Il processo al cardinale Angelo Becciu si ferma e torna in mano al promotore di giustizia, ma al tempo stesso continua. Ieri il collegio del Tribunale Vaticano, presieduto da Giuseppe Pignatone, ha ritenuto «che la lamentata (dalle difese, ndr) violazione dell'art. 289 c.p.p. sia fondata, limitatamente, però, agli imputati ed ai reati di seguito precisati, con conseguente restituzione degli atti al promotore di giustizia nei relativi limiti soggettivi ed oggettivi». Tradotto, per alcuni imputati gli atti tornano in mano alla Procura, mentre per altri, in alcuni casi colpiti dallo stesso capo d'accusa, il processo, salvo ulteriori sorprese, prosegue come se non fosse successo nulla. Si ferma completamente il processo per l'ex segretario di Becciu, monsignor Mauro Carlino (accusato di cinque episodi di abuso d'ufficio e uno di estorsione) e per l'uomo d'affari Raffaele Mincione (tre accuse di peculato, una di truffa, una di abuso d'ufficio, una di appropriazione indebita e quattro di autoriciclaggio). Stop a tutte le accuse anche per l'avvocato Nicola Squillace (truffa, abuso d'ufficio, riciclaggio e autoriciclaggio) e per l'alto funzionario del Vaticano Fabrizio Tirabassi (cinque accuse di corruzione, sei di abuso d'ufficio, quattro di peculato). Per il principale imputato, il cardinale Becciu invece, sono stati restituiti gli atti per due imputazioni su otto. A tornare sulla scrivania dall'aggiunto Alessandro Diddi, sono le carte relative all'accusa di subornazione di teste (capo EE) e una delle cinque accuse di peculato (il capo JJ), quella relativa ai 225.000 euro percepiti dalla cooperativa presieduta dal fratello. Vanno avanti invece le due ipotesi di abuso d'ufficio e le restanti quattro di peculato, tra cui quella che, oltre al porporato coinvolge Cecilia Marogna, titolare della società slovena Logsic, destinataria di fondi della Segreteria di Stato. Somme di cui i due, secondo l'accusa si «appropriavano indebitamente convertendole a proprio profitto e comunque usavano in modo illecito e distraevano, a vantaggio proprio, i fondi ed i valori pubblici, di importo non inferiore a 575.000 euro, destinandolo anche ad acquisti voluttuari incompatibili con le finalità impresse dalla Segreteria di Stato nell'atto di affidamento stesso alla predetta Logsic». La società riconducibile alla Marogna era anch'essa imputata, ma quel capo d'accusa è tra quelli fermati dalla decisione del tribunale. Tornano parzialmente all'ufficio del pg anche le posizioni di Enrico Crasso per un'ipotesi di peculato, una di corruzione, cinque di truffa, una di falso e una di riciclaggio (rimangono due ipotesi di peculato, due di corruzione, una di truffa e una di estorsione); di Tommaso Di Ruzza per il reato di peculato (restano in piedi sei ipotesi di abuso d'ufficio e una di pubblicazione di documenti segreti). Per tutte le posizioni rimaste del tutto o in parte immuni dal decreto, il processo va avanti, e riprenderà nell'udienza fissata al 17 novembre. Per i rinvii a giudizio interamente o parzialmente azzerati, invece, si dovrà procedere agli interrogatori degli indagati, decidendo poi sulle nuove basi, o per un nuovo rinvio a giudizio o per l'archiviazione. La restituzione degli atti all'Ufficio del promotore di giustizia era stata chiesta nell'udienza di due giorni fa dallo stesso pg aggiunto Diddi, motivandola con l'intento di procedere agli interrogatori preliminari degli imputati che non li avevano resi durante la fase di indagine. Le difese dei dieci imputati avevano invece bollato come «irricevibile» la richiesta di Diddi, puntando invece ad ottenere la nullità del decreto di citazione a giudizio a causa sia dei mancati interrogatori preliminari sia per l'ancora omesso deposito di atti del processo, tra cui i il video dell'interrogatorio di monsignor Alberto Perlasca.
Registrazione di cui Pignatone ieri ha disposto il deposito entro il 3 novembre, acconsentendo ad una richiesta presentata dalle difese fin dall'udienza del 27 luglio e alla quale l'accusa si era inizialmente detta d'accordo, per poi cambiare idea, adducendo ragioni di privacy. Per l'ex capo della Procura di Roma, «il deposito degli atti richiesti dalle difese appare indispensabile al fine di assicurare la par condicio delle parti nella conoscenza degli atti e quindi il rispetto del principio del contraddittorio». Ma dal decreto emesso ieri dal tribunale emerge la durezza dello scontro procedurale che ha paralizzato queste prime due udienze. Il 27 luglio le difese chiedono «il deposito delle audio e videoregistrazioni degli interrogatori degli imputati e delle dichiarazioni rese da Mons. Alberto Perlasca», e «il promotore di giustizia ha aderito alla richiesta esplicitando che in proposito “non e c'è nessun problema"». Di conseguenza il tribunale ha disposto il deposito degli atti. Il 9 agosto però, l'ufficio del promotore ha comunicato al tribunale che non avrebbe provveduto al deposito osservando, che «il deposito del materiale di cui si tratta sia suscettibile di successiva divulgazione con conseguente potenziale grave ed irreparabile nocumento dei diritti delle persone che hanno partecipato all'atto (oltre agli interessati, gli avvocati e, in un caso, l'interprete)» e che con il deposito «risulterebbe irreparabilmente compromesso il diritto alla riservatezza delle persone coinvolte». Una posizione stroncata senza appello dal collegio giudicante: «Non si comprende come la tutela della riservatezza possa essere messa a rischio dalla pubblicità, propria della sede dibattimentale, di atti (gli interrogatori) che per loro natura non sono sottoposti a segreto di dichiarazioni […] che lo stesso Promotore ha indicato come fonti di prova e ha ripetutamente evocato per motivare la sua richiesta di citazione a giudizio degli imputati».
- La prima operazione spericolata avrebbe riguardato una piattaforma petrolifera in Africa, per poi virare sull'immobile londinese e su altri palazzi oltre Manica. Ancora sotto sequestro i telefonini di Raffaele Mincione.
- L'ex cardinale avrebbe messo 50 milioni nel fondo Centurion di Enrico Crasso. E quelle risorse hanno preso la via del cinema e della Italia Independent di Lapo Elkann.
Lo speciale contiene due articoli.
È sulle spericolate operazioni finanziarie su cui sono transitati i soldi dell'Obolo di San Pietro che sta lavorando il tribunale di prima istanza del Vaticano, presieduto dall'ex capo della Procura di Roma, Giuseppe Pignatone. Nello specifico vengono analizzati tutti gli investimenti effettuati dal dimissionario cardinale Angelo Becciu quando era alla segreteria di Stato, tra il 2011 e il 2018. La sezione degli Affari generali della segreteria gestisce quasi 800 milioni di euro, una cifra considerevole a cui i Papi hanno sempre prestato attenzione, anche perché dovrebbero servire a opere di bene in giro per il mondo, dove le comunità cristiane sono spesso in difficoltà.
Che il prelato sardo avesse una certa inclinazione per investimenti «particolari» lo confermano le carte che in questi mesi hanno portato all'arresto per estorsione del broker molisano Gianluigi Torzi e del funzionario amministrativo vaticano Fabrizio Tirabassi, ma anche alle indagini sul finanziere Enrico Crasso, come all'acquisizione di cellulari e iPad di Raffaele Mincione, celebre gestore del fondo Athena. A questo si aggiunge un'indagine per riciclaggio. Uno dei potenziali investimenti è stato infatti quello da 200 milioni di euro in Angola, in una piattaforma petrolifera. Sarebbe stato proprio Becciu a contattare Crasso, all'epoca in Credit Suisse, per veicolare i soldi nel Paese africano, ricco di petrolio ma anche tra i più corrotti del mondo. Del resto il cardinale è stato per anni nunzio apostolico a Luanda. Fu nominato nel 2001 da papa Wojtyla e ci è rimasto fino al 2009. A convincere Becciu dell'investimento sul petrolio è Antonio Mosquito, uomo d'affari angolano, proprietario del 66,7% della società di costruzioni portoghese Soares da Costa Construções. L'idea sarebbe stata quella di far diventare il Vaticano azionista al 5% della piattaforma petrolifera della società nazionale Sonangol insieme con Eni, ma soprattutto permettere a Mosquito di ripianare un debito con la Falcon Oil. L'amico di Becciu in Angola è anche azionista di maggioranza della Global media group, holding portoghese proprietaria di quotidiani e che vede tra i suoi azionisti Joaquin Oliveira, titolare della squadra di calcio di Porto.
L'affare però non va a segno. Sia perché i guadagni sarebbero arrivati nel lungo periodo, sia perché sarebbe stato proprio Becciu a rinunciare, come ha più volte ripetuto. A consigliare il cardinale sarebbe stato lo stesso Mincione, che avrebbe indirizzato la segreteria di Stato su altri tipi di investimenti, tra cui un immobile di Londra, con cui i soldi sarebbero raddoppiati nel breve periodo e non nel lungo. Succede così che i 200 milioni che dovevano arrivare in Angola tramite Credit Suisse virano invece nel fondo Athena e sul super immobile di Sloane Avenue. Ma lì incominciano altri problemi. Perché anche questo affare non va nel migliore dei modi. E come già raccontato dalla Verità, negli anni non ci sarebbe stato solo quell'investimento da parte del Vaticano. A febbraio 2014 ci sarebbero state operazioni su altri immobili, anche in questo caso con commissioni altissime e con segnalazioni all'antiriciclaggio da parte dell'Aif.
Non a caso a luglio la Procura di Milano ha bussato alla porta del celebre studio legale Libonati-Jaeger. Stava cercando Nicola Squillace per acquisire fatture e documenti relativi alla Gutt sa, la società di proprietà di Torzi. Il finanziere di origine molisana, ma da anni radicato a Londra, sarebbe stato ingaggiato dalla Santa Sede con l'obiettivo di riprendere la proprietà del palazzo gestito dal fondo Athena di Raffaele Mincione, mentre secondo l'accusa avrebbe conservato per sé un pacchetto di azioni della società anonima, la Gutt sa, coinvolta nel passaggio di mano in modo da rimanere proprietario di fatto di Sloane avenue. In estrema sintesi la strategia d'uscita dal fondo che faceva capo a Mincione in relazione all'immobile di Sloane avenue sarebbe stata imbastita, a quanto avrebbero ricostruito i magistrati vaticani, con un'operazione che prevedeva da un lato che la segreteria di Stato rilevasse l'immobile di Londra e dall'altro che la stessa segreteria versasse a Mincione 40 milioni di euro a titolo di conguaglio. Successivamente la segreteria, rappresentata da Tirabassi e da Crasso, avrebbe deciso di triangolare l'acquisizione dell'immobile di Londra attraverso la Gutt sa di Torzi. Dando il via a una serie di altre operazioni che avrebbero portato agli arresti del broker e all'acquisizione dei telefoni e iPad di Mincione. Lì dentro si troveranno i collegamenti con le scalate del finanziere. Il denaro buttato in Carige era quello dell'Obolo di San Pietro? Si troveranno riscontri dentro i telefoni di Mincione? Ma soprattutto l'enorme massa di denaro è finita perduta come nel caso di Genova, oppure qualcuno ne ha beneficiato e ha ancora qualche conto cifrato in Svizzera?
L’Obolo finito nel film su Elton John
Gran parte dell'inchiesta che ha portato alle dimissioni del cardinale Angelo Becciu ruota intorno alla gestione dei soldi della segreteria di Stato dal 2011 al 2018. Seguendo i flussi di denaro Alessandro Diddi e Gian Piero Milano, i due promotori che si stanno occupando dell'indagine, scoprirono che 50 milioni di euro erano finiti nel fondo Centurion Global Fund, con sede a Malta, gestito dal finanziere Enrico Crasso, 71 anni, con residenza in Svizzera. Parte di queste risorse fanno parte dell'Obolo di San Pietro, ovvero soldi in teoria destinati ai poveri o spesso ai missionari che vivono in zone di guerra. È un pacchetto di denaro su cui papa Francesco vuole la massima attenzione, anche per evitare troppa pubblicità.
Proprio Becciu avrebbe deciso all'epoca di mettere i 50 milioni nel fondo Centurion, anche grazie al rapporto di fiducia con Crasso. Ed è proprio sul rapporto tra i due, il finanziere svizzero e il cardinale, che si incentra la maggior parte delle indagini, che vogliono approfondire anche possibili spostamenti di denaro in paradisi fiscali. Perché proprio su questo asse si sarebbero sviluppati sia l'affare dell'immobile di Londra da 350 milioni di euro sia molti altri simili. Tra questi ci sarebbe anche quello del possibile investimento da 200 milioni di euro in una piattaforma petrolifera in Angola. Anche in questo caso Becciu si sarebbe rivolto a Crasso, che all'epoca era in Credit Suisse.
Del resto Crasso è stato per anni il gestore delle finanze della segreteria di Stato vaticana. Sin dal 1993, come ieri ha precisato all'Adnkronos, «Ho avuto l'onore di gestire la Segreteria di Stato dal 9 marzo 1993. Sono cambiati quattro sostituti per gli Affari generali e tutti hanno apprezzato il lavoro svolto». E soprattutto spiega di non «aver mai gestito da solo le finanze vaticane» e di non «aver mai gestito fondi con sede in Paesi in black list». Ora è accusato di estorsione in concorso con il broker Gianluigi Torzi e con Fabio Tirabassi, responsabile dell'ufficio amministrativo della segreteria di Stato. A giugno, dopo l'arresto di Torzi, aveva assicurato di offrire massima collaborazione agli inquirenti, «fiducioso della correttezza» del suo operato.
Crasso non è un uomo qualunque nella finanza. Gestisce da anni pacchetti di miliardi di euro. Aveva iniziato negli anni Settanta come responsabile di filiale del vecchio credito italiano, poi dopo un'esperienza in Barclays e in banca Generali c'è stato il salto in Credit Suisse. Da lì si sono aperte le porte del private equity. Sta di fatto che mentre da un lato Becciu scalava le porte di San Pietro fino a diventare cardinale, dall'altro Crasso iniziava a fare carriera.
Dopo gli anni in Credit Suisse entra in Azimut, gruppo che nel solo 2019 ha avuto utili per 370 milioni di euro. Crasso è nella divisione svizzera, la Az Swiss. Nel frattempo ha creato nel 2014 una società, la Sogenel, che nel 2016 sarà rilevata proprio dalla Az Swiss, sempre per la gestione di patrimoni e fondi. Sogenel nel solo 2015 gestiva masse per circa 591 milioni di euro, prevalentemente per clienti istituzionali. Ma Crasso non si ferma qui. E stringe accordi anche con Italian Indipendent di Lapo Elkann, rampollo degli Agnelli. È tramite il fondo Centurion, dove sono depositati i 50 milioni di euro dell'Obolo di San Pietro, che avviene la ricapitalizzazione della società che produce occhiali da sole di Elkann. L'investimento è di 6 milioni di euro, per una quota del 25% della società. Proprio nell'aprile 2019 Crasso entra anche nel board di Italian Indipendent. Ma non finisce qui. Perché Centurion si allarga anche a investimenti da 10 milioni di euro con Enrico Preziosi della Giochi Preziosi e arriva a finanziare due film, Men in Black: International e Rocketman, la biografia di Elton John. In Vaticano sospettano che parte dei soldi che Francesco voleva per i missionari abbia preso altre strade.
Il Tar del Lazio ha dato torto alla presidenza del Consiglio dei ministri in merito al ricorso al golden power su Retelit. La notizia, riportata ieri dal settimanale Milano Finanza, smonta quello che finora è sempre stato l'«alibi» del premier, Giuseppe Conte, coinvolto direttamente nella storia della società attiva nei servizi digitali e infrastrutture per il mercato delle Tlc.
Ma partiamo dalla sentenza dei giudici amministrativi che sono stati chiamati a decidere sull'annullamento di tre Dpcm con i quali Palazzo Chigi aveva esercitato i poteri speciali del cosiddetto golden power, imponendo a Retelit specifiche condizioni, e aveva comminato alla società una sanzione amministrativa pecuniaria. «La vicenda trae origine dal rinnovo del cda di Retelit, deliberato in sede di assemblea degli azionisti del 27 aprile 2018, avendo la presidenza del Consiglio dei ministri ritenuto che i cambiamenti intervenuti nella governance della società fossero tali da incidere sulla disponibilità degli attivi strategici della società», ricordano in una nota i legali dello studio Chiomenti (di cui, tra l'altro è socio Giulio Napolitano, figlio dell'ex presidente della Repubblica) e dello Studio Associato Ielo-Mangialardi, che hanno assistito Retelit. La presidenza del Consiglio si era rivolta all'Agcom, l'Autorità garante delle comunicazioni, per valutare se gli asset di Retelit fossero o meno strategici, ricevendo parere positivo. Ma Retelit ha fatto ricorso al Tar, che lo ha accolto, rilevando la carenza di una «valida istruttoria» circa i presupposti per applicare i poteri speciali e quindi imporre condizioni alla società. Il parere dell'Agcom, «benché non obbligatorio, ha rivestito una importanza centrale per l'accertamento dell'esistenza del presupposto oggettivo per l'esercizio dei poteri speciali», si legge nella sentenza del 20 luglio scorso. A rilasciare il documento, però, era stato il segretario generale dell'Autorità di garanzia nelle comunicazioni, che tuttavia, secondo i giudici, «risulta privo del potere di adottare atti di siffatta natura». Potere attribuito, invece, alla competenza deliberativa del Consiglio dell'Agcom, composto dal presidente e da tutti i commissari. «Da un lato, non risulta né nella nota Agcom, né da altro atto versato in giudizio che il segretario si sia limitato a esternare il contenuto di un atto adottato dal soggetto competente (il Consiglio); dall'altro, è indimostrata la circostanza che il segretario fosse stato delegato all'adozione del parere, né, più in generale, che una siffatta delega potesse essere rilasciata sulla base delle delibere a contenuto organizzativo dell'Autorità», viene aggiunto nella sentenza del Tar. Che quindi definisce l'istruttoria svolta dall'Amministrazione «viziata» per essersi basata su un parere dell'Agcom «rilasciato da un soggetto privo della competenza ad adottarlo».
Ma cosa c'entra Conte in tutta questa storia? Ricordiamolo. Nella primavera del 2018 Retelit è stata oggetto di una battaglia tra due liste: la prima sostenuta da Bousval (società lussemburghese riferibile al ministero libico delle Poste) e dai tedeschi di Axxion e l'altra (Fiber 4.0) guidata dal finanziere Raffaele Mincione (poi coinvolto nell'inchiesta sugli immobili del Vaticano). A imporsi è stata la prima lista, ma per la seconda squadra era stato arruolato come consulente legale l'avvocato Giuseppe Conte che, poche settimane dopo, sarebbe diventato premier. In veste di avvocato, dunque, Conte aveva fornito un parere pro veritate alla cordata di Mincione sull'eventuale violazione degli obblighi stabiliti dal golden power supportando le ragioni di Fiber 4.0 e avvertendo del fatto che il governo avrebbe potuto sanzionare la società. Una volta a Palazzo Chigi a capo della coalizione gialloblù, il premier si era astenuto dalle decisioni su quel diritto di veto posto in nome dell'interesse pubblico chiamato golden power. «Ho accettato l'incarico in un momento in cui io stesso non potevo immaginare che di lì a poco sarebbe nato un esecutivo da me presieduto, che poi sarebbe stato chiamato a decidere su Retelit», aveva dichiarato nell'informativa al Parlamento il 5 novembre del 2019. Ricordando che in due Consigli dei ministri (il primo il 7 giugno 2018, il secondo l'8 agosto 2018) lui non partecipò per «evitare qualsiasi forma di conflitto d'interessi». E rafforzando la sua difesa proprio con la certificazione dell'Agcom che però non ha mai mostrato. Con la sentenza del Tar, viene dunque meno dal punto di vista politico l'«alibi» usato da Conte nel caso Retelit. Tanto che ieri sul caso è intervenuto Giulio Centemero, capogruppo della Lega in commissione finanze: «Il 5 novembre del 2019 chiesi al presidente del Consiglio chiarimenti in merito alle motivazioni che spinsero il Consiglio dei ministri a esprimersi sull'attivazione del golden power relativo a Retelit. Sollevai il caso pubblicamente e ora la giustizia ha fatto il suo corso».
Sarebbe stata direttamente la registrazione all'Hotel de Russie, a Roma, a far scattare l'alert relativo alla rogatoria emessa dalla magistratura vaticana nei confronti di Raffaele Mincione, il finanziere italo-londinese indagato nell'ambito dell'inchiesta sull'acquisto del palazzo di Sloane avenue a Londra. Le generalità dei clienti degli hotel infatti vengono comunicate alla questura tramite un sistema elettronico denominato «Servizio alloggiati», collegato direttamente al database delle forze dell'ordine. La presenza della nota di ricerca nei confronti di Mincione, destinatario della rogatoria internazionale del Vaticano, avrebbe dunque fatto scattare l'alert in sala operativa.
In hotel, all'alba, «si sono quindi presentati gli uomini del commissariato Trevi che, verificata la presenza del finanziere, gli hanno sequestrato la strumentazione elettronica come da richiesta della Santa sede», scrive l'Adnkronos. Confermando gli ottimi rapporti in corso tra la gendarmeria e la Procura di Roma. Appare altrettanto chiaro che il sequestro dei device nella disponibilità del finanziere è da collegarsi anche all'azione difensiva riportata giusto due giorni fa dal Messaggero. Il quotidiano romano racconta delle memorie depositate con l'intento di scaricare ogni minusvalenza e decisione legale all'interno delle Mura leonine.
Nel documento ci sarebbero decine di allegati, lettere «firmate da plenipotenziari del Vaticano, autorizzati direttamente da papa Bergoglio, dal segretario di Stato o dal sostituto. C'è pure il regolamento dei fondi di Athena capital, i memo sui trasferimenti delle quote, gli accordi di sottoscrizione, le copie delle procure di monsignor Alberto Perlasca, il transfert agreement. Il promotore di giustizia lo ha in ogni caso indagato per peculato e truffa per come è avvenuto il disinvestimento di Athena e l'acquisto della intera proprietà dell'immobile da parte della Santa sede (posseduta solo al 45% per mezzo della società Gutt di Gianluigi Torzi, subentrata nel 2018 al fondo di cui Mincione era solo uno degli amministratori). «Mincione per il Vaticano sarebbe il soggetto che ha tratto il maggior vantaggio economico dall'intera operazione», scrive il Messaggero. Ma il finanziere, carte alla mano, passa al contrattacco sottoponendo la correttezza del suo agire al giudizio della magistratura inglese e trascinando in tribunale la Segreteria di Stato per una azione di accertamento. Al di là del carteggio ufficiale entrare nella disponibilità di mail e di chat sulle diverse piattaforme (comprese quelle criptate) aiuterà la Gendarmeria vaticana a comprendere se nelle pieghe dei contratti ci fossero accordi opachi o illeciti nella gestione delle commissioni o nella retrocessione delle fee.
Gli inquirenti potrebbero anche concentrarsi sui possibili legami tra Mincione e Torzi, l'ultimo player dell'affare di Sloane avenue. Non solo. L'inchiesta ha sfiorato anche consulenti all'epoca dei fatti appartenenti a Ey e subito deferiti dal colosso delle verifiche di bilancio per via del codice di condotta. È però da sottolineare che un recente articolo del Financial Times si è scagliato in modo scomposto su presunte cartolarizzazioni di false fatture per conto di elementi affini alla 'ndrangheta. In questo caso il quotidiano della City cita un team afferente a Ey. Sarà una probabile inchiesta svizzera a fare luce (la banca citata ha sede a Ginevra) sugli eventuali illeciti e a scoprire se l'inchiesta del Financial Times sia un fraintendimento o un effettivo scoop. Così come potrebbe anche mettere in connessione i presunti falsi bond con attività afferenti all'inchiesta vaticana partita da Sloane avenue. Al momento è certo che le tensioni sono alle stelle. Non si può escludere che Mincione voglia avviare una causa milionaria nei confronti del Vaticano stesso per danni reputazionali e per il congelamento dei suoi conti correnti (poi sbloccati dalla magistratura elvetica). La partita lascia intuire nuovi colpi di scena anche nel breve termine. L'obiettivo è chiudere il cerchio dell'inchiesta nel più breve tempo possibile.
Una ventina di minuti davanti ai deputati della Repubblica. Il premier, Giuseppe Conte , se la cava così e si convince di uscire dal vicolo del conflitto d'interessi nel quale si è infilato da solo. Il tema in questione è il suo ruolo di avvocato che ha rilasciato un parere sulla società di tlc Retelit sulla quale il primo cdm del governo Conte uno si è pronunciato. Nei 20 minuti ha però aggirato ed evitato il dettaglio più semplice. Due domeniche fa, alla vigilia dell'esito del voto in Umbria, il Financial Times diffonde un articolo che mette in collegamento Conte con gli scandali vaticani che portano a Raffaele Mincione. Nello smentire il testo la stessa sera Palazzo Chigi diffonde una nota nella quale spiega che non poteva sapere di essere presidente in pectore. E quindi perché sottrarsi all'incarico?
In realtà Conte firma il parere il pomeriggio del 14 maggio 2018. Quella mattina un quotidiano nazionale pubblicava un articolo in cui si faceva il nome di Conte come candidato grillino e il nome di Giulio Sapelli come candidato leghista. L'articolo non era per nulla campato per aria. La sera prima infatti i due premier in pectore erano stati ascoltati in momenti diversi nella stessa suite di un albergo milanese. A ricevere i due c'erano Giancarlo Giorgetti e Matteo Salvini per la Lega e Luigi Di Maio e Vincenzo Spadafora per il M5s. Nella sua relazione ieri sera Conte non ha per nulla smentito - non poteva farlo - gli eventi e si è limitato a dire: «Ho letto che alcuni organi di stampa riferiscono di un incontro avvenuto a Milano, nella serata del 13 maggio, con i leader dei due partiti che poi avrebbero sostenuto il nuovo esecutivo. Preciso che questo primo incontro, evidentemente interlocutorio rispetto al conferimento dell'incarico di governo, questo primo incontro, dicevo, è comunque intervenuto a distanza di giorni dall'accettazione dell'incarico e quando l'attività di studio della questione giuridica e di elaborazione del parere era ormai terminata». Come dire, ai primi di maggio non sapevo dell'incarico e quando ho saputo ormai il parere era redatto. Un po' semplicistica come posizione. D'altronde Conte non chiarisce nemmeno una seconda incongruenza. Nella nota di lunedì 28 ottobre, Palazzo Chigi tiene a precisare di non aver avuto contatti con alcuno ai vertici di Fiber 4.0 (tanto meno con Mincione), ma non spiega da chi gli sia arrivato l'incarico.
Il leghista Giulio Centemero nel suo intervento si ricollega a questo punto e aggiunge altri due elementi. Chiede di far luce su chi abbia effettivamente contattato Conte sul tema e suggerisce (evidentemente alla Consob) di controllare l'andamento delle azioni Retelit in quei giorni finali di maggio 2018. Il dito del leghista fa emergere in effetti picchi anomali di acquisti e in modo indiretto riporta la questione su Carige. Se nessuno ai vertici di Fiber 4.0 ha conferito l'incarico del parere non è che è stato l'avvocato Guido Alpa? Centemero aggiunge un'altra domanda: perché Conte ha chiamato il legale di Carige durante l'assemblea decisiva per le sorti della scalata da parte di Mincione? Il busillis è infatti tutto qui. Sembra sempre più chiaro che opposizioni e maggioranza stiano girando attorno al nodo della questione. Quali mondi rappresenta Giuseppe Conte? E a quali fa riferimento su due partite così delicate, quella bancaria e quella delle telecomunicazioni. Il primo punto riporta la questione al Vataicano e agli interessi di quest'ultimo su Carige. È ormai appurato che Mincione, lo stesso raider che scalava Retelit, era impegnato sulla banca genovese e lo faceva gestendo in parte il denaro proveniente dall'Obolo di San Pietro. Aveva interesse il Vaticano ad allontanare il primo azionista (la famiglia Malacalza) e affidare la banca a Mincione? Dopo lo scoppio dell'inchiesta interna sugli investimenti a Londra verrebbe da temere di sì. Poi c'è l'altro dossier bollente, quello delle tlc e del 5G. Nell'intervento in Aula ieri sera ha fatto bene a ricordare Giorgio Mulè (Fi) che il parere dell'antitrust sulle mosse di Conte su Retelit (documento che mira ad assolverlo) viene emesso solo perché il caso viene sollevato da una interpellanza del Pd. Conte dunque non avrebbe mai fatto emergere la sua posizione di imbarazzo e il vero motivo dell'assenza nel cdm del 7 giugno 2018. Seduta nella quale il suo governo ha messo il golden power sull'azienda di tlc. Va notato che il primo governo Conte si apre con un cdm dedicato alle tlc e il secondo governo Conte si apre con un cdm dedicato all'allargamento dei poteri del golden power sul 5G. Da lontano sembra una coincidenza, mentre da vicino non si può non vedere un nesso. La partita Retelit potrebbe essere delicata quanto quella che passa sotto il nome di Spygate.
Il premier che non ha mai mollato le deleghe ai servizi si trova in mezzo a una grossa partita delle intelligence internazionali. C'è dunque un livello più basso di potenziale conflitto (Carige e il Vaticano) e un livello più alto (i cavi sottomarini e la cybersecurity). Un giorno fornirà la risposte delle risposte? Ha agito per l'interesse nazionale oppure no...






