec per compensare il caro energia.
Il principe ereditario saudita, Mohammad Bin Salman, sta acquisendo una sempre maggiore centralità internazionale. Ieri, si è recato in visita in Turchia, dove ha avuto un incontro con Recep Tayyip Erdogan, che aveva effettuato a sua volta una visita in Arabia Saudita lo scorso aprile. Dopo anni di tensioni a causa del caso Khashoggi e della Fratellanza musulmana, Riad e Ankara stanno portando adesso avanti un processo di distensione. In particolare, ieri si è discusso di una «piena normalizzazione» dei rapporti tra le due capitali e, secondo il Daily Sabah, sono stati siglati accordi nei settori di energia, finanza e sicurezza.
Non solo: negli ultimi giorni, Bin Salman ha avuto anche un meeting al Cairo con il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi e un vertice con re Abd Allah di Giordania ad Amman. La settimana scorsa, il ministro dell’Energia saudita, Abdulaziz bin Salman, ha avuto inoltre colloqui calorosi con il vicepremier russo, Alexander Novak, a margine del forum economico di San Pietroburgo. Era invece l’11 giugno, quando - in occasione dello Shangri-La Dialogue di Singapore - il viceministro della Difesa saudita, Hussein Al Biyari, ha incontrato il ministro della Difesa cinese, Wei Fenghe.
Tutto questo mostra la rinnovata centralità conseguita da Riad sulla scena internazionale. Tanto che, il mese prossimo, anche Joe Biden si recherà in visita in Arabia Saudita. Un bel paradosso, visto che proprio lui aveva giurato che avrebbe isolato Riad. Ai tempi della campagna elettorale, criticò aspramente Donald Trump per il suo significativo rapporto politico con Bin Salman, promettendo inoltre che avrebbe reso l’Arabia saudita un «paria». Fu in questo contesto che, appena entrato in carica, l’attuale presidente americano rese pubblico un report che sottolineava il coinvolgimento dello stesso Bin Salman nel delitto del giornalista Jamal Khashoggi. E sempre in questo contesto Biden ha rilanciato la distensione con l’Iran, tentando di riesumare il controverso accordo sul nucleare del 2015. Proprio tale distensione ha allontanato gli Stati Uniti da Israele, contribuendo a spingere Riad tra le braccia di russi e cinesi. Che poi non si è mai capito che senso aveva chiudere all’Arabia saudita in quanto autocrazia, per aprire contemporaneamente a un’altra autocrazia, come il regime khomeinista.
Purtroppo per Biden, i nodi sono arrivati presto al pettine. Dall’estate dell’anno scorso, il caro energia ha iniziato a gravare sugli Stati Uniti: una situazione in parte favorita dalle disastrose politiche ambientaliste dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Una situazione ovviamente aggravatasi a causa dell’invasione russa dell’Ucraina. Tutto questo ha quindi portato Biden a sconfessare la linea dura, spingendolo di fatto a chiedere l’aiuto di Riad, anche in considerazione del suo peso politico nell’Opec. Certo è che l’imbarazzo è forte. E infatti stanno piovendo adesso sul presidente americano accuse di incoerenza: a criticarlo non sono solo gli attivisti per i diritti umani ma anche alcuni esponenti dello stesso Partito democratico. In un primo momento, la Casa Bianca ha evitato di rendere noto se, durante il viaggio di luglio, Biden avrebbe incontrato Bin Salman. La conferma è poi arrivata dal Consiglio per la sicurezza nazionale, oltre che dall’ambasciata saudita a Washington.
Ricapitolando: in campagna elettorale, il presidente americano aveva promesso di mettere all’angolo Riad e di promuovere politiche green. Ora invece cerca disperatamente petrolio ed è pronto a baciare la pantofola del principe ereditario saudita. Quel principe che è sempre più al centro della scena internazionale, mentre negli ultimi diciotto mesi l’influenza americana sul Medio Oriente si è notevolmente ridotta. Com’era la storia che con Biden sarebbe tornata la competenza alla Casa Bianca?
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Riduci




