C’è una scena memorabile di Asso, commedia con Adriano Celentano in cui si racconta vita, morte, miracoli di uno scafato giocatore di poker: quando questi si ritrova al tavolo verde contro un avversario all’apparenza imbattibile, riesce a infinocchiarlo osservando i movimenti del suo padiglione auricolare. Se l’orecchio si muove troppo, significa che quell’uomo è nervoso, dunque che sta bluffando. Il calcio estivo è così. Occorre orecchio per captare voci e movimenti in vista della nuova stagione e nervi saldi per mitigare un nervosismo di fondo che si taglia a fette. A Napoli per esempio, da qualche giorno le acque sono particolarmente agitate. Si dice che il centrocampista rivelazione dell’Hellas Verona, ora tornato in terre partenopee dal prestito, Michael Folorunsho, ventiseienne di vigorose prospettive, abbia litigato a brutto muso con mister Antonio Conte in un recente allenamento. Conte avrebbe perso le staffe per una mancanza di rispetto del suo atleta, dando il via libera a una sua cessione: 12 milioni di euro il valore di Folorunsho, su di lui, sussurrano gli operatori di mercato, ci sarebbero Fiorentina e Lazio. Il Napoli ha poi un’altra gatta da pelare che non fa dormire ai tifosi sonni tranquilli: Victor Osimhen (il cui valore è di circa 100 milioni) deve essere ceduto per finanziare acquisti necessari a rimpinguare la rosa, soprattutto sul versante offensivo, con Romelu Lukaku ai blocchi di partenza per sostituire la punta nigeriana (il Chelsea, per il belga, chiedere almeno 35 milioni). Al momento, solo il Psg potrebbe accollarsi gli oneri dell’acquisto, i transalpini lo sanno e temporeggiano per abbassare il prezzo. «Mi sono messo a completa disposizione della società» spiega il tecnico «sapevo la situazione che avrei trovato e sul mercato ci sono dei paletti intorno al costo dei giocatori. Molti calciatori non vengono da noi perché non giochiamo le coppe. Io voglio il bene del Napoli e voglio cercare di rinforzare la rosa, ne abbiamo bisogno. Quello che accadrà non lo so, oggi è stato un bel bagno di realtà». Conte è gran maestro nel rendere coese e spumeggianti rose non di livello siderale, ma se vuol puntare allo scudetto, qualche innesto ancora manca. Alcuni tifosi poi, sostengono che il portiere Meret sia un buon atleta, ma non sempre capace di blindare la porta. A proposito di bagni di realtà: pure Cristiano Giuntoli e Thiago Motta della Juventus devono farci i conti. I due hanno stilato una sorta di lista di proscrizione in cui sono finiti i giocatori che non rientrano nel progetto agonistico del nuovo allenatore. Tra questi, un nome altisonante del calcio italiano come Federico Chiesa. L’attaccante esterno, pedina il cui inserimento era già problematico ai tempi di Max Allegri, nonostante guizzi di talento purissimo, l’anno prossimo cambierà casacca, ma la sua collocazione è matassa da sciogliere. L’Inter di Beppe Marotta potrebbe proporre uno scambio con Davide Frattesi. Poi ci sarebbe la Premier League. Le sirene arabe sarebbero state rifiutate. Lo stesso Napoli, se la trattativa per portare Osimhen in Francia andasse in porto, sarebbe disposto a farci un pensierino, proponendo Giacomo Raspadori come contropartita tecnica. La Juve nel frattempo è stata beffata sul tempo dal West Ham per assicurarsi i servigi del difensore del Nizza Jean-Claire Todibo. Francesi e sabaudi stavano limando le reciproche differenze di domanda e offerta, ma gli inglesi hanno messo sul piatto 40 milioni tondi e hanno dribblato la Signora. Juventus che, dal canto suo, sta suscitando nervosismo in casa bergamasca. L’impetuoso olandese Teun Koopmeiners aveva presentato il certificato medico per giustificare la sua assenza negli allenamenti e nelle partite di preparazione alla stagione. Sapendo di essere un obiettivo juventino, voleva la Juve e nient’altro. Patron Percassi ha abbozzato, pur ostentando rigore granitico, sapendo di poter monetizzare dalla trattativa. L’allenatore Gian Piero Gasperini, sulle prime convinto di tenere a Bergamo uno dei suoi uomini più rappresentativi, ha scelto la linea dura, salvo poi, quando ha capito che l’olandese è davvero sul punto di partire e non può essere trattenuto, dichiarate apertamente di volerlo cedere. Morale: Koopmeiners potrebbe vestire la casacca bianconera grazie a un accordo di circa 55 milioni più bonus. L’Atalanta peraltro era già in fibrillazione per l’infortunio occorso a Scamacca, rimpiazzato in pochi giorni da Mateo Retegui, arrivato dal Genoa. A Firenze intanto Rocco Commisso sta ripetendo la mossa che aveva fatto storcere il naso ai tifosi viola in passato. Anni fa, Federico Chiesa e Federico Bernardeschi, infine Vlahovic, erano stati ceduti proprio alla Juve, autentica nemica giurata degli ultras toscani. Ora, con Nico Gonzalez che a sua volta potrebbe accasarsi a Torino, si rivive lo stesso film. L’affare sarebbe calibrato sui 30 milioni di euro e inizialmente sarà previsto solo un esborso in contanti da parte dei bianconeri. Si starebbero valutando sempre alcune contropartite per abbassare la cifra ma, considerata l’esigenza di avere Nico il prima possibile, è probabile che di McKennie o Kostic in viola se ne riparlerà in separata sede. Nonostante una campagna abbonamenti dai risultati iniziali rinfrancanti, un po’ di nervi scoperti toccano pure la Lazio. Luis Alberto si è trasferito in Qatar, Felipe Anderson è tornato in Brasile, Ciro Immobile si è accasato in Turchia, sponda Besiktas. La squadra allenata da Baroni, di proprietà di Claudio Lotito è un cantiere aperto, dagli acquisti futuri sí saggerà la consistenza delle sue ambizioni. Anche l’Inter di Simone Inzaghi non gode di calma olimpica. Il recente match con l’Al Ittihad ha evidenziato una tifoseria poco incline a perdonare eventuali errori di Correa e Arnautovic. L’attaccante argentino vorrebbe restare a Milano a tutti i costi, è uomo scelto dall’allenatore, però, rispetto ai tempi della Lazio, pare che non abbia alzato il livello del suo calcio per stare al passo con i nerazzurri. Da comprendere se effettivamente sia lui, sia l’austriaco, diverranno pedine di scambio per altre trattative.
«È la città che licenzia l’allenatore, il presidente gli dà solo la cattiva notizia». Il motto preferito di Alex Ferguson, che non corse mai quel rischio, vale zero nell’era dei social. Più un tecnico è «out» sul web, più si imbullona alla panchina. Sta accadendo ai due chiacchierati speciali dalle tifoserie, Massimiliano Allegri e Stefano Pioli, dai quali è necessario partire per le previsioni di primavera di quello che sarà il più fantasmagorico ballo dell’estate pallonara: la quadriglia (altro che valzer) degli allenatori in Italia e all’estero.
Allegri è sotto assedio da quando, tre anni fa, è tornato a Torino per rilanciare la Juventus con 7 milioni di stipendio a stagione: fallimento assoluto, non bisogna avere la chioma Apache di Daniele Adani per vederlo. Nessun exploit europeo, tre campionati da dimenticare (il primo chiuso a 16 punti dal Milan, il secondo a 18 dal Napoli, in questo è a -20 dall’Inter), top player come Dusan Vlahovic e Federico Chiesa deprezzati, gioco da provinciale e tifosi che fischiano allo Stadium. In questi casi un tecnico è definito «al capolinea» ma il livornese Max tiene botta: costringerebbe i dirigenti a sborsare un altro anno di contratto per cacciarlo ed è, da sempre, un grande allenatore di giornalisti dietro le quinte. Se vince la Coppa Italia e rimane aggrappato alla zona Champions potrebbe perfino rimanere.
«Abbiamo grande fiducia in lui, stiamo lavorando insieme per trovare la chiave», ha detto l’ad Maurizio Scanavino citando La Bohème. In attesa delle «notti di luna» la Signora però si guarda attorno, anche perché l’Allegriout rimane in tendenza sui social e la tifoseria minaccia di non rinnovare gli abbonamenti. Un’opzione facile sarebbe Raffaele Palladino del Monza, con Alberto Gilardino in Brianza. Una più difficile il ritorno a casa di Antonio Conte (John Elkann è di nuovo favorevole a questa soluzione), ma il sogno notturno rimane Zinedine Zidane.
L’ex fuoriclasse bianconero, vincitore di tre Champions League con il Real Madrid, era stato corteggiato già tre anni fa, prima di Allegri, ma disse no perché aveva voglia di staccare la spina. Ora è fuori dal giro, rigenerato e con il desiderio di rientrare da protagonista nella Torino che lo aveva lanciato e lo adora. L’operazione è fattibile, con una sola incognita che costringerà gli juventini a tifare Kylian Mbappè e perfino Marcus Thuram in giugno: se Didier Deschamps buca l’Europeo, il marsigliese è il candidato numero uno alla panchina per lui irrinunciabile, quella della Francia.
Il destino di Pioli è differente nell’approccio ma potrebbe essere identico negli effetti. Dopo i disastri invernali (fuori dalla Champions, quinto derby consecutivo perso, preparazione sbagliata con infortuni muscolari da Guinness dei primati) il tecnico rossonero sta vivendo una primavera di resurrezione. Ora il Milan è una macchina da guerra, è secondo comodo in campionato e può arrivare in fondo all’Europa League. «Pioliout» aleggia sempre sui settori nobili di San Siro, soprattutto per non essere riuscito a cementare attorno a un fuoriclasse come Rafael Leao una squadra competitiva nel lungo periodo. Ma gli applausi della curva e le carezze di Zlatan Ibrahimovic («Siamo felici, deve continuare così, sta facendo un gran lavoro») sembrano convincere Gerry Cardinale a dargli ancora fiducia. Il piano B però è pronto. Difficile Antonio Conte, che si sarebbe proposto e verrebbe di corsa ma costa sui 20 milioni a stagione. Più semplice ottenere il sì di Thiago Motta che sta facendo volare il Bologna e viene definito l’uomo ideale per aprire un ciclo «da Milan».
Ormai blindato Daniele De Rossi alla Roma dopo la stupefacente rincorsa all’Europa che ha decretato il tramonto di Josè Mourinho, anche la Lazio sembra a posto: Igor Tudor ha firmato fino al 2025, ha il carattere per interiorizzare i valori dell’aquila e a scanso di imprevedibili terremoti potrà soddisfare le ambizioni giochiste di Claudio Lotito. Sugli scenari italiani, per panchine di medio cabotaggio aleggiano anche i nomi di Fabio Pecchia (oggi leader in serie B con il Parma) e del sorprendente Francesco Farioli che lavora con profitto a Nizza.
Il baricentro del toto-allenatori top si sposta per forza a Napoli, dove Aurelio De Laurentiis sta preparando l’ennesima rivoluzione. Con i 120 milioni dalla cessione di Victor Osimhen, il presidentissimo potrà contare sul budget perfetto per convincere Conte e per accontentarlo nelle consuete richieste da Wanda Osiris. I due si stimano, si sentono (De Laurentiis aveva provato a ingaggiarlo dopo lo sfascio di Rudy Garcia), sono anche andati in vacanza insieme. Il colpo dell’estate è tutt’altro che una chimera. E in caso di intoppi l’alternativa è Vincenzo Italiano. Il piccolo Sarri ha dato una dimensione internazionale alla Fiorentina, fa giocare calcio champagne ed è in scadenza di contratto: caratteristiche che piacciono al gran visir partenopeo.
I piani sono questi, ma sul luna park incombe una grande incognita che arriva dall’estero: fra due mesi Bayern Monaco, Barcellona, Liverpool e probabilmente Manchester United saranno senza allenatore. Non è pizza e fichi, soprattutto dopo il no di Xabi Alonso a spostarsi dalla sorpresa Leverkusen. Quelle panchine sono come una pastiera a Pasqua, fanno gola. Jurgen Klopp è l’utopia del Bayern, ma dopo i trionfi e gli stress di Anfield Road vorrebbe andare in vacanza in camper. A Barcellona l’uscita di scena di «piangina» Xavi lascia un vuoto che un certo ex ct in esilio dorato in Arabia Saudita potrebbe riempire: Roberto Mancini.
In alternativa c’è una sicura promessa come Roberto De Zerbi, soprattutto se al piccolo mago Merlino verrà dato tempo di assemblare in modo meno circense il gruppo di giocolieri.
L’intrigo internazionale risucchia inevitabilmente il prezzemolo del momento, Antonio Conte. Sia in Baviera, sia sulle Ramblas, sia nella Manchester depressa che guarda vincere Pep Guardiola sarebbe perfetto, e senza alcun problema di soldi. I guerrieri da inseguire urlando mentre corrono sulla fascia laterale ci sono già. Nella maionese impazzita può perfino rientrare Simone Inzaghi. L’allenatore che sta facendo volare l’Inter tratta il prolungamento fino al 2027, Beppe Marotta gli ha proposto 6,5 milioni e lui sarebbe felice di completare l’opera prima dell’auto-pensionamento dell’ad. Ma mentre gli Zhang nuotano nei debiti, dal punto di vista societario Liverpool e Bayern sono tentazioni formidabili, piazze pazzesche, sfide che cambiano la vita. E che valgono un paio di scudetti.
Vi sono dei protagonisti del Novecento che hanno lasciato testimonianze della loro genialità inventiva divenute pietre miliari della nostra storia. Opere giunte a noi che diamo per scontate da quanto sono entrate nella nostra quotidianità. Citare Miss Italia, icona di bellezze longilinee che appaiono lontane da pacciade (scorpacciate) golose sembra apparentemente non centrare nulla con il mondo culinario, ma scopriremo che un legame c’è, assieme a prodotti iconici delle festività natalizie, il panettone, o pasquali, la colomba. Il Dna è comune e recita Dino Villani, nome che dirà poco o nulla ai più, ma che andiamo a scoprire, con pieno merito.
Mantovano verace, nasce in terra veronese, a Nogara, un giorno dopo il Ferragosto 1898. Papà capostazione delle regie ferrovie. Dopo qualche anno, la famiglia tornerà alle origini in quel di Suzzara, sulle rive del grande fiume, il Po. Il giovane Dino, riformato dal servizio militare per una malattia giovanile, si avvia alla carriera ferroviaria, sostituto dei coetanei spediti al fronte della Grande guerra. Per successione dinastica già lo vedono capostazione, ma qualche anno dopo, per non aver aderito alle regole del nuovo ventennio, verrà licenziato in tronco. In uno dei suoi scritti, divenuto famoso come meritava il suo talento, ebbe a commentare «dovrei ringraziare chi mi ha fatto licenziare dalle ferrovie poiché fuori ho potuto fare quello che, come ferroviere, non mi sarebbe mai riuscito».
Giunto a Milano per occuparsi di pubblicità e comunicazione, un crescendo rossiniano. Nel 1934 viene ingaggiato da un piccolo fornaio che vuole scalare le vendite, Angelo Motta. Con una felice intuizione tradotta graficamente da tale Sepo, al secolo Severino Pozzati, Dino Villani crea le premesse perché il panettone meneghino diventi il simbolo del Natale a tutto stivale. I numeri premiano lo sforzo suo e del Motta diventato imprenditore, da piccolo artigiano qual era. Ma ad ogni investimento, di macchinari e maestranze, deve seguire un ritorno conseguente. Nasce così la colomba pasquale, che vola nelle vendite affiancando il tradizionale uovo al cioccolato. La ricetta promozionale è del Dino mancato ferroviere, la realizzazione grafica di un francese di origini ucraine, Adolphe Jean Marie Muron, più sbrigativamente Cassandre per tutti. Niente male per chi vuol promuovere sogni che poi diventino realtà.
Angelo Motta è felice, il suo nome conosciuto dalle Alpi agli Appennini e dintorni, ma Villani è un torrente in piena «un curriculum di invenzioni ed iniziative pari al medagliere di un condottiero vincitore di mille battaglie», come dirà di lui un compagno di molte avventure, il veronese Giorgio Gioco, patron del leggendario Dodici Apostoli. Era consuetudine che, al termine di ogni tappa del Giro d’Italia, lo sponsor Motta regalasse un panettone per ritemprare le forze del Bartali o Coppi di turno. Ma troppe volte la gazzetta rosa e colleghi di cronaca ritagliavano le foto e il panetùn scompariva. Che fare? Elementare Villani. Si regala un panettone peso massimo, cioè dodici chili. Era come avere Ave Ninchi al posto della miss di turno. Impossibile sbianchettarla. A proposito di miss. Dino Villani inizia a collaborare con la nota casa farmaceutica Carlo Erba, che avvia una linea di produzione di dentifrici in un’Italia che dell’igiene orale aveva un’idea molto vaga. Come stimolare l’aspirazione ad avere bei denti a prova di sorriso splendente? Nasce «5000 lire per un sorriso». Giovani donne di belle speranze, quelle realmente della porta accanto non pescate dai camerini di Cinecittà, inviano foto dei loro sorrisi. Rispondono in migliaia. Solo la guerra porrà fine, nel 1942, alla terza edizione che a conflitto terminato riprenderà a passo di carica, ribattezzata Miss Italia. È sotto la presidenza di Dino Villani (che la passerà a Enzo Mirigliani nel 1958) che indossano le fasce di bellezza tricolore le fino ad allora sconosciute Sophia Loren, Gina Lollobrigida, Lucia Bosè. Basterebbe questa trilogia di citazioni, mottensi e dolciarie, come di bellezza femminile, per riassumere l’impronta lasciata al futuro di Dino Villani.
Ma questa è solo la vetrina, dietro c’è molto altro. Una valorizzazione di storie e tradizioni a matrice gastronomica, quella che viene anche definita cultura materiale, base della nostra identità nazionale e locale.
Innumerevoli gli scritti, le iniziative a testimonianza di questa autentica missione a trazione golosa per cui Dino Villani si è speso per una vita. Il pane, per noi, è dato per scontata presenza sulla tavola, ma non era sempre stato così. «Il pane, un tempo, era fatto con farina di crusca, sostituto più sostanzioso della polenta. Il pane bianco è arrivato dopo e in campagna lo portavano in tavola una volta alla settimana», ossia la domenica. Con l’arrivo del benessere il pane, da prodotto di manualità e forno domestico, sull’orlo di diventare anonimo dai grandi numeri industriali, con la conseguenza «che stiamo arrivando a non sentire più il gusto della farina di grano autentico, in gran parte perduto perché i veloci mulini a cilindro, che avevano sostituito le mole di granito, bruciavano gli olii essenziali che davano profumo e sapore alla farina, una farina svuotata della sua fragranza». Premonitore di un ritorno alle origini che arriverà qualche decennio dopo.
Nelle terre della pianura padana la polenta era dominante, il vero pane quotidiano. Colazione del mattino, abbrustolita in abbinamento con quanto passava la stagione. Dal pesce sottosale, salacca, rosolato al fuoco, così come nelle rigide albe invernali assieme ad un battuto di lardo e, nei giorni seguenti alla mattanza suina, qualche costicina cotta alla brace. Nella pausa del lavoro nei campi o nella stalla il pranzo del mezzogiorno, dopo la rituale minestra, trovava rinforzo nella rassicurante polenta ammorbidita da un po’ di intingolo trasudato dalla poca carne a disposizione.
Grande festa con la polenta pasticciata. Un autentico rito con la cabina di regia materna «che la condiva dopo averla versata un po’ molle nella zuppiera ed aver sparso su ogni strato qualche cucchiaiata di sugo preparato e stufato con un po’ di carne». Riemerge lo spleen dell’infanzia in quel di Suzzara «Se ne avanzava un po’ - e ogni mamma era abilissima nel farlo, la sera - la mattina la trovavamo arrostita in padella, e noi ragazzini battevamo i piedi contenti cercando di accaparrarci dove c’era il condimento con i pezzettini di carne o il lardo ben rosolati». Polenta preparata mescolandola lentamente nel paiolo appeso al focolare. Il giorno dopo qualche crosticina di polenta la si trovava sempre residua sul fondo di rame, ed era leccornia croccante, altro che le caramelle della modernità. Polenta ecumenica, in famiglia, per bambini dalla dentatura tutta da sviluppare come nonni tornati bambini, con il problema inverso. Ma anche come segno di generosa sussidiarietà. «Molti chiedevano l’elemosina per le case e ricevevano quasi sempre una fetta di polenta. Spesso tornavano a casa con la scorta per due tre giorni». Era un tempo in cui la farina gialla, quella per la polenta, costava meno di quella bianca, ovvero per il pane. Nelle campagne di allora «le donne andavano a coltivare il granoturco al terzo», cioè due terzi del raccolto per il proprietario, e il resto per chi lo lavorava. Donne e mamme generose «che per non togliere nulla alla famiglia, andavano nei campi all’alba o sotto il sole cocente».
Era anche questa l’Italia che Dino Villani, adoperandosi per una vita, in settori diversi, ha saputo portare a godere delle varie bellezze del boom economico, da Miss Italia al panettone, passando per la colomba.
Nata dal genio di un panettiere di Novara, Mario Pavesi, la società Autogrill fu simbolo del boom economico e della motorizzazione di massa in Italia. Inglobata dall'Iri negli anni '70, fu venduta da Prodi ai Benetton. Che hanno ceduto agli svizzeri di Dufry.
«La ragazza dietro al banco mescolava/ birra chiara e Seven-up/ e il sorriso da fossette e denti/ era da pubblicita' /come i visi alle pareti /di quel piccolo autogrill/ mentre i sogni miei segreti/ li rombavano via i TIR.» Fu proprio in un Autogrill lungo l'autostrada che Francesco Guccini ambientò la storia di un amore fugace e sfumato per una barista «bionda senza averne l’aria». E le pareti tappezzate di manifesti pubblicitari, le tendine in nylon rosa, il juke box, le insegne al neon riportano chi ascolta quella ballata malinconica ad uno dei luoghi simbolo dell’imprenditoria italiana dal boom economico in poi. La storia della prima catena italiana di ristorazione lungo la rete autostradale ai suoi albori ebbe inizio dal genio imprenditoriale di un industriale dolciario di Novara, Mario Pavesi.
Nato in provincia di Pavia (come recita il cognome) a Cilavegna, piccolo centro a una ventina di chilometri da Novara, Mario fu il tipico esempio dell’intraprendenza del self-made man partito da nulla o quasi. Da un piccolo negozio di panetteria aperto con il fratello, passò a vendere dolci e confetti ai negozi della città piemontese. Nel 1937 decise di iniziare l’avventura in proprio aprendo un forno per la produzione di dolci e dei biscottini tipici novaresi. La guerra non lo fermò, nonostante le crescenti difficoltà nel reperimento delle materie prime. Anzi, Pavesi fu prodigo nel fornire quel che poteva a tutti: soldati, ospedali, partigiani e non. L’unione in matrimonio con la signora Mariuccia Lodigiani, collaboratrice amministrativa semplice e determinata, spinse ancora di più la piccola impresa verso una dimensione industriale. La ricetta vincente era riuscita: l’azienda si ampliò rapidamente tra il 1945 e il 1950. Intuitivo e anticipatore, simile in questo aspetto alla figura di Bernardo Caprotti patron di Esselunga, capì che il business si sarebbe potuto allargare a poche centinaia di metri dalla sua fabbrica, lungo l’autostrada Milano-Torino. Da sempre attento (oltre che ossessionato dalla qualità e dall’igiene in fabbrica) all’aspetto del marketing dei suoi biscotti dalla ricetta originale incentrata sugli aspetti dietetici ed al packaging dei prodotti, Mario volle fare in Italia quello che aveva sentito dagli Americani e che poi vedrà di persona durante un viaggio oltreoceano. Alla stazione di servizio di Novara vedeva tutte le notti i camionisti che si fermavano al piccolo punto vendita per comprare i biscotti e bere qualcosa: furono loro a fare scattare la scintilla della prima catena di ristorazione autostradale italiana, che porterà il suo cognome: «Autogrill Pavesi». Il primo negozio fu inaugurato nel 1950 con un battage pubblicitario studiato e spettacolare, compresa una mongolfiera che campeggiava sopra l’area di sosta di Novara. Gli anni Cinquanta e Sessanta, con la motorizzazione di massa, parallela allo sviluppo della rete autostradale da Nord a Sud del Paese fecero da volano all’idea vincente di Mario Pavesi. Dal piccolo ma futuristico punto di ristoro di Novara la rete della catena Pavesi (o Pavesini dal nome dei biscotti da cui tutto cominciò) si allargò in tutta la penisola, tanto che nel 1969 i dipendenti della società raggiungeranno le 1.800 unità. Gli affari di Mario il panettiere, in quegli anni di euforia per l’Italia uscita dall’incubo del dopoguerra, vedranno altri successi affiancarsi agli Autogrill: dalla sua inventiva nascevano i biscotti Ringo, i primi ad essere venduti in confezioni snack così come una delle bevande immancabili negli aperitivi degli anni Settanta, il Rabarbaro Zucca.
Il successo dei punti ristoro Pavesi, con l’aumentare rapido dell’utenza automobilistica in Italia, lasciò spazio anche alla concorrenza targata Motta e Alemagna, due colossi dell’industria dolciaria italiana. Se Pavesi pensò e fece le cose in grande affidandosi alla maestria dell’architetto Angelo Bianchetti per le aree di servizio Villoresi sulla A8 (pubblicato sulla rivista americana Life) e Fiorenzuola d’Arda lungo l’autosole A1, Motta rispose con la maestosa stazione di Cantagallo e con quella di Limena, struttura ponte futuristica nei pressi di Padova. Alemagna realizzò i propri punti ristoro con un accordo commerciale con il gruppo Eni Agip.
La storia di Mario Pavesi alla guida della grande catena si interruppe nel 1972 quando, afflitto dalle prime avvisaglie di una grave malattia che lo porterà alla morte nel 1990, decise di cedere alla Montedison il business di Autogrill esautorando i figli ancora troppo giovani dalla successione (si occuperanno in seguito degli altri marchi del gruppo). Il fondatore rimarrà presidente fino al 1974 e tre anni dopo, come era già accaduto ai concorrenti Motta e Alemagna, gli autogrill Pavesi furono inglobati assieme ai primi due marchi nel gruppo statale Sme, ramo alimentare dell’Iri, acquisendo la definitiva denominazione societaria «Autogrill». Sotto la gestione pubblica Autogrill inizia la lunga fase di espansione sia in Italia che all’estero. Degli anni Ottanta sono i brand della ristorazione espressa «Ciao» e «Spizzico», che ebbero una certa diffusione non solo in ambito autostradale nell’Italia che scopriva il mondo del fast food. I nuovi ristoranti furono aperti anche nelle principali città italiane e negli scali aeroportuali. Proprio la ristorazione aerea e il settore delle vendite in regime di porto franco duty free saranno gli obiettivi della società nel decennio successivo, caratterizzato nella prima metà da un’altra rivoluzione societaria per il marchio Autogrill. Nel 1993 l’Iri guidata per la seconda volta da Romano Prodi procedette allo smembramento e alla privatizzazione della Sme. Dopo un periodo in cui le offerte di diverse realtà bancarie e industriali furono ritenute inadeguate, il Gruppo comprendente Autogrill e la catena di supermercati Gs fu venduto ad una cordata costituita dalla famiglia Benetton e dall’altro grande imprenditore del nordest, Leonardo Del Vecchio. All’epoca della privatizzazione Autogrill aveva una rete di 311 punti vendita, quasi 6.500 addetti e un margine operativo lordo di 119 miliardi di lire. Sotto la gestione Benetton (Edizione Holding) l’azienda fu quotata in borsa nel 1997 e proseguì la forte espansione all’estero mediante importanti acquisizioni, sopra tutte quella del colosso della ristorazione aeroportuale statunitense HMS che deteneva il monopolio del franchising autostradale di importanti fast food come Burger King, Pizza Hut e altri. In Italia il marchio Burger King fu rappresentato proprio da Autogrill. Negli anni 2000 aumentò la presenza internazionale della partecipata dei Benetton nel business delle vendite aeroportuali esentasse, scisse nel decennio successivo dal ramo ristorazione con la nascita di World Duty Free con sede a Novara (esattamente dove nacquero gli autogrill di Pavesi), società quotata e in seguito interessata da un Opa della svizzera Dufry nel 2015 che ne ha acquisito la proprietà. La stessa società con sede a Basilea ha ripetuto l’operazione con l’acquisizione di Autogrill dai Benetton (rimasti possessori del 20% del pacchetto azionario), che determinerà di fatto la fine dell’italianità di quell’azienda che per quasi 80 anni ha nutrito i viaggiatori lungo tutta la rete autostradale e aeroportuale della penisola, facendo di Autogrill uno dei simboli più evocativi del miracolo economico del dopoguerra.
Dal dolce ripieno di crema al pistacchio o al limoncello (firmato Cannavacciuolo) passando per le classiche sorprese dedicate a grandi e piccini.
Lo speciale contiene gallery fotografiche.
Si avvicinano le celebrazioni pasquali, che in questo 2022 cadranno domenica 17 aprile. In questo clima ancora incerto, gli italiani non rinunciano a festeggiare e i più gradi pasticceri si son già messi all’opera per creare nuovi dolci.
Lo chef stellato Carlo Cracco ha deciso di puntare sul pistacchio, mentre Antonino Cannavacciuolo ha scelto il fascino del limoncello. Non mancano però anche le ricette della tradizione, arricchite da glassa di mandorle e scorzette d’arancia.
Pasqua 2022 sarà anche l’occasione per fare del bene. Il Viaggiatore Goloso ha confermato la sua partership con la Fabbrica del Duomo di Milano creando una colomba e un uovo ricoperto di nocciole, il cui ricavato andrà alla ristrutturazione del monumento meneghino. Ma c’è anche chi guarda alla situazione in Ucraina. Bennati - azienda lombarda specializzata in cesti - ha deciso che il 10%, di tutti gli acquisti effettuati sul loro sito per la Pasqua, direttamente al fondo del Ministero della Salute Ucraino. Per rafforzare il loro impegno hanno inoltre ideato la «Colomba della pace», con l’auspicio che il dolce diventi un simbolo di vicinanza e di Pace per un popolo messo in ginocchio dal conflitto.
Le colombe






































