Con particolare discrezione, e un silenzio a dir poco assordante, il 20 maggio scorso è stato pubblicato il bando interno (il cosiddetto interpello) con cui palazzo Chigi sceglierà il dirigente che si occuperà della riorganizzazione del comitato del golden power. La Verità ne aveva già parlato ad aprile. In pratica la presidenza del Consiglio ha deciso di creare una nuova struttura «per le attività propedeutiche all’esercizio dei poteri speciali, la cooperazione europea, lo studio e l’analisi degli investimenti dei settori strategici», appunto il golden power. L’interpello fa seguito al decreto del 12 maggio firmato da Roberto Garofoli, segretario generale della presidenza del Consiglio. Ora la partita entra nel vivo. Con alcune particolarità. Di solito il regolamento prevede 10 giorni di tempo per la presentazione delle candidature. Questa volta invece, di fatto, il bando interno è durato poco meno di 5 giorni. Essendo uscito venerdì 20, di sera, molti dirigenti ne hanno avuto notizia solo lunedì 23. E per preparare la documentazione hanno dovuto fare molto in fretta, anche perché scade venerdì 27. È una fretta che di certo lascia qualche dubbio, anche perché si tratta di un incarico più che mai strategico. Del resto deve essere nominato il coordinatore della struttura, ovvero colui che nei prossimi anni valuterà e sotto cui passeranno le decisioni della politica industriale del governo. Ma soprattutto sarà scelto il dirigente che farà da metronomo nei rapporti diplomatici con i Paesi esteri. Che si ritroverà a esaminare le segnalazioni delle aziende entrate nel mirino di fondi stranieri. E che avrà anche il compito di analizzare i movimenti di mercato che avranno un impatto sulla sicurezza nazionale, dagli interessi della Cina a quelli della Russia. La struttura ricadrà sotto il Dica (Dipartimento per il coordinamento amministrativo). Tra i requisiti c’è l’esigenza di essere un dirigente di prima fascia, laurea magistrale, conoscenza della lingua inglese, di avere «conoscenza del diritto amministrativo e societario, con particolare riferimento alla normativa in materia di poteri speciali», di avere «esperienza nella gestione di procedimenti amministrativi con attività di supporto e coordinamento interministeriale e nella predisposizione dei relativi atti e provvedimenti amministrativi», nonché «esperienza in materia di contenzioso amministrativo». Dopo la chiusura dell’interpello, la prossima settimana sarà emanato un decreto per formare la commissione che dovrà valutare i requisiti di ammissione. A quel punto sarà scelto in una rosa il nuovo dirigente. È noto da tempo come il Pd abbia spinto perché il nuovo coordinatore ricada sotto l’ala amministrativa del Dica. Non bisogna dimenticare che tra i candidati ci dovrebbe essere Bernardo Argiolas, al momento dislocato al Servizio per le attività propedeutiche all’esercizio dei poteri speciali. Argiolas cura il coordinamento delle attività per il golden power in relazione a operazioni societarie che possono costituire una minaccia «per gli interessi della difesa e della sicurezza nazionale (compresi i servizi di comunicazione elettronica a banda larga basati sulla tecnologia 5G), nonché per gli interessi pubblici nei settori dell’energia, dei trasporti». Argiolas è molto vicino al Pd. Ha un passato universitario al fianco di professori come Sabino Cassesse (dal 2000 al 2005) e Bernardo Giorgio Mattarella, figlio di Sergio. Ma indirettamente, dato il suo passato in Agcom e nell’autorità di regolazione dei trasporti, è considerato vicino anche a Massimo D’Alema. Argiolas però potrebbe avere un problema: è ancora un dirigente di seconda fascia.
I talk show della Rai che non corrispondono al Draghi pensiero vanno riformati. Dopo aver incassato i diktat di Palazzo Chigi durante un incontro con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli, al quale hanno partecipato anche Giancarlo Giorgetti, titolare del Mise cui fa capo il contratto di servizio, e la presidente di Mamma Rai Marinella Soldi, l’amministratore delegato della televisione pubblica Carlo Fuortes si è presentato in Commissione di vigilanza e ha snocciolato - senza eccepire - le direttive appena ricevute per la tv di Stato by Mario Draghi. A partire da un pesante giro di vite sui talk show e sulla scelta degli opinionisti. Nelle linee guida ci sarebbe un approfondimento giornalistico rafforzato ma non più prerogativa dei talk show, indicati invece per affrontare argomenti più leggeri. Tutti hanno subito pensato a Cartabianca e alla sua conduttrice Bianca Berlinguer, che da un po’ viene indicata come putiniana ed è finita alla berlina anche per la presenza di Mauro Corona e del professor Alessandro Orsini. Il programma non verrà sospeso, come si vociferava, ma probabilmente non ripartirà dopo l’interruzione estiva. Durante la riunione non si sarebbe parlato di una interruzione definitiva immaginando, o forse sperando, che la conduttrice si uniformi alle linee guida. E anche se nel corso dell’incontro il tema soppressioni non sarebbe stato toccato, nei corridoi Rai si darebbe comunque come sicura la chiusura del talk show che ha perseverato nelle presenze scomode. Naufragata l’idea di un programma alternativo per la Berlinguer, in seconda serata su Rai 1, si era pensato a un cambio di conduzione con passaggio di mano a Roberta Rei, inviata delle Iene, col giornalista Giorgio Zanchini, che però difficilmente sarebbe stato concorrenziale con la trasmissione che conduce su La7 Giovanni Floris, ragione che aveva portato al lancio di Cartabianca. Nel frattempo la Berlinguer ha incassato un primo intervento di Adriano Celentano: «Ho letto che pensano di chiudere la trasmissione, se fosse vero sarebbe gravissimo». Oltre che, stando a quanto si vocifera in Rai, sarebbe netta la vittoria del Pd, che immediatamente aveva puntato l’indice contro Cartabianca. «La Rai è al servizio del pubblico o al servizio di qualche agente e del Pd?», si è chiesto il leader della Lega Matteo Salvini, che ha aggiunto: «Sono politicamente lontano da Bianca Berlinguer ma difendo il confronto, il dibattito libero e garbato, il pluralismo. Chiudere Cartabianca puzzerebbe di censura». Stessa linea per Nicola Fratoianni, non proprio un compagno di parrocchia del leader leghista: «Vogliono chiudere Cartabianca per eccesso di pluralismo sulla guerra. Pazzesco. Chiudere trasmissioni per ragioni politiche significa esercitare una forma di censura, lo sanno?». Solidarietà anche da Daniela Santanché, senatore di Fdi e capogruppo nella Commissione di Vigilanza Rai: «Da tempo denuncio che il Pd considera la Rai come l’azienda di famiglia, nella quale sistemare gli amici giornalisti e decidere palinsesti a proprio piacimento». Curiosamente, proprio fra le fila dei dem nessuno ha rilevato minacce al pluaralismo della tv di Stato.
Il potere è in famiglia: la moglie di Garofoli fattura 30 milioni con i corsi per i pm
Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo stralci da Potere assoluto, ultimo libro di Sergio Rizzo in vendita da oggi (Solferino libri, 256 pagine, 17 euro). Il popolare giornalista si concentra su influenza e soldi attorno ai magistrati più potenti d’Italia: Csm, consiglieri di Stato, procuratori. Il brano proposto tocca il tema dei corsi di formazione dei magistrati, assurto alle cronache per il «caso Bellomo». Ma, al di là delle vicende pecorecce, Rizzo dà conto dell’intreccio di società decise a difendere fatturati pazzeschi: sono quelle che organizzano appunto le docenze per preparare le future toghe agli esami. Tra i protagonisti di queste società occupa un posto di primo piano Maria Elena Mancini, moglie di Roberto Garofoli, potente uomo di Stato che, a seguito di un lunghissimo cursus honorum, è oggi sottosegretario di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Come mostra il titolo in pagina (3 gennaio 2018), La Verità si è occupata nei suoi primi anni di vita del tema, pizzicando proprio alcuni dei protagonisti descritti da Rizzo.
L’epicentro delle scuole di formazione è in Puglia, fra Bari e il circondario. Prendiamo la storia della Dike Giuridica Editrice. Tutto comincia l’11 dicembre 2006, quando una giovane e intraprendente signora barese, Sandra Della Valle, va dal notaio per costituire una società, la Dea immobiliare. Quel nome però sopravvive pochi mesi. Il 24 maggio 2007, infatti, Sandra Della Valle ci ripensa. Si reca da un altro notaio, questa volta a Palombara Sabina, nei pressi di Roma, e cambia tutto. La sua società non si chiama più Dea immobiliare bensì Ildirittopericoncorsi.it. E non si occupa di case e terreni ma di corsi di formazione per i concorsi pubblici che deve sostenere chi vuole fare, per esempio, il magistrato. Una metamorfosi assolutamente singolare, dettata da chissà che cosa. Ma contestualmente alla modifica della denominazione sociale e dello statuto arriva anche un secondo azionista, che rileva l’1%. Si tratta di Nicola Campione. [...]
Ancora pochi mesi e l’irrequieta imprenditrice Sandra Della Valle torna dal medesimo notaio di Palombara Sabina per cambiare di nuovo il nome della società. Che il 4 febbraio 2008 viene così battezzata con il nome, si spera definitivo, di Dike Giuridica Editrice. Scopo sociale: «Pubblicazione e commercializzazione di opere prevalentemente in materia economico-giuridica» e «l’organizzazione di corsi per la preparazione a esami universitari e concorsi statali».
Il rapporto d’affari fra la signora Della Valle e Nicola Campione prosegue per anni evidentemente in modo prolifico, se il 4 dicembre 2017 i due costituiscono un’altra società, stavolta in accomandita. Si chiama Training & Law di Nicola Campione sas. Oggetto, la «formazione professionale, nonché la preparazione a esami universitari e concorsi pubblici» e «la pubblicazione di opere editoriali prevalentemente in materie economico-giuridiche». Praticamente la fotocopia dello statuto Dike. E stavolta compare anche un terzo socio, appena diciottenne: Antonio Caringella, il figlio di Sandra Della Valle e di suo marito Francesco Caringella. Proprio lui. Perché la proprietaria della società Dike nonché socia dell’attivissimo Campione è la consorte di uno dei consiglieri di Stato più noti e stimati nel circuito della magistratura amministrativa. Francesco Caringella, nato, come la moglie, a Bari, è dal 1998 al Consiglio di Stato, dove ha scalato i gradini più impervi raggiungendo l’invidiabile posizione di presidente di sezione. [...] Caringella è diventato fra i consiglieri di Stato una specie di recordman degli incarichi «extragiudiziali» di insegnamento. A dire la verità ha fatto anche una puntatina nel mondo degli arbitrati, come presidente del collegio che doveva decidere la controversia da 15 milioni fra la Fiat e la Tav. Ma niente al confronto dell’attività didattica, regolarmente autorizzata dal Csm del Consiglio di Stato: in una decina d’anni ha superato agevolmente 300.000 euro di compensi per le sue lezioni. Pagate anche 800 euro l’una. Dal 2008 ha collezionato quasi una ventina di incarichi, tutti in società private di corsi di formazione e preparazione per concorsi da magistrato o esperto giuridico. Legate, all’apparenza, da uno stesso filo rosso barese. Nella lista non poteva mancare la Dike di sua moglie, presso cui il Consiglio di giustizia amministrativa lo ha autorizzato nel 2019 a tenere un corso che gli ha fruttato 60.000 euro lordi. Poi c’è l’Accademia Juris Diritto Per Concorsi, una srl di Bari di proprietà del barese Carlo Giampaolo. Ha un indirizzo di posta elettronica certificata curiosamente identico alla penultima denominazione sociale assunta dalla Dike: ildirittopericoncorsi@pec.it. Talmente identico che assai difficilmente ci può essere un caso di omonimia. Soprattutto ci sono la Lexfor e la Corsolexfor, da cui Caringella ha avuto una dozzina di incarichi di docenza. Si tratta di società che fanno capo al socio della consorte, Nicola Campione, barese, classe 1964: il quale risulta in entrambe azionista di minoranza con altri due soci baresi, ma è amministratore unico. [...]
Per la serie poi «le coincidenze non esistono», la Corsolexfor di Campione, socio della moglie di Caringella, ha sede a Molfetta, trenta chilometri da Bari. E in via San Francesco d’Assisi al numero 51. Dove si trova una sorpresa. Lo stesso indirizzo ospita anche tre società operative nello stesso campo dei corsi di formazione per esami e concorsi pubblici e dell’editoria giuridica. Neldiritto Editore srl, Nld Concorsi e Omniaforma sas, queste le tre sigle, hanno anche la medesima proprietaria originaria di Bisceglie, altra città sempre vicino a Bari: Maria Elena Mancini. Un’altra moglie.
Maria Elena Mancini è infatti la consorte di Roberto Garofoli. Consigliere di Stato fra i più conosciuti e influenti, già capo di gabinetto del ministro della Pubblica amministrazione e poi presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, nonché dei ministri dell’Economia Pier Carlo Padoan e Giovanni Tria. Fino all’incarico più prestigioso e politico: sottosegretario alla presidenza del Consiglio, braccio destro del capo del governo Mario Draghi. Garofoli, pugliese di Taranto, mostra una tale passione per l’insegnamento al punto da tallonare da vicino per numero di incarichi «extragiudiziali» didattici autorizzati il suo collega e amico Caringella. Un paio li ha svolti presso la società Neldiritto di sua moglie Maria Elena Mancini. Ma la stragrande maggioranza commissionati sempre da Lexfor e Corsolexfor di Nicola Campione: talvolta in parallelo con Caringella.
[...] Le società di formazione dal pedigree barese (una decina), ruotano intorno alle figure di alcuni magistrati. Tutte o quasi sono diventate operative a cavallo del 2007-2008, quando è iniziato il boom delle scuole private per i concorsi di giustizia. Da allora e fino alla fine del 2019, secondo quanto è stato possibile calcolare, hanno incassato 66,1 milioni. Con utili netti per 7,8. Il tutto ampiamente per difetto perché i bilanci delle società in accomandita semplice non sono reperibili nelle banche dati delle imprese di capitali. Il solo fatturato delle due srl di Maria Elena Mancini, la moglie di Garofoli, ha quasi raggiunto 30 milioni: 29 milioni 937.000 euro. E gli utili netti sono ammontati a 2 milioni 248.000 euro. La Dike di Sandra Della Valle, moglie di Caringella, ha registrato un giro d’affari di 14 milioni 251.000 euro, per 410.444 euro di utili netti. Nel 2019 Sandra Della Valle ha poi venduto la propria quota, allora del 94%, all’avvocato di Bari Marco Giustiniani per 115.000 euro. Nei soli anni successivi al 2015, quando Corsolexfor e Lexfor hanno abbandonato lo status di accomandite per trasformarsi in srl, le attività di Nicola Campione e degli altri azionisti hanno sommato ricavi pari a 7 milioni 513.000 euro, e profitti netti per 1 milione 684.000 euro. Ancora. Alla Accademia Juris, società di Carlo Giampaolo, i corsi hanno fruttato 622.000 euro di utili netti, su un fatturato di 6 milioni e mezzo. E poi dicono che in Italia la giustizia non funziona.
«Lettera, quale lettera?». Di fronte alle ultime affermazioni del ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini, pronunciate come risposta a chi lo incalzava sui ritardi nelle nomine dei commissari che dovrebbero accelerare la messa a terra dei progetti previsti dal Pnrr di competenza del suo dicastero, la tentazione di parafrasare Igor, personaggio leggendario di un film di culto mondiale come Frankestein Junior, è irresistibile. Il povero maggiordomo Igor - lo ricorderete certamente - curvo fino all'inverosimile, replicava all'illustre scienziato che gli faceva presente di poter fare qualcosa per alleviare la sua menomazione, con un tranchant e beffardo «Gobba, quale gobba?». E così Giovannini, ai cronisti che gli hanno chiesto un commento sulla missiva inviatagli da alcuni commissari straordinari governativi allarmati dal ritardo accumulato nelle nomine dal Mit (che pare ora si chiami Mims, acronimo di ministero delle Infrastrutture e delle mobilità sostenibili), non ha trovato di meglio che negare l'esistenza della lettera, affermando di non aver ricevuto nulla.
Ma ciò che deve allarmare maggiormente i contribuenti, è che questa forse è la parte meno bislacca delle affermazioni del ministro, che in alcuni passaggi ha mostrato un certo scollamento dalla realtà, se si tiene conto del fatto che i ritardi a lui imputati sono stati evidenziati da alcune figure individuate dallo stesso premier Mario Draghi per stare nei tempi e nei modi indicati da Bruxelles, nonché denunciati a mezzo stampa. A oltre 100 giorni dal varo del decreto Semplificazioni - che ha tracciato minuziosamente il cronoprogramma, con tanto di target e le cosiddette milestones - per la concreta realizzazione dei progetti connessi al Pnrr, non è stato ancora insediato da Giovannini il comitato speciale del Consiglio dei lavori pubblici (composto da 29 membri), organismo indispensabile per avviare la cosiddetta «corsia preferenziale» per l'approvazione dei progetti infrastrutturali. Accanto a questa, manca all'appello anche la commissione per la valutazione di impatto ambientale (Via) speciale per i progetti Pnrr e Pniec, che nella fattispecie è di competenza del ministero della Transizione ecologica, guidato da Roberto Cingolani. Che, almeno finora, ha avuto il buon gusto di non fare come Giovannini-Igor, che parla di profili «identificati e ora all'esame della presidenza del Consiglio» e di «nessun ritardo, anzi...».
Una difesa del proprio operato, quella di Giovannini, che cozza dunque con i segnali che giungono da Palazzo Chigi, dove invece la preoccupazione per i ritardi è palpabile e non lo si nasconde. Il sottosegretario Roberto Garofoli sta insistendo da tempo sui punti di sofferenza nel raggiungimento degli obiettivi mensili inizialmente additati, e sulla lentezza con cui i decreti attuativi legati al Recovery vengono recepiti dalle varie amministrazioni, tanto che il traguardo finale dei 51 target cui pervenire entro la fine dell'anno appare oramai irrealistico, visto che tolte le riforme già approvate ne rimangono una quarantina circa. Giova ricordare, per chi - anche all'interno dell'esecutivo - se ne fosse dimenticato, che il mancato raggiungimento dei suddetti obiettivi, che sono stati concordati e garantiti con l'Ue, comporterebbe la mancata erogazione delle prossime rate delle risorse previste, dopo i primi 25 miliardi corrisposti all'Italia come anticipo. Suonano quindi fuori luogo i toni trionfalistici usati, accanto a quelli irrealistici, sempre dal ministro Giovannini quando brandisce come se fossero già nelle sue tasche i miliardi previsti dal Recovery per il suo settore, rivendicando l'ineluttabile abbattimento di milioni di tonnellate di CO2 all'anno e l'avanzamento delle grandi opere.
La realtà parla d'altro, come hanno fatto notare negli ultimi giorni - oltre a Garofoli stesso - puntuali e documentati articoli di giornali come Il Sole 24 Ore e il Quotidiano del Sud: dopo l'iniziale euforia, sembra di essere rapidamente caduti nel solito, disarmante dedalo della Pa, fatto di compartimenti stagni, di decreti attuativi rimasti lettera morta, di amministrazioni che non parlano tra di loro e di boiardi irremovibili nella difesa di rendite di posizione ultradecennali, con la conseguente mancata messa a disposizione di risorse e strutture previste dal Pnrr, come lamentato nella famosa lettera. Tanto che, secondo i bene informati, starebbe balenando ai piani alti di Piazza Colonna l'idea di una maggiore centralizzazione di questo processo: un primo step in questa direzione potrebbe essere una cabina di regia, la settimana prossima. L'ipotesi di una riunione tra il premier i ministri maggiormente implicati nel Pnrr e gli enti locali, in cui si faccia il punto a tutti i livelli dello stato concreto di avanzamento di nomine, procedure e messa a terra dei progetti, viene infatti data dai bene informati come altamente probabile, e in quella sede negare l'evidenza non gioverà a nessuno.
- Per tenere unito il M5s, Giuseppi millanta vittoria per aver ottenuto dal Guardasigilli il no all'improcedibilità per i reati di mafia e terrorismo. Ma è mediazione di bandiera.
- Sinistra, M5s e Iv votano per non allargare il perimetro di Marta Cartabia all'abuso d'ufficio.
Lo speciale contiene due articoli.
Una pallottola spuntata, due. Giuseppe Conte gira intorno alla sfiducia sulla riforma della giustizia, non si sbilancia neppure su un eventuale voto degli iscritti M5s su prescrizione e dintorni e anche l'ala più giustizialista del Movimento si prepara a incassare le modifiche sui processi per mafia e terrorismo con un piccolo gioco di prestigio semantico, ovvero definire la legge in discussione alla Camera «più Bonafede che Cartabia». Dopo l'idea di ritirare i ministri grillini dal governo, smentita da Conte come minaccia, ma comunque fatta girare nei giorni scorsi come scenario, il capo politico «incaricato» del Movimento anche ieri ha sfoggiato tutto il suo riconosciuto equilibrismo, fatto di «dico e non dico», mezze misure, chiusure a tre quarti e aperture condizionate. Il fatto è che se anche mai decidesse di non votare la fiducia al governo del suo successore, Conte rischierebbe sulla propria pelle di scoprire fin dove arrivano veramente i poteri del Garante Beppe Grillo. E questo prima ancora del voto della base sulla sua leadership di Uomo della provvidenza designato.
Le trattative sul maxiemendamento Cartabia al progetto del suo predecessore, Alfonso Bonafede, sono in pieno svolgimento. Nel loro incontro di ieri a Montecitorio, i deputati di M5s e Conte si sono detti che serve ancora prudenza, visto che non c'è ancora un testo scritto definitivo che salvi i processi per reati di mafia e terrorismo dalla tagliola dell'improcedibilità. Il Guardasigilli lo sta ancora limando con Palazzo Chigi, dove il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Roberto Garofoli, segue in prima persona la pratica. Da quello che trapela del summit pentastellato, c'è un certo ottimismo sul fatto che non ci saranno scherzi, anche perché Giuseppi ha spiegato che Draghi si è impegnato al telefono con lui. Poi, certo, a questo punto la vera paura di M5s è che salti fuori qualche cavillo dell'ultima ora che possa allentare la lotta alla corruzione e ai reati dei colletti bianchi, ma a porte chiuse Conte ha detto di fidarsi.
Uscito dalla riunione, però, ha cercato in qualche modo di ostentare cautela e lanciare qualche messaggio al governo di cui fa parte, senza però alzare minimamente i toni. Un'arte che ha dimostrato di possedere ai massimi livelli nei tre anni di governo, quando «minacciava» di revocare le concessioni di Autostrade ai Benetton, oppure intimava a Telecom Italia e Open Fiber di dar vita alla famosa Rete unica 5G, usando termini fumosi e fintamente perentori. E così, ai cronisti che gli chiedevano se il Movimento potrebbe non votare la fiducia sul provvedimento, Conte ha risposto con un giro di parole: «Le minacce non mi sono mai piaciute, il mio è un atteggiamento costruttivo. Valutiamo questa disponibilità del governo a modificare il testo, queste aperture che sono state pubblicamente anticipate, poi valuteremo». Già, ma il problema è che un testo scritto, a ieri sera, non era ancora arrivato ai deputati della commissione Giustizia. Anche qui Giuseppi si è destreggiato alla sua maniera: «Io non voglio neppure considerare l'ipotesi in cui non venga modificato il testo. È sbagliato dire che noi dobbiamo essere accontentati e altre formazioni no. L'obiettivo è avere un sistema di giustizia efficiente».
E già, chi non vorrebbe una giustizia efficiente, ma il punto è che quando si ha a che fare con un premier come Draghi, che ha già serenamente avvertito che sulla giustizia metterà tranquillamente la fiducia, è difficile fare la voce grossa. Tanto è vero che l'importante, per Conte, è portare a casa quella promessa su mafia e terrorismo, che in fondo alla Cartabia costa poco perché già nell'ultima versione della legge, con le corsie preferenziali stabilite ai processi con imputati detenuti, sarebbe assai difficile perdersi per strada quei dibattimenti. Non solo, ma la modifica promessa nel weekend consentirebbe ai 5 stelle di raccontare al proprio elettorato che quella che andrà in porto sarà sostanzialmente la riforma proposta dal grillino Bonafede.
Ma la partita sulla riforma giocata da Conte è in realtà molto interna al Movimento. Ancora non è stato deciso se gl'iscritti, utilizzando la nuova piattaforma post-Rousseau, saranno chiamati a votare sul testo finale, prima del voto di fiducia della prossima settimana. «Voto degli iscritti? Valuteremo, valuteremo..:», ha detto Conte. Che in realtà, pare aver già deciso perché se porterà a casa questa mediazione di bandiera, sarebbe poi imbarazzante se dal voto della base uscisse una sonora bocciatura. Bocciatura che per altro colpirebbe anche Grillo, ispiratore della linea morbida con il governo Draghi.
E a proposito di equilibri interni, Conte non ha resistito ad appuntarsi già una prima medaglia, nonostante la partita della Giustizia sia ancora aperta. «Ecco perché serviva una leadership forte», ha detto l'ex sedicente avvocato del popolo, «non per un interesse mio personale, ma per il bene del movimento». E per questo, sostiene di aver rinunciato a correre per un seggio al Senato alle suppletive di Siena, contro Enrico Letta: «L'attività per la rifondazione del M5s è a tempo pieno». Più comodo esordire come capolista blindato nel 2023.
Giallorossi compatti contro i garantisti del centrodestra
Dopo una giornata densa di avvenimenti, il baricentro della riforma Cartabia sembra spostarsi verso l'asse giallorosso (più giallo che rosso, in questo caso). Nel giro di poche ore, infatti, si sono susseguiti vertici di governo ai massimi livelli, incontri tra leader di partito e gruppi parlamentari e sedute di commissione tese con tanto di voti decisivi. Il risultato finale è che, salvo rovesciamenti di fronte da mettere sempre nel conto in questi casi, soprattutto quando ci si trova di fronte a una maggioranza estremamente eterogenea come questa, la strada del maxiemendamento che il governo paracaduterà su Montecitorio al momento del voto di fiducia annunciato dal premier Mario Draghi sta prendendo una direzione più vicina alle istanze di Giuseppe Conte che a quelle del centrodestra.
Mentre l'ex-premier riuniva le sue truppe (a loro volta divise tra ortodossi giustizialisti e governisti aperti al compromesso) mostrandosi determinato a tenere il punto sull'esclusione dai reati di mafia e terrorismo dall'improcedibilità e Draghi si confrontava per la seconda volta in 24 ore a Palazzo Chigi con il Guardasigilli, in commissione Giustizia alla Camera un voto negava a Forza Italia e agli altri partiti del centrodestra la richiesta di allargare il perimetro della riforma Cartabia a reati propri della Pa come l'abuso d'ufficio e alla definizione di pubblico ufficiale, come contenuto in tre emendamenti a firma del capogruppo azzurro Pierantonio Zanettin, giudicati inammissibili.
Al momento del voto, la maggioranza del fu governo Conte si è ricompattata, con Italia viva che ha votato assieme a Pd, M5s e Leu, ai quali si sono aggiunti i voti di Azione e di Coraggio Italia. Da segnalare l'astensione di Maurizio Lupi di Nci, che quindi non ha votato assieme alle altre forze del centrodestra. La richiesta di Forza Italia, sostenuta dagli alleati, era arrivata dopo che dal Guardasigilli era filtrata la disponibilità a rivedere l'impianto della riforma approvata un paio di settimane fa in Cdm anche col voto favorevole dei ministri grillini, poi sconfessati da Conte e dall'ala più giustizialista di M5s.
Dura le reazione del coordinatore azzurro Antonio Tajani, che ha preso atto della riapertura delle trattative sulla riforma nella sola direzione del centrosinistra: «Quando, come oggi», ha detto, «si decide sulla giustizia, il centrodestra è unito. Ma si ricostituisce anche un asse giustizialista guidato da Pd e M5s. Bloccare gli emendamenti sulla Pubblica amministrazione danneggerà sindaci e amministratori pubblici, ingolfando i tribunali. Un passo indietro sulla strada della libertà». Il Pd, che più volte in passato si era mostrato favorevole, in linea di principio, alla revisione del reato di abuso d'ufficio, dopo aver tenuto per giorni una strategia attendista ha optato definitivamente per il sostegno alla linea grillina, parlando attraverso il capogruppo in commissione Alfredo Bazoli di respingimento del «tentativo di Fi e Lega di affossare la riforma».
Dal canto suo, il leader leghista Matteo Salvini, pur non avendo fatto mancare il sostegno del Carroccio a Forza Italia in commissione Giustizia, continua a puntare le proprie fiches sui referendum (oggi sottoscritti anche da Emma Bonino e dai vertici di +Europa), affermando che la riforma «la faranno gli italiani» e criticando i «capricci» di Conte e Grillo. Che però potrebbero far breccia su un ministro molto attento, secondo i bene informati, a non pregiudicare con qualche scivolone pro-mafiosi, le proprie chances di ascesa al Colle più alto.







