A Napoli, nel cuore di Chiaia, tra i vicoli eleganti di via Cappella Vecchia, lo scorso 20 ottobre si consuma una scena apparentemente ordinaria: uno straniero, alto, con la barba lunga e curata, passeggia senza fretta. Ma quello non è un giro di piacere. Per gli investitori della Digos di Napoli, coordinati dal procuratore Nicola Gratteri e dal pm antiterrorismo Claudio Onorati, che ieri hanno arrestato Firaoun Mourad, marocchino, nato a Mers Sultan il 18 gennaio 1991 e residente a San Giuseppe Vesuviano con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo anche internazionale e di eversione dell’ordine democratico, quello era un sopralluogo. Un passo del suo piano. E il luogo scelto non è casuale: la sinagoga di Napoli. Il profilo social di Mourad, per come è stato analizzato dagli investigatori, racconta di un uomo in bilico tra due mondi. Su Facebook si fa chiamare «Lo Straniero» e «Mour Ad», due identità digitali che sembrano convergere in un unico messaggio: odio e vendetta. «Con la jihad e la forza uccideremo gli ebrei con l’aiuto di Dio», scrive sui social pochi istanti prima che comparisse davanti alla telecamera piazzata sulla sinagoga. E subito dopo, su Facebook, lancia una storia: un’immagine del Golfo di Napoli con impressa una frase tratta dall’inno dello Stato Islamico: «Nazione mia l’alba è tua». Nel frattempo tenta l’acquisto di un coltello dalla manifattura di pregio, col quale, stando alla ricostruzione degli investigatori, avrebbe voluto ammantare di «sacralità» l’ideata azione contro la comunità ebraica. La connessione deve essere apparsa agli inquirenti subito chiara. E da quell’istante, per precauzione, vengono innalzati i livelli di sicurezza. Un virus spia, il trojan, inserito nei suoi dispositivi, già da tempo intercetta ogni parola, ogni spostamento, ogni piano. E saltano subito fuori le presunte connessioni con appartenenti all’Isis, determinati, secondo chi indaga, a pianificare attentati sul territorio italiano utilizzando la strategia dell’aggressore isolato, del «lupo solitario». Il 29 settembre 2024 viene registrata una conversazione che viene posta dagli inquirenti alla base della richiesta di arresto: Mourad parla con calma, quasi con distacco: «Io porto con me il ferro, nascondo il ferro addosso a me e gli dirò: vieni con me. Lo farò tranquillizzare, dopodiché lo colpirò e lo farò cadere a terra. Dopo tornerò a casa, prenderò il mio zaino e non dirò nulla. E tornerò a Napoli. Chi mi conoscerà? Diranno uno barbuto, e lo andranno a cercare a Chi l’ha visto?». Parole che gelano il sangue. Perché «il ferro» nel gergo criminale è un’arma. Il «Lupo del Vesuvio» e la sua natura solitaria nascondevano molto di più. Mourad, oltre a condividere contenuti jihadisti sui suoi profili social, si auto addestra, guarda video di preparazione al martirio. Raccoglie nella galleria fotografica del suo smartphone immagini di attentati con la classica cintura esplosiva. A quel punto in Procura hanno ritenuto di avere in mano «plurimi elementi indiziari in ordine all’adesione dell’indagato all’Isis». A due ore dall’attentato al Festival della diversità di Solingen, quando l’Isis non aveva ancora rivendicato la strage, pubblica due storie. La prima: un filmato di militanti dello Stato Islamico con volto coperto che decapitano ostaggi. La seconda: un discorso di un terrorista di Al Qaeda, lo sceicco Abdullah Al Rashoud, circondato da armi, che incita al «crollo di Satana», ovvero la distruzione dell’Occidente. Per gli inquirenti non sono coincidenze. Sono i segnali di una escalation. Gli investigatori lo seguono dall’estate del 2024, cioè da quando il «Lupo del Vesuvio» torna nell’area partenopea dalla provincia di Verona. Da quel momento, il suo nome comincia ad apparire nelle indagini. I due account Facebook, una serie di messaggi su Telegram. Il 15 ottobre 2024, un contatto dal nome «Ass mh» gli scrive proprio su Telegram: «Da tanto tempo che non ti vedo… Con l’aiuto di Dio la vittoria sarà nostra… Se vengo in Italia sarò un invasore». La rete di contatti di Mourad viene mappata (ieri gli investigatori della Digos hanno eseguito anche diverse perquisizioni nei confronti di persone che erano in contatto con l’arrestato). E solo pochi giorni dopo, il 20 ottobre, tutto diventa più chiaro. Mourad è lì, in via Cappella Vecchia. Il suo cellulare aggancia le celle telefoniche della zona per ben 20 minuti. Poi torna a casa. La sinagoga e la comunità che la frequenta, però, spiegano gli investigatori, non hanno corso rischi. «Preoccupati no, ma restiamo guardinghi», spiega Lydia Shapirer, presidente della comunità ebraica napoletana, che descrive il clima di «ribaltamento dei ruoli» al quale assiste: «Le vittime diventano carnefici e viceversa». Mentre è nel suo appartamento a San Giuseppe Vesuviano (dove ieri mattina gli agenti della polizia di Stato hanno fatto irruzione per notificargli il provvedimento di custodia cautelare emesso dal gip del Tribunale di Napoli) il «Lupo del Vesuvio» trascorre ore davanti al computer. La stanza è piccola, le tende sempre tirate, la luce del monitor proietta ombre inquietanti sulle pareti. Video di esplosioni, canti di martirio, mappe scarabocchiate con annotazioni in arabo. Una foto di un uomo inginocchiato su un tappeto da preghiera dietro un simbolo dell’Occidente «corrotto»: un’auto di lusso. Ogni elemento sembra raccontare una storia di odio e di radicalizzazione. E ora gli investigatori dovranno unire tutti i puntini, perché l’inchiesta, annunciano, non è affatto conclusa.
A brigante, brigante e mezzo. I test psicoattitudinali ai magistrati sarebbero un ignominioso insulto. A vendicare la permalosissima categoria, nel nome dell’arguzia di Sandro Pertini, c’è Nicola Gratteri. Attenzione: non un magistrato qualunque, bensì il procuratore capo di Napoli, un eroe della lotta alla ‘ndrangheta, anni trascorsi ad accalappiare delinquenti nella sua Calabria. Sanità mentale: indubitabile. Dirittura morale: superlativa. Fiuto investigativo: leggendario. Ed è proprio grazie a quel fiuto, che ora nasa la doppia morale della maggioranza e lancia criptiche allusioni: «Io sono pronto a sottopormi a qualsiasi test. Ma facciamoli a tutti, anche a chi governa. E mettiamoci pure alcol e droga».
Gratteri, come tanti colleghi, ha il dono della loquacità. Il suo veemente contrattacco viene dettato a tutti i media del Paese: tv, giornali, agenzie. Ma è con l’intervista serale al Tg1 che il procuratore manda il pizzino più sublime: «Una persona sotto l’effetto di stupefacenti può fare ragionamenti alterati o può essere ricattato se, ad esempio, è stato fotografato vicino a della cocaina». Urca! Non è la solita iperbole. Il super magistrato pare riferirsi a una foto. Qualche potentone è stato immortalato mentre si trovava nei dintorni della polverina bianca? Uno scatto ben preciso, magari infilato in qualche fascicolo.
Vabbè dai, nella foga della difesa corporativa, gli sarà scappata una forzatura. Invece, no. L’inviata incalza: «Questa è un’affermazione forte». Risposta da uomo del denim: «Sono allenato a dire quel che penso». Ma a chi si rivolge? «A chi ha fatto questa legge, è ovvio». Dunque, alla maggioranza. E allora: Gratteri ha visto qualcosa di persona personalmente, come direbbe l’appuntato Catarella al commissario Montalbano? O magari un collega gli ha parlato proprio di una fotografia compromettente? Comunque sia, potrebbe esserci qualche esponente della maggioranza ricattabile. Si sbronza come un marinaio e tira su come un aspirapolvere.
Insomma, messaggi ai naviganti. Però se la sono cercata, dai. Prima si lasciano andare alle mollezze romane. E poi, sempre più scioperati e viziosi, osano insinuare sugli illustrissimi magistrati. I test psicoattitudinali sembrano a Gratteri una vera vigliaccata: «Sono sicuramente sorpreso. Sia per il merito del provvedimento, di cui non riesco a cogliere il senso, che per le modalità, essendo inserito nell’articolato attuativo della riforma Cartabia che non lo prevedeva affatto. Quindi, doppiamente incostituzionale». Così, scatta la legge del taglione. Vengono evocate verifiche ancor più stringenti per chi ha osato concepire la norma. Al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, tocca perfino accontentare il procuratore: «Il test psicoattitudinale io l’ho già fatto a suo tempo. Per quanto riguarda gli altri, sono assolutamente disponibile». Pure l’assennatissimo Antonio Tajani tenta di placare l’ira funesta, ricordando che la tanto invisa prova «la fanno i commissari di polizia e anche le guide alpine, non è una diminutio». Il ministro per gli Affari esteri esemplifica, ricordando il suo avventuroso vissuto: «Li ho fatti in aeronautica e non mi sono sentito sminuito».
Test a tutti, incalza però Gratteri. Manager di stato, politici e soprattutto governanti. Il Fatto Quotidiano spalleggia dunque l’amatissimo inquisitore, fornendo una prima lista degli eletti che necessiterebbero non solo i test psicoattitudinali, ma pure la camicia di forza: da Cateno De Luca a Vittorio Sgarbi. Per carità, vale tutto ormai. E però: benedetto Iddio, fraseggerebbe il progenitore Tonino Di Pietro, come si fa a paragonare lo scalmanato sindaco di Taormina al giudice che può far marcire in galera un povero diavolo? Le cronache degli ultimi anni traboccano di avvilenti imprese della categoria. Corrotti, birbanti, ingiusti. O, semplicemente, svoltolati. Quel magistrato con la fobia del virus, per esempio. Terrorizzato dal contagio, ai tempi del Covid, aveva preferito evitare i bagni del palazzo di giustizia. A costo di far pipì in contenitori di plastica, da riporre poi ordinatamente in due armadi del tribunale. Dove, a giugno del 2022, vengono rinvenute decine di bottigliette da mezzo litro piene di inequivocabile liquido giallognolo. Niente test psicoattitudinali, però. Chiunque approccia la professione diventa un unto del Signore. I ministri pensino piuttosto alle loro supposte debolezze. Ricordando l’eterno motto degli antimafiosi: il sospetto, assicurava il Leoluca Orlando furioso, è l’anticamera della verità.
I magistrati non ci stanno a essere sottoposti ai test psicoattitudinali che il governo Meloni vuole introdurre, e continuano, insieme con l’opposizione, a sparare bordate contro il provvedimento varato dal Consiglio dei ministri.
Intanto, in un’intervista a Repubblica, Gian Luigi Gatta, professore ordinario di diritto penale all’Università statale di Milano, ha svelato un ulteriore privilegio di cui godono i magistrati sconosciuto al grande pubblico. Le toghe, infatti, hanno il diritto di andare in giro con una pistola, per difesa personale, senza dover richiedere il porto d’armi. Quindi, senza la presentazione di alcun tipo di documentazione medica che attesti, anche qui, l’idoneità psicofisica, richiesta invece ai comuni cittadini. E senza nessun addestramento all’uso della pistola che possono avere con loro, e potenzialmente usare, in mezzo alla gente. La norma, che ricorda da vicino la tanto criticata libera vendita di armi in vigore negli Stati Uniti, è figlia degli attentati subiti dai magistrati durante gli Anni di piombo, è in vigore dal 1990 e prevede che a tutti i «magistrati dell’ordine giudiziario, anche se temporaneamente collocati fuori del ruolo organico», sia consentito «ai soli fini della difesa personale», il «porto d’armi senza la licenza». In pratica, qualsiasi magistrato, tranne i giudici onorari, può entrare in un’armeria, acquistare un’arma, portarla con sé e usarla per difesa personale. Un privilegio che non è concesso, salvo rare eccezioni, neanche agli appartenenti alle Forze dell’ordine, che però sono sottoposti a test psicoattitudinali periodici.
Intanto, ieri, all’elenco di magistrati che hanno preso posizione contro la norma, si è aggiunto il procuratore di Napoli, Nicola Gratteri. A margine di una conferenza stampa, Gratteri ha commentato il provvedimento in modo provocatorio e vagamente allusivo: «Test psicoattitudinali per i magistrati? A allora facciamoli anche per chi ha responsabilità di governo e della cosa pubblica in generale. E facciamo anche i narcotest e gli alcoltest. Perché chi usa stupefacenti non solo fa ragionamenti alterati ma può anche essere sotto ricatto». E anche dall’opposizione non sono mancati gli attacchi, a partire dal capogruppo del Partito democratico in commissione Giustizia di Montecitorio, Federico Gianassi, che in una nota ha dichiarato: «In materia di giustizia servono investimenti e assunzioni, non continue prove di forza dettate da settarismo ideologico che alimentano scontri, suscitano preoccupazioni e dimenticano cittadini e imprese, ai quali invece il sistema dovrebbe dedicare ogni energia». Mentre per il leader di Azione, Carlo Calenda, i test psicoattitudinali sono «l’ennesima boutade».
Ma dal governo arriva, tramite le parole del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, una mano tesa alle toghe: «Mi spiace che l’Anm (Associazione nazionale magistrati, ndr) giudichi tutto in maniera preventiva. Io dico che se fossi candidato a fare il carabiniere o il Vigile del fuoco non mi sottrarrei» ai test psicoattitudinali «perché sono un atto di trasparenza, non invasivi. Il magistrato, come i piloti e altri, ha responsabilità maggiori». Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato, ha invece ricordato che «i test psicoattitudinali per i magistrati sono già previsti in altri Stati europei, come Austria, Germania e Olanda, che non sono certamente paesi liberticidi o illiberali». Per questo, secondo il senatore forzista, che dal 2014 al 2018 ha fatto parte del Consiglio superiore della magistratura, «certe reazioni, quasi da lesa maestà, da parte della magistratura associata nei confronti dell’iniziativa del ministro Nordio» sono da considerare «decisamente esagerate e pretestuose».
Nicola Gratteri è il magistrato più esposto d’Italia. Dopo decenni in prima linea contro la ’ndrangheta a Locri, Reggio Calabria e Catanzaro, dal 20 ottobre è procuratore capo di Napoli. Ha accettato di rispondere alle domande della Verità sulla sua vita, il nuovo incarico e l’influenza dell’industria dell’audiovisivo sulle giovani generazioni.
Dottor Gratteri, quando e perché ha scelto di fare il magistrato?
«È una decisione che ho maturato nel tempo. Quando frequentavo le scuole medie, mi infastidivano gli atteggiamenti dei figli dei boss che facevano i prepotenti. Erano bulli con le spalle coperte, la loro arroganza mi indignava. Non sapevo che ci fossero magistrati, gli unici uomini che per me rappresentavano lo Stato erano i carabinieri, di cui nel mio paese c’era e c’è una caserma. L’idea di fare il magistrato mi è venuta dopo, quando ho capito l’importanza di quel ruolo e della possibilità di fare qualcosa in più per combattere un fenomeno che oggi è diventato dilagante».
Chi erano i suoi genitori?
«Due persone esemplari: oneste e coerenti. Mi hanno insegnato molte cose sull’essenzialità della vita, sulla correttezza. Mi hanno insegnato anche ad amare la terra, a coltivarla, facendomi capire che solo i sacrifici rendono liberi. Mio padre faceva il camionista, poi ha gestito un piccolo negozio di generi alimentari. Mia madre era casalinga ed esigente, rigorosa e amorevole, ma senza tradire troppo le emozioni».
Da ragazzo chi erano i suoi idoli?
«Amavo la musica, ma non penso di avere avuto qualche cantante come idolo. I miei idoli erano tutti all’interno della mia famiglia. Due zii sacerdoti, uno zio avvocato, i miei genitori. Mio zio Antonio, canonico, uomo di grande generosità e umanità. Lo zio Nino, avvocato civilista, comunista, uomo di grande etica, cultura e umanità. Mio zio Francesco, uno dei due sacerdoti, mi ha sempre affascinato per la sua sconfinata cultura. Negli anni Settanta, quando faceva il parroco a Gioiosa Ionica, nella Locride, denunciò apertamente i legami della ’ndrangheta con certa politica e certa imprenditoria, evidenziando l’importanza delle relazioni esterne che da sempre costituiscono l’ossatura del potere mafioso».
Vivere in caserma è una scelta obbligata?
«È una scelta obbligata, non sarebbe facile garantire le stesse condizioni di sicurezza in un contesto diverso da quello in cui attualmente vivo. Mi trovo bene. D’altronde vi passo solo poche ore, dormo poco».
Come descriverebbe 35 anni sotto scorta?
«Una missione vissuta con la consapevolezza di fare qualcosa di utile per la mia terra e per la società in cui viviamo. Un viaggio che continua grazie anche alla dedizione e al sacrificio di tanti agenti che mi proteggono dal 1989».
Quanto le pesa aver condizionato la vita dei suoi famigliari?
«Mia moglie è stata minacciata quando ancora eravamo fidanzati. Hanno sparato alcuni colpi di pistola contro la sua abitazione, dicendole, al telefono, che stava per sposare un uomo morto. Non si è tirata indietro. I figli invece hanno scelto strade diverse dalla mia e ci hanno dato molte soddisfazioni, senza mai lamentarsi. Sono due validissimi professionisti».
Che accoglienza ha avuto a Napoli? È presto per un primo bilancio?
«Mi trovo benissimo. Ho trovato un ottimo ambiente di lavoro. All’inizio sono stato accolto con qualche scetticismo da alcuni settori della stessa magistratura e dell’avvocatura, ma oggi ritengo di aver instaurato con tutti un buon dialogo. Ho provveduto a riorganizzare l’ufficio, distribuendo gli incarichi e ho cominciato a studiare i vari fenomeni che interessano il territorio. È presto per fare un bilancio, ma sapendo di poter contare su colleghi professionalmente molto validi e su una polizia giudiziaria di altissimo livello, sono certo che faremo un buon lavoro. C’è tanto da fare».
Perché la ’ndrangheta è la più potente delle mafie?
«Le ragioni sono tante, ma ritengo che sia riuscita a crescere nel silenzio, essendo stata a lungo considerata una mafia stracciona, rispetto alle altre, ma soprattutto a Cosa nostra. È cresciuta di importanza per aver gestito enormi traffici di droga, quando lo Stato era particolarmente coinvolto nella lotta alla mafia siciliana dopo la fase stragista. Grazie alla sua struttura familistica, ha avuto poche defezioni e ha acquisito un prestigio internazionale, facendosi apprezzare da altre organizzazioni criminali per la sua solvibilità e per la sua forte coesione interna».
È più credibile perché è più sofisticata?
«Ha sempre avuto lo sguardo presbite, la capacità di guardare oltre il presente. Oggi è molto sofisticata, ci sono clan riconducibili a questa organizzazione che hanno capito l’importanza dell’innovazione tecnologica e informatica. Alcune inchieste hanno accertato la presenza di hacker in Calabria in grado di minare criptovalute, di investire enormi capitali su piattaforme clandestine di trading e usare tecnologia sofisticatissima per comunicare in modo sempre più sicuro, al riparo dalle intercettazioni che sono comunque necessarie ed essenziali in un mondo sempre più interconnesso».
Che cosa rappresenta l’impegno delle istituzioni a Caivano?
«Una testimonianza forte per cercare di cambiare le cose, di liberare i territori dalla paura e dal bisogno. Non bastano però le parole, sono necessari fatti concreti. Bisogna sostenere tutte quelle iniziative che cercano di raccontare in maniera diversa il territorio. Che resistono, che lottano quotidianamente per cambiare le cose, oltre a migliorare le condizioni socio-economiche e culturali di questo territorio».
Perché va nelle scuole a parlare ai giovani?
«I giovani hanno bisogno di testimonianze, di esempi coerenti. Da oltre trent’anni uso le mie ferie per andare a parlare con loro, ma anche con chi è meno giovane e non è insensibile alle tematiche di cui mi occupo».
Perché dice loro che fare il mafioso non conviene?
«Ad arricchirsi è solo l’élite delle mafie. Gli altri sono utili idioti, portatori di acqua al pozzo del capo. Vengono assunti con l’obbligo di non mettere mai in discussione gli ordini che ricevono. Non devono pensare, devono solo obbedire. Guadagnano meno di un bravo artigiano e rischiano di finire in carcere o al camposanto. Penso basti a far capire che quella del mafioso è una scelta di vita poco conveniente».
Che cosa pensa della cinematografia che narra la vita dei boss, da Al Capone a El Chapo?
«Spesso è una narrazione che sfocia nell’epica, facendo diventare eroi dei criminali che non sono mai stati dalla parte dei deboli contro i forti e dei poveri contro i ricchi, come amano far credere. Certe serie televisive esprimono una mitologia della camorra che si prende tutta la scena, senza un barlume di positività a farle da contraltare».
Serie come Gomorra e Suburra hanno creato una mitologia della violenza?
«Bisognerebbe andare oltre il conflitto tra il male e peggio».
I giovani hanno assunto questi modelli?
«Certe narrazioni diventano modellizzanti, soprattutto quando gli audiovisivi sono l’unico mezzo di conoscenza dei fenomeni criminali, come quelli che incidono sui nostri territori. Le serie televisive finiscono per influenzare le conoscenze di chi non ha mai letto un libro o investito il proprio tempo per aiutare il prossimo».
Non dobbiamo fidarci della loro capacità di distinguere il bene dal male?
«Il male è seduttivo, molto più del bene. Bisognerebbe avere un concetto etico della scrittura. Non si può scrivere e far finta di non vedere. Vale per la scrittura in generale quello che Pippo Fava sosteneva del giornalismo. “Ritengo che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana” scriveva nell’ottobre del 1981, qualche anno prima di essere ucciso dalla mafia, “il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente in allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”».
Cosa pensa del fatto che nelle loro canzoni i rapper napoletani inneggino ai camorristi che ostentano Suv e orologi d’oro?
«È una narrazione molto discutibile, quando penso a Napoli mi vengono in mente Pino Daniele, i fratelli Bennato, James Senese, Enzo Avitabile. Molti sostengono che quella dei trapper sia una voce di protesta, ma quando assumono atteggiamenti misogini o si fanno riprendere con un kalashnikov in mano non mi sembrano molto credibili o educativi».
Che idea si è fatto del fenomeno Geolier che ha spopolato al Festival di Sanremo?
«Preferiscono non rispondere».
Che cosa può dire un magistrato che conosce la criminalità giovanile a chi ha compiti educativi nella società di oggi?
«L’istruzione taglia l’erba sotto i piedi dei mafiosi, e la cultura brucia il terreno su cui la malapianta cresce. Famiglia e scuola sono fondamentali nella formazione e nell’educazione dei giovani. È risaputo: la mafia teme più la scuola che la giustizia. La magistratura, le forze dell’ordine possono fare molto, ma se non contrastiamo le mafie anche sul piano culturale, i clan si rigenerano. Come ho più volte ripetuto, gli arresti sono importanti, ma non risolvono il problema. Ci sarà sempre chi andrà a coprire i vuoti. Cambieranno le facce, i nomi, ma non i numeri e la sostanza. L’etica non va insegnata, va praticata, testimoniata e trasmessa. Solo con la coerenza si può coltivare nei giovani il senso di una responsabilità capace di lottare per una società migliore. Ma poi bisogna anche risolvere i mali sociali, ridare speranza ai giovani che cercano un’occupazione, dare risposte a un territorio per lungo tempo abbandonato e lasciato nelle mani di chi non aveva alcun interesse a cambiarlo. Tutti devono assumersi la propria responsabilità».
Lei non divenne ministro della Giustizia del governo Renzi per il diniego del capo dello Stato Giorgio Napolitano. Poi è arrivata la riforma Cartabia e ora si attende quella di Carlo Nordio. Se fosse ministro quale sarebbe il suo primo provvedimento?
«Non sono ministro e ne sono felice perché faccio il magistrato, un lavoro che ancora oggi mi appassiona. Avevo detto sì a Renzi perché mi aveva promesso carta bianca e in testa allora avevo tante idee per migliorare il settore della giustizia, delle carceri. Ho già detto che uno dei primi provvedimenti da adottare è quello di abolire la riforma Cartabia e di convocare attorno a un tavolo tutte quelle persone che possono realmente contribuire a dare forma e sostanza a una riforma utile e necessaria. Non stiamo andando nella direzione auspicata».
È credente?
«Sono cresciuto in una casa con due sacerdoti. Mi hanno insegnato l’importanza dell’onestà, dell’altruismo e della generosità».
Per la Procura di Napoli, la più grande d’Europa, il plenum del Csm sceglie a maggioranza Nicola Gratteri, che lascerà l’ufficio di Catanzaro che ha guidato per anni. Dopo aver incassato il via libera dalla Quinta commissione, quella che si occupa degli incarichi direttivi, Gratteri ha conquistato la postazione lasciata libera da Giovanni Melillo, passato un anno e mezzo fa a guidare la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, con 19 preferenze, tra le quali quelle del vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, del procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato, dei laici di centrodestra e di Ernesto Carbone, laico di Italia viva, coerente con la scelta fatta a suo tempo dal governo guidato da Matteo Renzi, del quale Gratteri per un po’ è stato Guardasigilli in pectore (la nomina poi sfumò perché pare che il Colle si mise di traverso).
Pro Gratteri anche i consiglieri di Magistratura indipendente, l’indipendente Andrea Mirenda e il togato di Unicost, Antonino Laganà. Gli altri di Unicost, invece, hanno sostenuto Giuseppe Amato, procuratore di Bologna, che ha incassato anche il voto del presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano e del consigliere indipendente Roberto Fontana, e che alla fine si è fermato a cinque preferenze.
Il procuratore aggiunto Rosa Volpe, invece, è stato sostenuto dal gruppo di Area, da Mimma Miele di Md e dal laico del Partito democratico Roberto Romboli, e rappresentava la scelta interna e di continuità, perché ha retto l’ufficio napoletano per un anno dopo il trasferimento di Melillo. Alla fine, di preferenze ne ha ricevute otto. Ai blocchi di partenza Gratteri era stato già preceduto dal giudizio espresso su di lui dal consiglio giudiziario di Catanzaro, che lo ha descritto come un magistrato «di straordinaria capacità di organizzazione, grande intelligenza ed eccellente attività di indagine».
Le stesse argomentazioni a favore di Gratteri, ovvero la grande esperienza maturata nel contrasto ai fenomeni mafiosi e di criminalità organizzata, nella sua dimensione nazionale e transnazionale, che lo ha portato a relazionarsi con inquirenti di tutto il mondo, però, sono state usate anche contro di lui. Durante il dibattito, infatti, è stato attaccato per le polemiche suscitate da arresti antimafia poi annullati e dal suo modo di intendere il ruolo da capo di una Procura. Tra i maggiori fautori dell’animazione contro Gratteri c’era il togato di Area Maurizio Carbone. Per lui, «quando c’è Gratteri», la discussione al plenum «diventa quasi sempre un referendum su di lui». Il procuratore di Catanzaro, secondo Carbone, avrebbe portato in audizione «solo la sua immagine» e sarebbe alla ricerca di «un premio alla carriera».
Inoltre sarebbe emersa «l’immagine negativa di un superprocuratore e di un padre-padrone che ha ammesso che si sbarazzerebbe senza mezzi termini del personale di polizia giudiziaria o di aggiunti che ritiene non svolgere il loro lavoro». Non solo: proprio per dimostrare l’autoritarismo di Gratteri, Carbone ha preso come esempio il fascicolo che l’allora procuratore di Roma Giuseppe Pignatone tolse al pm Stefano Fava, che voleva chiedere l’arresto dell’avvocato Piero Amara, ribaltando, così, incredibilmente ciò che aveva sostenuto lui stesso a marzo, sempre al Csm, mentre trattava proprio quella pratica. In quel caso affermò che Pignatone aveva fatto bene a sollevare dall’indagine Fava. Dimenticando però che Pignatone non era d’accordo su un arresto, mentre Gratteri nella stessa narrazione dei suoi oppositori sarebbe un procuratore manettaro. Insomma, si è trattato di una polemica, oltre che incoerente, pure parecchio contorta.
Anche rispetto al sostegno sempre garantito da Area proprio a Pignatone. Tanto che al momento di nominare il nuovo procuratore di Roma, la corrente si schierò per la continuità con Pignatone, votando per Francesco Lo Voi.







