C’è un passaggio nelle 612 pagine della sentenza con la quale i giudici della Corte d’assise di Reggio Emilia argomentano la scelta di condannare all’ergastolo padre e madre di Saman Abbas, la diciottenne assassinata la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 a Novellara, a 16 anni lo zio (che poi ha collaborato indicando il luogo dove aveva nascosto il cadavere) e di assolvere i due cugini, che appare come una breccia in quello che i giuristi chiamano lo «sbarramento invalicabile». Si tratta di un principio giuridico che sbarra la strada all’introduzione di consuetudini, prassi e costumi che possano mettere in pericolo o danneggiare i diritti inviolabili della persona. I giudici di Reggio Emilia (presidente Cristina Beretti, estensore Michela Caputo), in sostanza, hanno escluso le aggravanti dei motivi abietti o futili specificando che «bisogna tener conto anche della cultura del reo e del suo contesto sociale di riferimento, del momento in cui si sono verificati i fatti, dei possibili fattori ambientali che possono aver determinato la condotta». La Corte spiega che «occorre ancorarsi agli elementi concreti tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, del contesto sociale e del particolare momento in cui il fatto si è verificato, nonché dei fattori ambientali che possono avere condizionato la condotta criminosa». Per i giudici di Reggio Emilia, insomma, gli imputati vanno condannati alla massima pena per aver commesso il delitto ma senza le aggravanti invocate dalla Procura. Saman, secondo le toghe, non sarebbe stata uccisa per essersi opposta, come sostenevano i pm, a un matrimonio forzato (per la Corte si tratta «di un elemento che nulla toglie e aggiunge alla gravità del fatto»), ma perché voleva lasciare la famiglia per vivere con il fidanzato. «Ciò che contava» per la famiglia della ragazza, è l’argomentazione delle toghe, «era dissuaderla dall’andare nuovamente via di casa, non chi si sposasse». Sarebbe la fuga la chiave del movente, comportamento ritenuto «grave per la loro cultura». «Individuato il motivo che ha mosso gli imputati a commettere l’omicidio», spiegano i giudici, «occorre ora chiarire perché lo stesso, secondo la Corte d’Assise, non possa reputarsi abietto o futile, nell’accezione tecnico-giuridica». E la spiegazione è questa: «È indiscusso che non sussista in Pakistan una norma giuridica che autorizzi o vincoli a condotte siffatte, che peraltro da pochi anni (solo dal 2016) sono anche lì espressamente sanzionate. Tuttavia resta un drammatico dato di fatto, quello secondo cui la pratica dei delitti d’onore rappresenta un fenomeno endemico nel Paese, che conta il numero pro capite più elevato al mondo dì delitti d’onore documentati». Il «così fan tutti» alla pakistana, quindi, escluderebbe, secondo i giudici di Reggio Emilia, le due aggravanti. Secondo la Corte, «il ritratto» del nucleo familiare di Saman sarebbe «certamente chiuso in se stesso, legato a retaggi e tradizioni propri del Paese d’origine, e del tutto impermeabile alla realtà esterna». Inoltre, «il livello di integrazione degli imputati nel contesto sociale e culturale italiano deve reputarsi prossimo allo zero». Il percorso fatto dai giudici sembra questo: siccome in Pakistan è prassi assassinare una ragazza che va via di casa con il fidanzato e gli Abbas non erano integrati le aggravanti diventano carta straccia. I giudici ritengono i tre familiari, la mamma di Saman, il marito Shabbar Abbas e suo fratello Danish Hasnain «pienamente parimenti coinvolti» nell’omicidio e «compartecipi della sua realizzazione», ma ridimensionano la ricostruzione della Procura e bacchettano i media «che avrebbero enfatizzato e distorto la vicenda). Demoliti anche personaggi significativi per gli inquirenti, come il fratellino della vittima che aveva accusato i familiari (bollato come «inattendibile» per i suoi 120 non ricordo) e anche il fidanzato (il cui «legame sentimentale nei confronti della vittima» non sarebbe «di qualità e intensità tale» da permettere di considerarlo «un congiunto»). Forse lo zio scavò la buca poco prima e i genitori accompagnarono la ragazza a morire. Non è chiaro chi fece cosa: «Non ci sono elementi per dire che lo zio da solo abbia eseguito l’azione». Nazia potrebbe averla tenuta ferma, oppure potrebbe essere stata lei direttamente a strangolare Saman. Spiegano i giudici: «La circostanza che Nazia scompaia dalla vista delle telecamere per un minuto, con Saman ancora in vita, non consente di escludere con certezza che anche lei abbia fattivamente partecipato all’azione omicidiaria [...] o che sia stata direttamente, anche da sola, a servare la condotta materiale con cui si è determinata l’asfissia meccanica che ha condotto alla morte di Saman». L’unica certezza è che furono tutti e tre coinvolti «nella concatenazione di eventi che ha condotto all’uccisione». Giustificato perfino il viaggio dei genitori di Saman verso il Pakistan all’indomani della scomparsa, bollato come «un evento del tutto diverso da quello propugnato dall’accusa». E, secondo i giudici, sicuramente «non un viaggio programmano al fine di sfuggire alle conseguenze dell’omicidio già premeditato». E perfino il video del 29 aprile, quello che riprendeva zio e cugini con pale e badili, non dimostrerebbe nulla. la vita di Saman, scrive la Corte «non è stata solo spezzata ingiustamente e troppo presto, ma vissuta attorniata da affetti falsi e manipolatori, in una solitudine che lascia attoniti». Come le motivazioni della sentenza.
Per l’omicidio Saman ergastolo ai genitori e solo 14 anni allo zio che l’ha ammazzata
«Ergastolo». I giudici della Corte d’assise di Reggio Emilia hanno ritenuto colpevoli i genitori di Saman Abbas, la diciottenne assassinata la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio 2021 a Novellara, e li hanno condannati alla massima pena prevista dalla legislazione italiana.
Shabbar Abbas e sua moglie Nazia Shaheen (latitante in Pakistan) secondo i giudici di primo grado hanno deciso che Saman doveva morire perché si era opposta a un matrimonio combinato. Ma è stata esclusa l’accusa di sequestro di persona. A eseguire materialmente il delitto, stando alla decisione della Corte, è stato lo zio Danish Hasnain, condannato a 14 anni. Sarebbe stato lui, su indicazione dei genitori, a strangolare la nipote. Ha beneficiato dello sconto di pena previsto per il rito abbreviato e con molta probabilità gli è stata riconosciuta l’azione collaborativa per aver fornito le indicazioni utili al ritrovamento dei resti di Saman. Inoltre sono venute meno le aggravanti della premeditazione e dei motivi abietti e futili che avrebbero impedito la scelta del rito abbreviato.
Cade anche per lui l’accusa di sequestro di persona. Riconosciute, invece, le attenuanti generiche. Quello che colpisce l’opinione pubblica è che per zio Danish sia stata decisa una condanna inferiore rispetto ai 17 anni inflitti ad Asti al gioielliere Mario Roggero, che sparò contro i rapinatori per difendere la sua famiglia e dopo aver subito altre rapine in passato. Assolti, invece i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanulhaq Nomanulhaq, che erano accusati di aver occultato il cadavere. Per loro è stata ordinata l’immediata scarcerazione.
Ma a colpire sono anche le decisioni sui risarcimenti alle parti civili. Sono stati esclusi il fratello (considerato dai giudici indagabile per il contributo «morale e materiale», tant’è che le sue dichiarazioni sono risultate inutilizzabili) e il fidanzato di Saman (la giurisprudenza prevede un risarcimento quando sussiste uno stabile legame tra due persone, che probabilmente non è emerso durante il dibattimento). Riconosciuti, invece, risarcimenti alle associazioni sulla violenza contro le donne (25.000 euro ciascuna), a quelle islamiche (10.000 euro), probabilmente perché è stato considerato come rilevante un danno morale proveniente dal movente del delitto (la vittima si era opposta a un matrimonio combinato, derivazione della subcultura islamista), all’Unione dei Comuni della Bassa reggiana (30.000) e al Comune di Novellara (50.000) per il danno all’immagine subito.
Ovviamente il dispositivo letto in aula conteneva soltanto le strette decisioni dei giudici e nessuna motivazione. Bisognerà, quindi, attendere 90 giorni per capire con precisioni le ragioni che hanno portato nelle varie direzioni. Una cosa è certa. Shabbar, si ricava dalla decisione dei giudici, sembra aver continuato a mentire in aula fino all’ultimo secondo. Prima che le toghe si chiudessero in camera di consiglio ha parlato per quasi due ore: «Questo processo non è completo. Voglio capire anche io chi l’ha ammazzata, con chi è andata quella notte». E ha pianto mentre diceva che «Saman» era il suo «cuore», il suo «sangue». Ha sostenuto perfino che non era previsto alcun matrimonio combinato. E, infine, che non era «mai stata scavata una buca».
L’ultimo riferimento è alle immagini di sicurezza registrate dalle telecamere dell’azienda agricola in cui lavorava. Nei video sono impressi i parenti di Saman che si aggirano, la notte del delitto, con arnesi da lavoro e con una pala. Dopo il delitto i familiari di Saman avrebbero commesso anche un altro errore, passando, con pala e badile, davanti a una delle telecamere di sicurezza. Mentre proprio Shabbar teneva tra le mani lo zainetto di Saman, uccisa, secondo la Procura solo pochi minuti prima. Il procuratore capo Calogero Gaetano Paci e il pubblico ministero Laura Galli, oltre all’ergastolo per i due genitori, avevano chiesto 26 anni per gli altri tre imputati.
E nonostante gli anni inflitti allo zio Danish siano di molto inferiori rispetto a quelli chiesti dall’accusa, il suo difensore, l’avvocato Liborio Cataliotti, ha annunciato che ricorrerà contro la sentenza: «Accetto la condanna per avere disperso, sottratto e occultato il cadavere, del resto lo ha fatto ritrovare e si è ascritto la paternità di questo atto», ha affermato, «però, impugnerò la condanna per omicidio». Alla lettura del dispositivo che lo condannava all’ergastolo, Shabbar è rimasto impassibile. «Non ha accolto con grande favore questa sentenza, mi sembra evidente: si è sempre dichiarato estraneo all’omicidio della figlia, ha sempre detto che l’omicidio della figlia è una cosa che non solo ha mai pensato, ma neanche fatto in concorso con altri», ha commentato il suo difensore, l’avvocato Enrico Della Capanna, uscendo dall’aula.
I due cugini assolti, invece, sono scoppiati a piangere. Il sindaco di Novellara, Elena Carletti, all’uscita dall’aula ha annunciato di voler organizzare una funzione funebre per Saman: «Aspettiamo le risposte di cui abbiamo bisogno per procedere con i funerali, dobbiamo dare dignità a questa ragazza».
Il cadavere era avvolto in un sacco nero, sepolto due metri sottoterra. I Ris l’hanno trovato all’interno di un casolare diroccato, rudere in mezzo ai ruderi. Fino a poco tempo fa, nei dintorni c’era un allevamento di maiali. Adesso restano il campo incolto, un boschetto e altri edifici. E poi serre, campi, vigne. La casa dove viveva la famiglia di Saman Abbas è lì. A poche centinaia di metri. Sono accusati del delitto della ragazza cinque parenti. L’ipotesi degli investigatori non ha mai vacillato: la diciottenne pakistana fu uccisa per aver osato rifiutare un matrimonio combinato. Il suo corpo sarebbe stato poi sepolto nei dintorni della casa, a Novellara, sperduta campagna reggiana.
I carabinieri l’hanno cercata per un anno e mezzo. Avevano perlustrato anche quella zona, «ma in luoghi e modalità diverse» spiegano gli investigatori. Ora in via Reatino, dietro l’abitazione in cui è stata vista per l’ultima volta, hanno scoperto quei resti umani. È il corpo di Saman? Luogo e circostanze farebbero pensare di sì. Quel casolare è vicino all’ex casa degli Abbas. È adiacente ai campi dell’azienda agricola dove lavorava la famiglia. Ed è nella stessa direzione verso cui andavano i parenti della ragazza, immortalati dalle telecamere di sorveglianza il 29 aprile 2021, giorno prima della scomparsa. Nel filmato si vedono lo zio Danish Hasnain e i due cugini, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, con in mano piede di porco e pala. Secondo gli investigatori, servivano a scavare una fossa. Per seppellire Saman. E infine: la casa diroccata in cui sono stati trovati i resti, era frequentata dai tre. Anche per consumare alcolici, rivela la trasmissione Chi l’ha visto. Dalle prime indiscrezioni, sembra che a rivelare il posto sia stato proprio uno dei tre parenti arrestati. Pure il padre, Shabbar Abbas, è stato catturato in Pakistan pochi giorni fa. Il procuratore di Reggio Emilia, Gaetano Paci, esclude però una repentina confessione dell’uomo: con il ritrovamento dei resti, «lui non c’entra assolutamente nulla».
L’allerta è scattata nel pomeriggio del 18 novembre. La strada è stata subito chiusa al traffico. La mattina seguente sono intervenuti i Ris e i vigili del fuoco con l’escavatore. Non è la prima volta che, in quest’indagine, gli esperti della scientifica dei carabinieri analizzano resti umani. A settembre 2021 concludono che quelli trovati in un canale a Maranello erano di animali. Due mesi dopo, escludono anche la corrispondenza con un osso ritrovato nel Po, vicino a Novellara. Stavolta sembra diverso, nonostante le cautele. Dopo un lungo sopralluogo, il magistrato aggiunge: «Non possiamo ancora dire che si tratta del corpo di Saman». Però anticipa: «Nei prossimi giorni, ci aspetta un lavoro complesso e difficile. L’edificio è pericolante. I resti sono ancora interrati. Potranno essere estratti solo dopo la richiesta di incidente probatorio. La perizia avverrà nel pieno contraddittorio delle parti, con la partecipazione degli indagati e dei loro difensori. I tempi non si possono preventivare».
La scomparsa di Saman è un giallo atroce e misterioso. Comincia la notte del 30 aprile 2021. Viene inquadrata per l’ultima volta dalle telecamere, mentre esce di casa con i genitori. La Procura di Reggio Emilia non ha dubbi: è stata uccisa dai cinque familiari, poi fuggiti da Novellara. Con pervicacia, li hanno scovati. Quasi tutti. Lo zio e i cugini, arrestati in Francia, adesso sono in Italia. L’ultimo ad essere stato preso, in Pakistan, è il padre della diciottenne. L’udienza a porte chiuse del 17 novembre scorso è stata posticipata di una settimana. Potrebbero allungarsi quindi i tempi dell’estradizione. Tra Italia e Pakistan, però, non ci sono accordi bilaterali. E l’uomo è accusato in patria di aver frodato un connazionale.
L’unica imputata a piede libero resta comunque la madre: Nazia Shaheen. È partita per il Pakistan col marito il primo maggio dello scorso anno, dopo la scomparsa della figlia. Adesso, sostiene il coniuge, si troverebbe in Europa. Paci chiarisce: «La sua presenza non è stata minimamente documentata. Questa affermazione lascia il tempo che trova». Il procuratore, però, è ottimista: «Confido che il 10 febbraio, giorno di inizio della corte d’assise, tutti gli imputati siano presenti». Intanto, spera almeno che i tempi dell’estradizione «siano brevi». La testimonianza del padre sarebbe decisiva: per arrivare al processo «con ulteriori elementi di chiarezza». Già, l’uomo avrebbe molto da spiegare. A partire da quella chiamata fatta l’8 giugno 2021, durante la latitanza, a un suo parente. Shabbar gli dice: «Per me la dignità degli altri non è più importante della mia. Io ho lasciato mio figlio in Italia». Si riferisce al fratello minorenne della ragazza, adesso affidato a una comunità protetta. E Saman? Dov’è finita? Le orripilanti parole del padre, al telefono, sembrano già una confessione: «Ho ucciso mia figlia e sono venuto. Non me ne frega nulla di nessuno».
Le autorità pakistane l’avrebbero prima convocato a Islamabad per una frode ai danni di un connazionale, poi gli hanno notificato la «red notice» dell’Interpol, che segue il mandato di cattura internazionale. La latitanza durata oltre un anno e mezzo di Shabbar Abbas, il padre di Saman, la diciottenne pakistana scomparsa nel nulla la notte tra il 30 aprile e il 1° maggio dell’anno scorso a Novellara (perché si era opposta a un matrimonio combinato), è terminata. Shabbar, come riferito martedì sera durante la trasmissione Quarto Grado condotta da Gianluigi Nuzzi su Rete 4, è stato raggiunto dalle autorità pakistane a Charanwala (nella regione del Punjab), il villaggio di origine della famiglia della scomparsa, dove era fuggito con la moglie il 1° maggio 2021. La moglie Nazia Shaheen, anche lei colpita da mandato di cattura internazionale, invece, risulta ancora a piede libero. Entrambi sono stati rinviati a giudizio a Reggio Emilia per le accuse di sequestro di persona, omicidio e soppressione di cadavere in concorso con altri tre parenti, lo zio Danish Hasnain (arrestato in Francia), ritenuto l’esecutore materiale del delitto, e i cugini di Saman Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq, che dopo essere stati arrestati all’estero si trovano in carcere a Reggio Emilia. La richiesta di estradizione era stata firmata dall’ex ministro Marta Cartabia. Ma le relazioni diplomatiche inizialmente devono essersi rivelate poco incisive, visto che la svolta è arrivata solo dopo l’ultimo incontro (che si è tenuto in India) tra i vertici italiani della cooperazione internazionale, il generale Giampiero Ianni e il prefetto Vittorio Rizzi, e le autorità pakistane. Si tratterebbe quindi di una «consegna di cortesia», raggiunta per via diplomatica, perché non ci sono trattati tra i due Paesi che prevedano l’estradizione. Trattandosi di un primo caso, le autorità pakistane hanno cercato una soluzione non facilmente impugnabile in Tribunale (e che renderebbe nullo lo sforzo che i due Paesi hanno fatto finora). L’udienza per la notifica a Islamabad si terrà oggi (e già qui Shabbar potrà far valere le sue argomentazioni). L’ordine di cattura, si apprende, recepisce gli atti di indagine dei carabinieri e della Procura di Reggio Emilia. Ma non è ancora detto che fili tutto per il verso giusto. Shabbar era solo nel momento in cui è stato prelevato dalle autorità pakistane e non ha opposto resistenza. Per l’operazione la polizia federale si è avvalsa della polizia locale del Punjab. Lì le autorità locali sono andate in fibrillazione dopo la pubblicazione di un servizio di Quarto grado che ha mostrato il padre di Saman il 27 agosto partecipare a una funzione religiosa proprio a Charanwala. Il filmato ha quindi dimostrato che il ricercato era facilmente rintracciabile. Nonostante i parenti avessero riferito a più riprese di non averlo visto, creandogli attorno un cordone protettivo che gli ha permesso di sottrarsi alla giustizia. Gli investigatori erano certi che la coppia fosse tornata in Pakistan, dopo aver recuperato le indicazioni del volo che avevano preso in tutta fretta all’indomani della scomparsa e, ritiene la Procura, dell’omicidio. I resti di Saman non sono ancora stati trovati. Ma in Procura sono certi che la ragazza abbia fatto una brutta fine. Soprattutto dopo aver recuperato le confidenze che uno dei cugini ha fatto in cella a un altro detenuto, rivelando che Saman sarebbe stata strangolata, fatta a pezzi e gettata nel Po. «Se colpevole, deve finire i suoi giorni in galera. E non chiamatelo padre ma verme, per rispetto alla povera Saman», ha commentato il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. «È un piccolo passo in avanti e un piccolo progresso importante, anche perché fra pochi mesi, a febbraio, si aprirà il processo», ha detto Elena Carletti, sindaco di Novellara. Ma la notizia è stata accolta in modo positivo anche dagli esponenti della comunità pakistana in Italia e dal mondo islamico. «La speranza è che la giustizia faccia il suo corso e che i colpevoli abbiano la giusta e dura condanna per ciò che hanno fatto», ha affermato l’imam di Catania Abdelhafid Kheit, che ha aggiunto: «Anche l’arresto ha la sua rilevanza a livello diplomatico, dimostrando la collaborazione tra i servizi Italiani e quelli Pakistani». «Speriamo che la giustizia faccia il suo corso e che siano puniti i responsabili», ha detto il presidente della Federazione dei pakistani in Italia Raza Asif, che ha rivendicato come «la comunità pakistana aveva sin da subito condannato il fatto senza se e senza ma». Ed è intervenuto anche l’Ucoii, Unione delle comunità islamiche d’Italia: «Siamo soddisfatti di questo risultato, avevamo lanciato un appello alle autorità pakistane affinché collaborassero con le autorità italiane per l’arresto dei genitori di Saman e per farli processare», ha commentato Yassine Lafram, che dell’Ucoii è il presidente. Poi ha aggiunto: «Siamo soddisfatti. Speriamo davvero che il Pakistan collabori per l’estradizione affinché sia processato in Italia per rispondere alle accuse della magistratura». Parole importanti, soprattutto dopo anni in cui le violenze nelle famiglie musulmane in Italia sono state circondate da una pericolosa omertà.
Quando le telecamere dell’azienda agricola in cui Saman Abbas, la diciottenne scomparsa nel nulla la notte tra il 30 aprile e l’1 maggio scorso a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, viveva con i suoi genitori l’hanno ripresa mentre si incamminava verso i campi, la fossa per non aver accettato un matrimonio combinato era già stata scavata. Il dettaglio è contenuto in uno dei verbali di Alì, il fratellino di Saman che è stato affidato a una casa d’accoglienza dopo essersi messo contro tutta la famiglia. «Due o tre giorni prima lui andava a scavare non so dove». Alì parla di suo zio Danish Hasnain, definito dagli inquirenti come un uomo violento ma molto rispettato nella famiglia. Il particolare, finito tra le centinaia di pagine di atti investigativi a supporto dell’ordinanza di custodia cautelare per i genitori, è contenuto in poche righe che i magistrati hanno evidenziato in grassetto.
Il ragazzino poco prima, sempre riferendosi allo zio, aveva svelato l’inquietante sospetto che fosse stato lo zio ad assassinare Saman con queste parole: «È sicuro che le ha fatto qualcosa di male». Poi il dettaglio agghiacciante sulla fossa scavata giorni prima, al quale il sedicenne ha aggiunto: «Gliel’ho chiesto di poter andare con lui a scavare ma non ha mai accettato». Il 29 aprile, ovvero il giorno che precede l’omicidio, infatti, in uno dei video registrati dalla telecamera, alle 19.33 si vede lo zio incamminarsi per la carraia che porta nei campi. E si vede anche Alì che prova a seguirlo. Gli investigatori annotano che «effettivamente la gestualità visibile nei primi frame del video» mostra che il ragazzino sarebbe stato respinto e rimandato a casa. Questo punto della testimonianza sembra rendere più logica la ricostruzione degli inquirenti. Che nei video ripresi dalle telecamere la notte tra il tra il 30 aprile e l’1 maggio hanno visto la ragazza, dopo un litigio con la mamma (in questo frangente sarebbe arrivato anche lo zio), che si incammina per la strada carraia alle 12.11 con uno zainetto sulle spalle. E sei minuti dopo i genitori che rientrano in casa senza Saman, ma con il suo zainetto. Un lasso di tempo troppo stretto per commettere un omicidio, scavare una fossa e occultare il cadavere. La fossa, come svela Alì, doveva essere già stata scavata.
«Lei è uscita ed è stata seguita da mamma e papà», racconta ancora Alì, «io sono rimasto sulla soglia della porta. Lei è andata avanti e poi ho sentito la voce di mio zio. Ho udito la voce di mia sorella una sola volta e poi penso che mio zio le abbia tappato la bocca con una mano. Poi ho udito la voce di mio zio che urlava ai miei genitori di andare via che ci pensava lui e i miei genitori sono tornati indietro».
I carabinieri del nucleo operativo di Reggio Emilia, in una informativa, inoltre, hanno anche ricostruito un evento che sembra blindare l’attendibilità del giovanissimo testimone: «Alle 23.10 del 30 aprile le telecamere hanno ripreso Saman, in abiti tradizionali pakistani, e la madre entrare in casa dopo una discussione animata. Ebbene in controluce si coglie pure Alì sulla porta dell’abitazione che osserva le due donne; cioè nell’esatto angolo di visuale dal quale ha osservato la scena del litigio tra la sorella e i genitori, poi culminata nell’arrivo dello zio e nella conseguente scomparsa della ragazza (che quando esce di casa per l’ultima volta indossa jeans e scarpe da ginnastica, segno, secondo la Procura, che proprio quella sera Saman voleva lasciare la famiglia, ndr)». Alì, nel suo drammatico racconto, in uno dei verbali ricorda anche le fasi successive: «Ho visto mio padre che è ritornato in casa con lo zaino che aveva Saman, quello di color avorio che mia sorella aveva sulle spalle quando è uscita. Lo zio ha dato a mio papà lo zaino dicendo di portarlo a casa e di nasconderlo. Poi mio padre, quando è arrivato a casa, si è sentito male e ha iniziato a piangere». A quel punto il ragazzino deve aver capito che era finita male. E agli investigatori ha detto anche di essere uscito per cercare la sorella «nelle serre di cocomeri e meloni». «Vero è che non ha assistito all’omicidio», valutano i giudici del Riesame che hanno lasciato in carcere uno dei cugini, «ma la convinzione che Saman sia stata effettivamente uccisa dallo zio è fondata sul contesto direttamente percepito».
L’analisi dei tabulati telefonici del cellulare dello zio confermerebbe la dinamica. A partire dalle 23.06 riceve una serie di chiamate dal padre di Saman. L’ultima risale a 12 minuti prima che Abbas e la moglie accompagnino fuori casa la figlia. Dalle 23.57 il telefono dello zio resta in silenzio. Fino alle 3.03, quando con una chiamata Whatsapp, durata 52 minuti, contatta un’utenza memorizzata col nome Love Gujjar. Dalla ricostruzione fornita da Alì sull’ora del delitto restano fuori i due cugini indagati (quelli ripresi dalle telecamere insieme allo zio armati di una pala, di un secchio, di un telo azzurro e di un piede di porco). Nel suo racconto compaiono solo dopo: «Quella sera sono venuti a casa nostra. Sono entrati dalla porta davanti. Poi non so se sono rimasti a dormire». Nella sua versione, prima sarebbe rientrato lo zio e avrebbe cercato di consolarlo per la scomparsa di Saman. «E sempre durante la notte ma dopo lo zio», annotano gli investigatori, «erano arrivati a casa anche i cugini». Che potrebbero aver ultimato il lavoro.
«Fra tutti», scrivono i giudici, «vi è stata una sorta di disperazione e di pianto collettivo». Lacrime di coccodrillo, se le ipotesi della Procura dovessero trovare riscontro.







