Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.
Franco Arminio (Getty Images)
Il poeta: «Questa realtà che si presenta come razionale è invece delirante, non possiamo affidare tutto all’economia o fare a meno di Dio. In Occidente viviamo un’epidemia della solitudine, raccontiamo un’apocalisse ogni giorno. Ma la vita è soprattutto bene».
Il nuovo libro del poeta Franco Arminio - Caraluce. Atlante dei paesi invisibili con illustrazioni di Manuele Fior (Rizzoli) - è un universo in miniatura composto di mondi scaturiti dalla fantasia dell’autore. Una antologia di utopie, cioè di luoghi che non esistono ma che è bello sognare. Un catalogo di sogni in cui rifugiarsi per scappare da una quotidianità triste.
Arminio, abbiamo bisogno di paradisi artificiali in in cui trasferirci perché la nostra realtà non ci fa vivere bene?
«Da sempre gli uomini immaginano. Che cosa era il mito se non una forma di immaginazione? Poi, via via che si è affermata, la ragione ha un po’ bonificato questa palude immaginativa, secondo me arrivando all’eccesso. Cioè fino a eliminare una quota importante di attenzione all’invisibile, producendo una sorta di accanimento sul contingente, sul visibile».
Insomma, abbiamo perduto l’immaginazione.
«Sì e questo in qualche modo, secondo me, impoverisce il nostro rapporto col visibile: abbiamo bisogno dell’invisibile per vedere meglio il visibile, questo è il tema del libro».
Quali sono questi luoghi dell’immaginazione a cui ha dato vita?
«Alcuni potrebbero anche sembrare dei paesi reali. C’è un paese in cui regna il silenzio, dove addirittura si sente il rumore che fa lo zucchero quando cade nella camomilla. Qui ci sono anche delle allusioni allo spopolamento, allo svuotamento dei paesi che produce un grande silenzio. Altri paesi sono frutto di una sorta di eccesso immaginativo e, dunque, non possono esistere. Ma quando si lavora con l’immaginazione, non c’è un confine. Questo libro è veramente un viaggio che spero sia anche gioioso. Perché ciò in cui credo fortemente è che i libri debbano trasformare la malinconia in cui viviamo in stati espansivi e lo stato espansivo per eccellenza è l’allegria, che è un’uscita da sé in qualche modo. Abbiamo un po’ bisogno di uscire da noi stessi, da questa sorta di galera che ci siamo costruiti: la nostra carriera, le nostre cose di tutti i giorni...».
A proposito di prigioni della mente. In questi anni in Europa, e più in generale in Occidente, è come se avessimo assistito alla costruzione di un mondo artificiale, qualcosa che prescindeva dalla realtà che avevamo sempre conosciuto. Un mondo dominato dagli schermi, in cui ci si illude che la tecnologia possa liberarci dalla fatica e dalla malattia, in cui possiamo modificare i corpi come vogliamo... Un mondo artificiale, appunto, immaginario, che non tiene molto conto della natura dell’esistente.
«Ma infatti il mondo che si presenta come razionale in realtà è delirante. Gli uomini hanno sempre avuto questa attività delirante, è delirante per esempio affidare tutto all’economia. O mettere fuori gioco Dio, pensare che se ne potrebbe fare a meno, sequestrare letteralmente il sacro e poi buttarlo in discarica e, quindi, elevare la tecnologia. Convincendoci che magari, tra un po’, smetteremo di morire perché scopriremo qualcosa di nuovo. In effetti anche questa è un’attività immaginativa, ma di un’immaginazione sbagliata, mortifera. Penso che ci siano immaginazioni più gioiose. Prendiamo per esempio l’immaginazione amorosa: l’entusiasmo per la propria donna è immaginazione bella, la gelosia, invece, è una forma di immaginazione morbosa, malata. È interessante questo aspetto: la questa facoltà immaginativa può essere usata per espandere la nostra vita, per allargarla, o invece per restringerla».
E adesso la stiamo restringendo o la abbiamo già ristretta.
«Adesso siamo in un delirio collettivo e, proprio perché è collettivo, non lo vediamo. Quando ci sveglieremo, capiremo che la vita sarà sempre precaria e che non ci può essere tecnologia o dispositivo che ci metta al sicuro. Qui nell’Occidente si è vissuto, negli ultimi decenni, in una sorta di impero dell’arroganza e della solitudine».
Solitudine?
«Sì, si pensa che le persone debbano vivere da sole, farsi da sole... Ma la vita è una fioritura, apparteniamo a una sorta di campo e in questo campo nascono fiori: il campo conta più del fiore».
Parlava prima della malinconia. Probabilmente è la cifra della vita moderna e, forse, il primo a comprenderlo è stato Baudelaire, che ha proposto come soluzione il paradiso artificiale. E questa è in qualche modo la strada che l’Occidente ha seguito. Ora, forse, serve una inversione di marcia: meno artificio e più contatto con la realtà, la natura, il corpo...
«Sì assolutamente. Tra gli altri problemi aggiungerei il crollo della visione comunitaria, che si è verificata nella realtà urbana ma purtroppo anche nelle realtà rurali. La gente vive da sola, spesso si vive da soli anche in famiglia, ognuno nella sua stanza... C’è una vera e propria epidemia di solitudine. Dobbiamo, allora, concederci la possibilità di credere alla gioia, di credere che in questa avventura terrena si possa gioire con poco: con una risata, un abbraccio, una cena tra amici... Non con questa sorta di colpo grosso che ognuno di noi sembra attendere dalla vita. Certo, l’esistenza ha anche un fondo malinconico, anche perché finisce sempre piuttosto male... Però possiamo attraversare questo viaggio terreno in compagnia degli altri, facendoci compagnia non con gli strumenti tecnologici, ma rivalutando il corpo, la parola, il contatto diretto, l’esperienza. Invece assistiamo a una sorta di impoverimento dell’esperienza, una privatizzazione dell’esperienza, e alla fine rimaniamo noi e il nostro telefonino».
In passato l’immaginazione è stata utilizzata per creare utopie, alcune delle quali finite molto male. Tuttavia la forza dell’utopia resiste, la capacità di immaginare un futuro migliore aiuta a vivere, a impegnarsi politicamente. Oggi sembra perduta anche questa. Si parla del futuro soltanto con toni apocalittici, immaginando catastrofi, pandemie, disastri naturali...
«Quella odierna è una sorta di utopia negativa perché in realtà il mondo è ben accordato. Va bene: la pandemia, la crisi climatica... Secondo me si esagera. Il mondo ha sempre avuto equilibri precari. Dobbiamo essere attenti a non raccontare una apocalisse quotidiana. Abbiamo delle difficoltà nuove, quelle di cui abbiamo parlato finora, si creano nuovi scenari e non dobbiamo negare le cose che non vanno. Ma nemmeno esserne ossessionati: la vita non è solo un problema, è anche pienezza. La vita non è solo male, anzi è soprattutto bene: il male è un episodio, è un incidente. Il sole è sorto anche stamattina, gli alberi fra poco fioriranno e questo bisogna raccontarlo. Dopo tutto c’è una tenuta. Vale anche per le cose umane: di sicuro qualcuno è andato in ospedale perché non sta bene, ma il fornaio ha fatto il pane stamattina. Voglio dire che ci sono cose buone che diamo un po’ per scontate e non lo sono e dobbiamo riuscire a vederle. E su questa base di bellezza ognuno deve liberare l’immaginazione, che è una virtù splendida degli esseri umani rispetto agli animali. Poiché siamo degli animali consapevoli di morire, la natura si è adattata a questo scatto immaginativo che ci permette di andare oltre la morte, ma da vivi. Questo è il gioco a cui non dobbiamo rinunciare, è la risorsa di cui non dobbiamo fare a meno».
Continua a leggereRiduci
Ulisse Barbieri e Giovanni Antonelli
Dopo le tante speranze suscitate dal Risorgimento, il nuovo Stato suscitò delusione e irritazione in tutta una generazione di scrittori scapigliati e libertari.
L’Italia, patria dei punk. Detta così, l’affermazione può spiazzare. Eppure l’affermazione di una sottocultura giovanile a artistica contestataria, a tratti nichilista, ha nel nostro Paese origini antiche. Addirittura, risalenti al periodo immediatamente successivo all’unità nazionale, quando molte delle aspettative delle nuove generazioni andarono tradite e la realtà prosaica della nuova Italia si rivelò ben deludente. Un quadro esaustivo di questa temperie la si può ricavare dalla bella antologia curata diversi anni fa da Giuseppe Iannaccone: Petrolio e assenzio. La ribellione in versi: 1870-1900 (Salerno editrice).
«La letteratura impegnata e ribelle del secondo Ottocento», spiega il curatore, «annovera in Italia una nutrita schiera di poeti, di cui non è rimasta quasi traccia nelle storie e nei manuali letterari. Eppure raramente l'esercizio della scrittura in versi ha espresso caratteri tanto vistosamente collettivi da rendere impossibile un regesto esaustivo di quella rovente produzione di umori e risentimenti riversati sulla pagina. La tradizione di protesta civile nelle lettere italiane è antica e consolidata, ma non aveva mai assunto in precedenza lo spessore e la consistenza di un fenomeno generazionale come invece accadde nei primissimi decenni dell'Italia unita, segnati da un aggressiva conflittualità intellettuale ed è un diffuso sentimento di inquietudine»
I protagonisti di questa stagione sono militanti risorgimentalisti, ex combattenti, ma a volte anche spostati, spiriti liberi, artisti più o meno falliti. Troviamo così uno Stanislao Alberici-Giannini, un Eliodoro Lombardi, un Domenico Milelli, un Luigi Morandi, un Vittor Luigi Paladini che vengono dritti dritti dalla militanza garibaldina. E se Ulisse Barbieri conobbe il carcere a 16 anni per aver affisso manifesti patriottici, Pompeo Bettini, Pietro Gori, Carlo Monticelli e lo stesso Turati saranno in prima fila nelle agitazioni socialiste, sindacali e anarchiche. Giovanni Antonelli, dal canto suo, farà per tutta la vita la spola tra manicomi e carceri, mentre la «poetessa del quarto stato» Ada Negri, dopo una vita a cantare gli umili, diventerà la prima donna membro dell’Accademia d’Italia per volere dell’amico Benito Mussolini.
In tutta la produzione letteraria del periodo post-unitario domina un’insofferenza feroce verso le aspettative tradite dal nuovo Stato, e spesso a vergare versi di fuoco sono proprio coloro che avevano impugnato le armi in nome dell’Italia. Una ventata di contestazione scuote la cultura italiana, contro «chi aveva completato l’unità, ignorando ogni istanza sociale pur di risanare il bilancio del nuovo Stato», scrive Iannaccone. Che aggiunge: «Cominciò a palesarsi da subito una profonda scollatura tra l’Italia dei funzionari e degli impiegati piemontesi e quella di milioni di persone escluse dalla legittimazione costituzionale e costrette a subire vessazioni fiscali, coscrizioni e intollerabili patti di lavoro».
Su questo stato di cose si abbatteranno i versi rabbiosi di Stanislao Alberici-Giannini, che pure era stato combattente garibaldino a Mentana («i vigliacchi ci han rubato / il sudor de’ nostri padri»); quelli di Vittor Luigi Paladini, volontario con Garibaldi in Trentino («il frutto che produce / il suol, fecondo pel travaglio nostro, / nel bacio della luce, / o signori inumani, è tutto vostro»); quelli contro le avventure coloniali di Ulisse Barbieri («No, non è patriottismo, no, per Dio!!! / Al massacro mandar nuovi soldati») e molti altri.
Persino il vate del Risorgimento stesso, il ben più celebre Giosuè Carducci, polemizzerà con la timidezza della nuova classe dirigente nel suo satirico Canto dell’Italia che va in Campidoglio, in cui attaccherà il primo ministro Giovanni Lanza, timoroso di realizzare il sogno di Roma capitale, con l’Italia ritratta mentre si affaccia di notte sul Campidoglio e prega le oche di non attirare l’attenzione del segretario di Stato pontificio, cardinale Antonelli: «Zitte, zitte! Che è questo frastuono / al lume della luna? / Oche del Campidoglio, zitte! Io sono / l’Italia grande e una. / Vengo di notte perché il dottor Lanza / teme i colpi di sole: / ei vuol tener la debita osservanza / in certi passi, e vuole / che non si sbracci in Roma da signore / oltre certi cancelli: / deh, non fate, oche mie, tanto rumore, / che non senta Antonelli».
Continua a leggereRiduci
Arnoldo Mosca Mondadori (Imagoeconomica)
L’editore e poeta Arnoldo Mosca Mondadori: «La cerimonia delle Olimpiadi mi ha ferito. I grandi della cultura sono umili, come Morricone che ogni giorno si inginocchiava in chiesa. Ma oggi l’ideologia prevale sulla scienza, basti pensare all’aborto».
Pronipote dell’omonimo Arnoldo che fondò l’impero editoriale, nipote di Alberto che mise in piedi il Saggiatore, Arnoldo Mosca Mondadori è editore, saggista e poeta. Ha diretto il Conservatorio di Milano così come collane di libri. È stato amico intimo della poetessa Alda Merini. E ha fondato la Casa dello Spirito e delle Arti, una Fondazione che mette in rete tra loro artisti e personalità di alto profilo culturale e religioso per realizzare progetti per i più deboli. Il perché di questo suo impegno sociale, lo chiarisce dopo poche battute al telefono e non ne ha mai fatto mistero, anzi: Mosca Mondadori ha un curriculum importante ma è soprattutto un uomo di fede. Si definisce «innamorato dell’Eucaristia». Marito di Caterina Roggero, docente di cultura araba alla Statale e alla Bicocca di Milano, è padre di tre figli. Lo raggiungo per questa intervista a pochi giorni dall’inaugurazione delle Olimpiadi e dalle polemiche sulla cerimonia che ha messo in scena una controversa «Ultima Cena». Non è arrabbiato, ma convinto che questo episodio non vada sminuito. «Mi sono sentito ferito da quell’attacco al cuore della bellezza assoluta del mondo. Perché quella non è una cena qualsiasi, bensì “la Cena”, a cui partecipiamo durante ogni messa».
Gli organizzatori delle Olimpiadi francesi hanno voluto dissacrarla?
«Non ci sono riusciti, perché di tutti quei fuochi d’artificio non resterà in fondo nulla se non un vago ricordo. Penso però che ogni cattolico potrebbe forse prenderla come un’occasione per andare ben oltre l’ideologia. Per chiedersi cioè se quanto rappresentato da Leonardo Da Vinci sia solo un bell’affresco di un tempo passato o l’esempio di come l’arte possa avvicinarsi al sublime, rappresentando qualcosa della Bellezza con la “b” maiuscola. In questo caso, proprio del dono che Cristo fa di sé stesso all’uomo».
Farne una sorta di parodia è un attacco? Se lo è, perché? Fa paura a qualcuno?
«Sono belle domande ma semplicemente penso che la luce faccia sempre paura. La Francia dovrebbe aggiungere dopo “uguaglianza, libertà, fraternità”, la parola “umiltà”. Oggi la vera rivoluzione è cercare l’umiltà. Tutti gli artisti che ho conosciuto, quelli veri, i più grandi, sono sempre i più umili. Interessati alla sincronia della loro arte con la bellezza e mai a futili provocazioni».
Qualche esempio?
«Ennio Morricone: ho pregato con lui che viveva la fede inginocchiandosi da solo nella Chiesa del Gesù a Roma, pronunciando in silenzio un testo antico, la sequenza dello Spirito Santo, che era la sua preghiera preferita, la diceva ogni giorno. Mi ha raccontato che per lui la musica esiste già tutta e il musicista deve solo “intercettarla”».
Il maestro è stato l’autore di colonne sonore conosciute in tutto il mondo.
«La mia preferita è The mission, dove tre temi musicali, nel finale, si intrecciano e si uniscono misteriosamente. Morricone non lo aveva previsto e quando vide che i tre temi diversi che aveva composto si univano in un’unica armonia, pensò alla Trinità. Mi ha testimoniato che la musica è l’arte più vicina al cielo. Per questo ho fondato l’Orchestra del Mare. Nella quale i musicisti si esibiscono con gli strumenti costruiti nel carcere di Opera di Milano con il legno delle barche dei migranti».
La ha diretta anche Riccardo Muti, in luglio, a Lampedusa.
«Mi ha commosso come abbia abbracciato il progetto. Cogliendo a pieno il fatto che il lavoro delle persone detenute per trasformare quei legni in violini, viole, violoncelli, contrabbassi, sono testimonianza della possibilità di trasformare simboli di morte in suoni, armonia e speranza».
Ci racconta di Alda Merini? Ha curato le sue poesie tra il ’98 e il 2009, pubblicate da Frassinelli.
«I ricordi sono molti, più passa il tempo più mi sono care le uscite insieme per recarci nella chiesa di Santa Rita a Milano. Si inginocchiava, e poi mi dettava i suoi versi, un canto mistico».
Mistica è una parola che le è cara, Arnoldo: l’ha affrontata in molti dei suoi libri. Una parola difficile. Per pochi?
«Anzi. Lo dimostra il fatto che solo quando l’arte diventa mistica riesce ad arrivare a tutti. Anche a chi non crede. Perché sono convinto che quando gli artisti sono in rapporto con il Mistero, riescono ad arrivare al cuore di tutti. Penso a Bach, Mozart, Michelangelo, Caravaggio».
Vale anche per l’artista ateo?
«Tra le cose meravigliose che mi sono accadute nella vita c’è stato l’incontro - e l’amicizia - con il pittore e scultore greco Jannis Kounellis. Non credente. Eppure passavamo ore, serate intere a parlare di Gesù. Gli interessava, la proposta cristiana. Veniva con me in carcere, e lì concepì la sua ultima opera d’arte, utilizzando proprio uno dei violini costruiti dalle persone detenute. Il suo fu un gesto semplice eppure vertiginoso: sostituì le corde del violino creato dalle persone detenute, con quattro corde di filo spinato. Cos’è questo se non un gesto mistico, ovvero il riconoscere la forza dell’umanità ostinata che aveva conosciuto tra le celle. Si immedesimò con gli scartati e con i poveri. Era in ascolto, capisce? Non ideologico».
È la seconda volta che mi parla di ideologia.
«Sì, perché c’è tanta ideologia ma mancano le idee. Mi scusi, per esempio, il tema dell’aborto. Perché non la si smette di discuterne in termini ideologici e non se ne parla invece basandoci su quello che ci dice la scienza? La scienza dice che la cellula che nasce dall’incontro tra la cellula del padre e della madre è fin dal primo attimo vita umana, con un proprio patrimonio genetico unico e irripetibile. Perché non ci basiamo su questo dato per porre al centro i diritti del nascituro? E nello stesso tempo perché anziché promuovere in tanti Paesi l’aborto - la Francia lo ha messo come diritto nella sua Costituzione - non cerchiamo invece strumenti per aiutare e sostenere le donne in difficoltà, perché possano essere aiutate a tenere i loro bambini? È uno dei temi a cui mi dedico con la mia Fondazione. Così come a quello della guerra».
In che senso?
«La guerra è un tema cruciale, le fabbriche di armi un dramma per l’umanità. Dovremmo andare su Internet a guardare in faccia tutti i membri dei cda di quelle società. Per saper vedere e avere coscienza di cosa sono le strutture di peccato - così le definiva il cardinal Martini - il “peccato sociale”, e studiare le reti dei fabbricanti d’armi con la finanza, e poi con la politica che le agevola. È un tema che mi angoscia e non mi fa dormire. E mi disgusta».
Cosa teme? Che il male sovrasti il bene?
«No, di questo non ho paura. “Avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo”. Queste parole di Gesù mi danno la speranza e la certezza».
Parla di concetti non semplici. Le è capitato di essere guardato… storto?
«Come un pazzo, intende?».
Non volevo mancare di rispetto.
«Anzi. Innanzitutto le dico che sì, mi è capitato e mi capita spesso. E le dico anche che bisogna parlarsi chiaro: il cristianesimo è uno scandalo. È da pazzi credere che in un pezzo di pane ci sia Dio, non le pare?».
Quindi così si definisce?
«Sulla follia, le rispondo così: c’è quella di chi fa la guerra a tavolino per arricchirsi sul sangue degli innocenti e poi c’è pure quella di chi prova a inginocchiarsi davanti a Dio, in contemplazione, e a mettersi in dialogo con lui».
Lei prega spesso?
«Per me la preghiera è come un secondo respiro e dell’adorazione eucaristica sento una vera e propria necessità. Perché tutti noi abbiamo nel nostro intimo una sete di infinito. La nostra Europa, per rinascere, dovrebbe tornare ad inginocchiarsi davanti al Mistero. Eppure il sacramento della Comunione è il grande ignorato. Come diceva Padre Pio, se si sapesse cos’è davvero, dovremmo chiamare le forze dell’ordine davanti alle chiese perché ci sarebbe troppa gente in coda per entrare. Proprio davanti al Santissimo, chiedendo a Gesù come poter comunicare a tutti la sua reale presenza nell’Eucaristia, ho sentito di dover far nascere il progetto “Il senso del Pane”, che ha convinto Ennio Doris».
Ovvero?
«Abbiamo iniziato nel 2015, nel carcere di Opera, con il primo laboratorio di produzione artigianale di ostie affidato alle mani di tre persone detenute con passato criminoso, convertiti e pentiti. Ennio Doris ci ha consentito con la sua fede e il suo sostegno di estendere il progetto in 20 Paesi e a tante persone in situazioni di povertà assoluta. Dal Brasile alla Turchia, dall’Argentina al Mozambico, ma pure a Gaza, e a Betlemme. Doniamo alle chiese ogni settimana le ostie prodotte da 250 persone a cui viene data dignità attraverso il lavoro. Chiediamo solo ai sacerdoti di dire che in quel pane c’è il più grande mistero della terra».
Si può dire che lei sia nato in salotti non buoni ma ottimi. Ha quindi deciso di abbandonarli?
«Per mia esperienza, Dio lo si incontra nelle persone povere, in chi vive nella sofferenza. Ma pure i ricchi possono essere poveri, sa? A volte poveri di speranza. E però trovo che Gesù sia davvero simpatico. Ogni volta che partecipo a qualche cena in quelli che lei definisce salotti, entrando dico una preghiera: per favore, fa’ che io incontri almeno una persona speciale. Con la quale far nascere un progetto, o un’amicizia. Le assicuro che sono sempre stato esaudito».
Continua a leggereRiduci
Alessandra Chemollo. Cosi ferisci, 2024
A Gardone Riviera, nella magica cornice del Vittoriale, un’interpretazione tutta al femminile della dimora del Vate Gabriele D’Annunzio vista attraverso gli occhi e l’obiettivo di dieci notissime fotografe italiane, da Maria Vittoria Backhaus a Silvia Camporesi. Una mostra unica e originale, legata alla VII edizione del Brescia Photo Festival e visitabile sino al 30 settembre 2024.
Figura complessa e dalle mille sfaccettature, poeta, letterato, edonista sino al midollo, eroe di Fiume e fondatore della Repubblica del Carnaro (« la prima ed autentica Repubblica libertaria e dell'Amore che sia mai stata fondata»), un rapporto controverso con Mussolini e il regime fascista, Gabriele D’Annunzio (1863-1938) fece del Vittoriale - il sontuoso complesso residenziale fatto erigere per sua volontà fra il 1921 al 1938 - la sua ultima e definitiva dimora, testimonianza e memoria della sua «inimitabile vita».
Ed è proprio qui, fra edifici, vie, piazze, un teatro all'aperto, giardini, roseti e corsi d'acqua, che una collettiva di 10 fotografe italiane espone i propri lavori, per una rilettura originale - ognuna con il proprio stile e la propria cifra artistica - dell’architettura, dell’ambiente e degli interni di quello che è stato il «feudo» del Vate.
Un’esposizione strettamente legata a questo luogo iconico, gioiello della sponda bresciana del Lago di Garda, che porterà, al termine della mostra (30 settembre 2024), alcune opere a rimanere parte del percorso di visita in modo permanente, arricchendo la già ricca offerta di arte contemporanea italiana del Parco: la mostra,inoltre, è anche l’ occasione per inaugurare un nuovo spazio espositivo del Vittoriale, Il Golfo Nascosto, posto al di sotto delle gradinate del teatro il Parlaggio, riaperto nel luglio del 2020 in una veste completamente nuova e restaurata.
Le fotografe
Tutte grandi protagoniste del panorama fotografico contemporaneo italiano e internazionale, diverse per stile e personalità, ma accomunate da talento ed estro, il percorso espositivo - curato da da Renato Corsini - regala al pubblico gli scatti provocatorie e dissacranti di Maria Vittoria Backhaus, che, affascinata dall’enorme quantità di oggetti, immagini, personaggi, stimoli e visioni che contiene il Vittoriale, ha pensato di rappresentare Gabriele d’Annunzio per quello che è sempre stato ai suoi occhi, un personaggio pop-punk ante litteram; le Verità Oniriche di Patrizia Bonanzinga, il progetto Ricordo, rivedo di Luisa Menazzi Moretti, le straordinarie architetture di Alessandra Chemollo, i volti «scomposti » del Vate di Caterina Matricardi e Le Mute sentinelle di Mariagrazia Beruffi, affascinata dalle statue che abitano il parco e la villa.
E, ancora, le prospettivi aeree di Giusy Calia, che attraverso l’uso del drone è andata oltre i contorni fisici del complesso, svelandone e interpretandone gli interni e trasformando le stanze in teatri di performances multidimensionali; o le donne di D’annunzio, protagoniste de lavori di Antonella Monzoni.
Si è invece concentrata sull’esterno del Vittoriale e sul contesto in cui è immerso Silvia Camporesi, che nei suoi scatti privi di figure umane ha colto, con la poesia e la sensibilità che le sono proprie, l’aspetto paesaggistico del luogo; mentre alla tormentata storia d’amore fra D’Annunzio e la Duse si è dedicata Ramona Zordini.
Una mostra importante, che coniuga arte e storia, letteratura e poesia. La fotografia ad unire il tutto. Lo sguardo femminile, il valore aggiunto…
Continua a leggereRiduci





















