Otto gennaio 1324. A Venezia muore Messer Marco Polo. È il suo ultimo viaggio, a coronamento di una serie straordinaria di peregrinazioni ai confini del mondo allora conosciuto, sebbene da un quarto di secolo ormai si fosse dedicato alla vita stanziale, consolidando il patrimonio della sua famiglia e accasando a buoni, anzi ottimi, partiti le tre figlie Fantina, Bellela e Moreta. Lui stesso d’altronde aveva sposato nel 1300 la nobildonna Donata Badoer; a quel tempo aveva 45 anni, di cui quasi 30 trascorsi lontano da Venezia. Era stato infatti nel 1271 che Niccolò e Matteo Polo, rispettivamente padre e zio del nostro, avevano deciso di portare con loro il diciassettenne Marco in un viaggio che a lunghe tappe, attraverso Acri, Samarcanda, Caschar (oggi Kashi, nel Turkestan cinese) e mille altri luoghi soffusi di leggenda lungo la Via della seta, li avrebbe avvicinati sempre più a Cambaluk, l’odierna Pechino, in quella che non era solo una spedizione di mercatura ma anche una missione diplomatica. Qui li attendeva infatti Kublai, nipote di Gengis Khan e imperatore dei Mongoli-Tartari, che in un viaggio precedente dei fratelli Polo aveva loro affidato una lettera per papa Clemente IV. Per inciso, quella lettera Clemente non l’avrebbe mai letta, essendo morto nel 1268, prima del rientro dei Polo; in compenso, il suo successore Gregorio X era una conoscenza diretta dei Polo, che lo avevano incontrato ad Acri in veste di legato papale, venendo in seguito investiti da lui del compito di consegnare nuove, importanti missive per il Gran Khan. A Cambaluk, Marco giunse nel 1275 e dovette entrare ben presto nelle grazie dell’imperatore, se è vero che di lì a poco la dimestichezza con le lingue e l’abilità nel trattare con le persone gli valsero incarichi di crescente prestigio, come la missione nello Yunnan del 1277, che lo avrebbe portato a esplorare le contrade a ridosso del bacino dei fiumi Giallo e Azzurro. Del Catajo, così Marco Polo chiama la Cina, nonché dei suoi satelliti più o meno lontani, il viaggiatore veneziano registra minuziosamente usi e costumi, talora brutali (ripetuto è nel Milione il rimando al cannibalismo) ma il più delle volte straordinariamente civili e avanzati. Come la diffusione capillare delle stazioni di posta (janb), oppure i saggi accorgimenti del Gran Khan per prevenire le alluvioni, in tempi non sospetti di cambiamento climatico: «Ad evitare che il maltempo ingrossi certi fiumi, e questi straripino, allagando estensioni coltivate, l’Imperatore ha disposto che sulle pendici dei monti vengano sempre piantati nuovi alberi, i quali tengano compatto il terreno e frenino l’impeto delle acque». Certi amministratori della nostra cosa pubblica farebbero bene a mandarsi a memoria queste righe del Milione... Solo nel 1290 i Polo avrebbero intrapreso il viaggio di ritorno, che si sarebbe concluso cinque anni più tardi con il rientro a Venezia per la via di Costantinopoli. Risale invece al 1298 l’episodio della prigionia di Marco: catturato dai genovesi sull’isola di Curzola, in Dalmazia, nella sfortuna ebbe la buona sorte di conoscere in carcere Rustichello da Pisa, prigioniero della Superba fin dalla battaglia della Meloria, combattuta tra i genovesi e i pisani nel 1284. Autore di romanzi dal sapore arturiano in lingua d’oïl, Rustichello avrebbe messo in bella forma le memorie dettategli da Marco Polo, dando vita a Le devisement du monde / Le livre des merveilles, titoli con cui venne inizialmente conosciuto Il Milione, così chiamato non tanto per la quantità di vicende esotiche in esso contenute, quanto per il fatto che «Emilione» era il soprannome con cui era nota la famiglia dei Polo. Otto gennaio 2024. Sono passati 700 anni dalla morte di Marco Polo, eppure non molto è cambiato da allora. Esiste ancora una Via della Seta: accanto agli itinerari turistici che si fregiano di quell’antico nome (che poi così antico non è: «Seidenstrasse» fu coniato nell’Ottocento dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen, zio di Manfred, il Barone rosso), si sviluppa più concretamente quella Belt and road initiative/Bri che traduce la formula cinese yi dai yi lu, «una cintura (terrestre) e una strada (marittima)». Un progetto fortemente voluto da Xi Jinping dal 2013, allorché lo annunciò in toni solenni da Astana, capitale del Kazakistan, e che oggi prosegue nonostante le strettoie di ordine economico e geopolitico. A suon di miliardi: finora mille, erogati dalla Asian infrastructure investment bank a guida cinese per consentire lo sviluppo di questa nuova rete globale che conta almeno sei fra corridoi marittimi e terrestri, con 154 Paesi aderenti. Sebbene Marco Polo non ci sia più, il suo spirito rivive oggi nei tanti imprenditori italiani che con il loro saper-fare hanno conquistato nel corso degli anni la fiducia di innumerevoli partner internazionali e, fra essi, cinesi, rendendo l’export il motore dell’economia tricolore. Come Stefano Ricci, di ritorno recentemente dalla Mongolia, dove contribuisce alla salvaguardia delle aquile dei monti Altai mediante un accordo con la Kazakh falconry association. Non era imprenditore, ma missionario il suo omonimo Matteo Ricci, che nel 1582 sbarcò a Macao per avviarvi la sua importante opera di evangelizzazione della Cina, durata quasi trent’anni. Una Cina, beninteso, dove il cristianesimo attecchiva già ai tempi di Marco Polo, quand’anche nelle sue varianti nestoriane o comunque orientali: «(I cristiani di Fugiu/Fokien) avevano in un loro tempietto nascosto tre immagini dipinte, raffiguranti tre dei 70 apostoli che andarono pel mondo a predicare la legge di Cristo», racconta così Rustichello nella traduzione dal francese di Marino Longhi; «già da 700 anni si conservava qui, presso questa gente, la religione cristiana, tramandata da questi apostoli ai loro antenati; essi non sapevano di essere cristiani, poiché l’unico insegnamento che seguivano era quello di far festa, in giorni determinati, ai tre apostoli, e di leggere loro come preghiera versetti dei salmi». Più discontinue rispetto alla Chiesa e al mondo imprenditoriale le mosse nei confronti della Repubblica Popolare, fatte dalla politica italiana dell’ultimo cinquantennio. Rinaldo Ossola, ministro del Commercio estero dal 1976 al 1979, portò l’Italia a essere il primo Paese del mondo occidentale a dare un importante sostegno economico alla Cina, sotto forma di 1,5 miliardi di euro odierni da spendere ogniqualvolta Pechino avesse avuto bisogno di prodotti e tecnologia italiani. Nel 2019, poi, Giuseppe Conte ha firmato il Memorandum d’intesa sulla Bri, forse l’unico provvedimento di quel governo approntato con un po’ di visione. Memorandum che invece l’attuale esecutivo ha congelato sulla scia di valutazioni di allineamento internazionale. Con buona pace di quelli che già vedevano nel rinnovato porto di Trieste il terminal dell’autostrada del mare tra Oriente e Occidente. E di Messer Polo, cui toccherà di aspettare ancora un po’ prima di tornare a vedere il suo Adriatico approdo finale delle carovane intercontinentali.
- Breve storia dell'identificazione personale, dalle tavolette assire al lasciapassare di Marco Polo. Fino all'odierno chip.
- Il «calco» del dito è un obbligo all'anagrafe, ma non è affatto esente dai falsi positivi. Con buona pace dell'Fbi (e di Mark Twain).
Lo speciale contiene due articoli.
Nel 2026 tutti gli italiani avranno in tasca una carta d'identità elettronica. Almeno questa è la previsione dell'Istituto poligrafico e Zecca dello Stato. A oggi è stata richiesta da quasi 16 milioni di cittadini. Il boom è stato raggiunto a inizio giugno, quando il governo ha dato il via libera per richiedere i bonus anti crisi. Oggi sono 7 milioni i cittadini che, oltre alla Cie - questo l'acronimo del nuovo documento -, possiedono anche un'identità digitale. In pratica tutte le informazioni sulla nostra persona vengono racchiuse in un microchip prima e in uno smartphone poi. Ormai tra Cie e passaporti biometrici è possibile prendere un aereo senza mostrare i documenti. Se lo vogliamo - almeno per ora registrarsi è ancora una scelta - lo scanner facciale ci riconosce al nostro passaggio. La Cie, oltre all'identificazione fisica e online, offre anche una serie di servizi come, ad esempio, l'accesso ai siti della pubblica amministrazione, può sostituirsi ai biglietti per mezzi pubblici, stadi e musei, al badge nei luoghi di lavoro, o essere usata come token per una transazione bancaria online. E presto verrà integrata anche con un'app per la firma digitale. Per ottenere una carta d'identità elettronica basta rilasciare le impronte digitali, sottoporsi al riconoscimento facciale, pagare 16,70 euro e in molti casi aspettare pazientemente qualche mese perché i Comuni faticano a smaltire le richieste.
Il primo a citare una carta d'identità in un'opera letteraria fu lo scrittore napoletano Vittorio Imbriani a metà dell'Ottocento, ma bisognerà aspettare il pieno Novecento perché questo documento di riconoscimento sia a tutti gli effetti valido.
In Italia, la carta d'identità cartacea fu introdotta nel 1931 con il regio decreto del 18 giugno. Aveva la foto e durava tre anni. All'epoca, tra le generalità, non c'erano i «segni particolari» bensì i «connotati e contrassegni salienti». Dato che le foto erano in bianco e nero, bisognava definire il proprio colorito «sano» o «naturale». Tra le altre cose si descrivevano anche nasi e menti «regolari» o «pronunciati», corporature «minute», «medie», o addirittura «possenti». Questo tesserino divenne pian piano uno status symbol, con le casalinghe degli anni Quaranta che, alla voce professione, diventavano «attendenti alla casa», e il giovane sottoproletariato degli anni Settanta che, come ricordava Pier Paolo Pasolini, alla qualifica del proprio mestiere preferiva un più nobile «studente».
Finalmente, dopo millenni di studi, la carta d'identità s'era affermata. La prima al mondo nacque su delle tavolette di terracotta. Ad inventarsela fu il governo assiro che distribuì a ogni cittadino queste placche su cui veniva inciso il nome del possessore, il luogo di nascita, la professione e se si trattava di un uomo libero o di uno schiavo. Anche Marco Polo navigò per i mari del mondo con questo prezioso documento: due tavolette d'oro, concesse dal condottiero mongolo Kublai Khan, sulle quali era incisa un'iscrizione che garantiva la sicurezza del navigatore veneziano durante i suoi spostamenti.
Nel Medioevo erano gli abiti a determinare il rango, lo statuto e la dignità della persona. Anche i banditi venivano acciuffati per le loro vesti. Ricorda Valentin Groebner in Storia dell'identità personale che nella città ungherese di Eger, nel 1392, il fuorilegge «Claus Spiler era riconoscibile dalla sua «giacca nera» e dai suoi capelli neri; portava inoltre un berretto e dei calzoni azzurri». O ancora che «nel 1426 il consiglio della città sassone di Rochlitz inviò a Lipsia la confessione di un presunto incendiario» che descrive i suoi complici fuggiaschi: «Il primo portava un mantello grigio rammendato, foderato con un tessuto azzurro intorno al collo, e sotto una giacca di fustagno nera e un cappello a bombetta grigio». Gli abiti servivano anche a riconoscere politici e a identificare i testimoni durante un processo.
Il primo passaporto fu introdotto da Enrico V nel XV secolo. Il re inglese concesse ai suoi sudditi un foglio identificativo che permettesse di dimostrare la propria identità fuori dal Paese. Lo stesso Paese che seicento anni dopo, con Winston Churchill al governo, fu costretto ad abolire la carta obbligatoria perché la richiesta dei documenti da parte degli agenti «minava la fiducia del popolo nelle forze di polizia».
Sui passaporti britannici di un tempo non c'erano né la fotografia né la descrizione fisica. Questi due elementi vennero inseriti nel 1914 dopo che Hans Lody, una spia tedesca, era entrato in Gran Bretagna usando un falso passaporto americano. Le regole sulle fotografie erano molto vaghe. Nel suo The passport: The history of man's most travelled document, Martin Lloyd spiega che alle persone era richiesto solo di mandare un'immagine, «così succedeva che i britannici si ritrovavano sul passaporto il ritratto dell'intera famiglia», probabilmente l'unica foto che possedevano.
I passaporti hanno diversi colori. Quello della Ue è burgundy. Secondo Hrant Boghossian, vicepresidente di Arton group, che ogni anno pubblica il Passport index, questa tonalità di rosso bordeaux «è dovuta a un passato comunista dell'Europa». I passaporti di Marocco, Pakistan e Arabia Saudita sono verdi per via dell'importanza di questo colore nella religione musulmana. Il blu è il colore dell'America e il nero quello dei passaporti diplomatici. Solo il passaporto scandinavo ha tre colori: bianco, turchese o rosso. Nascosta tra le pagine poi si può vedere anche l'aurora boreale. Per farla apparire però bisogna mettere il documento sotto i raggi ultravioletti. Originale anche il passaporto finlandese. Dal 2012 su ogni pagina sono disegnate delle renne in posizioni leggermente diverse e, sfogliandolo velocemente, gli animali sembrano muoversi come in un cartone animato.
Il mito sempre più traballante delle impronte digitali
Fino ai primi anni Duemila, il rilascio della carta d'identità prevedeva solo in via facoltativa l'apposizione delle impronte digitali, che ormai è obbligatoria dai dodici anni in su. Come scriveva Mark Twain, «ogni essere umano porta con sé, dalla culla alla tomba, certe caratteristiche fisiche che non cambiano mai, attraverso le quali può essere sempre identificato, senza ombra di dubbio». E l'unicità delle impronte digitali, che in Occidente fu dimostrata per la prima volta nel XIX secolo dall'anatomista ceco Jan Purkyne, è in grado di distinguere anche due gemelli omozigoti.
Alla fine dell'Ottocento il medico scozzese Henry Faulds tentò di rendere irriconoscibili le proprie impronte digitali sfregandosi le dita con rasoi, pietra pomice, carta vetrata, polvere di vetro, acidi corrosivi. Ma queste, ogni volta, ricomparivano identiche. Quegli esperimenti sollecitarono la fantasia del criminologo francese Alphonse Bertillon e lo portarono a ideare un sistema di riconoscimento biometrico basato su 14 misurazioni alle impronte digitali per incastrare i criminali più recidivi. Tuttavia fu proprio il suddetto Henry Faulds, trasferitosi in Giappone, il primo a individuare il colpevole di un omicidio grazie alle impronte rinvenute sulla scena del delitto. Era il 1880. Entusiasta, decise di condividere la sua scoperta con Charles Darwin e gli mandò una lettera. Lettera che però Darwin, ormai troppo vecchio e malato, girò al cugino Sir Francis Galton, brillante antropologo. Solo dopo otto anni di rilevazioni e calcoli statistici nacque la nuova scienza in Inghilterra.
Nel 1905, i fratelli Stratton, accusati di aver ammazzato i coniugi Farrow, titolari di un colorificio, vennero identificati proprio per aver lasciato le loro impronte digitali e furono condannati a morte. Durante il processo l'ispettore Charles Collins testimoniò: «Il massimo che abbiamo mai riscontrato in impronte differenti è di tre caratteristiche uguali. In altre parole, tutte le impronte con quattro o più punti di contatto devono per forza provenire dallo stesso dito».
Col passare degli anni, a fare delle impronte digitali un vanto è stata l'Fbi, che nel suo Integrated automatic fingerprint identification system, sistema installato nel 1999, ha archiviato più di 65 milioni di impronte per un costo di 164 milioni di dollari. Negli ultimi anni, però, diversi studi hanno sostenuto che la percentuale di falsi positivi - impronte che risultano coincidere anche se in realtà non sono uguali - può arrivare anche allo 0,1%. Spiegava qualche anno fa a Repubblica Mike Silverman, l'esperto che introdusse il primo sistema di rilevamento delle impronte digitali automatizzato per la polizia metropolitana inglese, che non è possibile «dimostrare che non esistono due impronte digitali esattamente uguali. Potrebbe trattarsi di un caso raro, come vincere alla lotteria. È un evento improbabile», eppure a suo dire «accade ogni settimana».
Il testamento di Marco Polo e il processo ai Templari rivivono nelle «copie perfette» di Scrinium
- La Cosmografia di Claudio Tolomeo ma anche gli archivi vaticani e la richiesta di annullamento del matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d'Aragona: sono questi solo alcuni dei progetti di questa realtà tutta italiana che riproduce alla perfezione i documenti del nostro passato.
- Il testamento di Marco Polo, unico documento che narra le sue vicende, è stato appena analizzato e reso disponibile in molteplici copie.
- Gli atti del processo dei Templari sono stati riprodotti in 799 copie e riportano le testimonianze di 72 personaggi oltre al perdono concesso al capo del Tempio Jaques de Molay.
- Novantadue delle 100 cantiche raccontate da Dante e illustrate da Sandro Botticelli sono finalmente a disposizione degli amanti di una delle opere più simboliche della storia italiana.
- Grazie a una collaborazione con il Sacro Convento e l'Arcidiocesi di Spoleto sono stati portati nuovamente alla luce tre documenti recanti la firma di San Francesco d'Assisi.
- L'atto che diede inizio allo scisma dell'Inghilterra dalla Chiesa di Roma è solo una delle testimonianze «clonate» da Scrinium per l'Archivio del Vaticano.
Lo speciale contiene 6 articoli e gallery fotografiche.
La missione di Scrinium è forse una delle più ambiziose. L'azienda ha infatti come obiettivo quello di «restituire la voce ai grandi protagonisti della storia», restituendo leggibilità ad alcuni dei documenti che hanno segnato il nostro passato. Attraverso l'impiego delle ultime tecnologie nel campo del rilievo documentario e della registrazione ad altissima risoluzione delle immagini, Scrinium è in grado di realizzare veri e propri cloni - di assoluto rigore scientifico - permettendo così la conservazione e la tutele di alcune opere letterarie, e di conseguenza, dando loro nuova vita e possibilità di diffusione.
Negli anni, sono molti i documenti su cui Scrinium ha lavorato, dal Romanzo della Rosa nel 2006, alla Divina Commedia illustrata da Botticelli, passando alla Cosmografia di Claudio Tolomeo per arrivare al loro ultimo progetto: il testamento di Marco Polo. Ogni progetto di Scrinium segue una serie di importanti step, primo tra tutti quell'indagine sulle fonti. Un'equipe multidisciplinare si occupa in una prima fase di analizzare ogni dettaglio perché «i segreti sono spesso nascosti tra le scritture evanescenti o tra le pieghe delle fragili pergamene» e solo così si può ricostruire con la massima attendibilità la verità nascosta nel manoscritto. L'analisi non avviene però solo sul documento da clonare, ma su altri materiali e codici antichi, resi eccezionalmente disponibili dalle Istituzioni conservatrici. Solo dopo un lungo periodo di studio si passa così alla clonazione vera e propria. Durante la creazione della copia del reperto i confronti e i controlli qualità si ripetono a cadenza ravvicinata per garantire l'accuratezza della replica. Infine, si passa alla fase di manifattura dei volumi - completamente fatta a mano - che include la piegature e cucitura delle segnature, l'applicazione dell'oro e dei pigmenti nelle decorazione, la costruzione dei nervi e dei capitelli e così via. Ogni esemplare acquistato risulta così essere un autentico gioiello, arricchito da saggi inediti e ricerche sull'argomento in analisi.
Scrinium, realtà nata e operante in Italia, dagli inizi collabora con alcune delle più grandi istituzioni a livello mondiale: la Biblioteca del Senato a Parigi, l'Università di Sydney, l'Università di MaltaOxford e la Library of Congress di Washington. Di particolare rilevanza la collaborazione che questo gruppo porta avanti da anni con il Vaticano. Per i Musei Vaticani, Scrinium ha infatti dato vita al progetto «Exemplaria Perfetta», ricreando alcuni dei capolavori più famosi al mondo, attraverso la perfetta ricostruzione tridimensionale dei tratti cromatici, tecnica innovativa utilizzata per la prima volta al mondo in questo progetto. Di maggiore importanza però, il progetto iniziato nel 2000 grazie a una sinergia con l'Archivio Pontificio per salvaguardare e rendere disponibili i documenti racchiusi negli 85 chilometri di scaffali custoditi nell'Archivio Segreto Vaticano. Tra i documenti clonati in questo unico progetto, la richiesta di annullamento del matrimonio di Enrico VIII con Caterina d'Aragona e le pergamene degli atti integrali del Processo ai Cavalieri Templari datato 1308.
Il testamento di Marco Polo
Il progetto per la clonazione del testamento di Marco Polo nasce attraverso una collaborazione con la Biblioteca nazionale Marciana, una delle più grandi in Italia. Tra le opere ospitate nella struttura veneziana (622.804 volumi a stampa, 2.887 incunaboli, 13.113 manoscritti e 24.069 cinquecentine) c'è anche un manoscritto datato 1323 che raccoglie il testamento di Marco Polo.
Dichiarato autentico dopo lunghe e approfondite indagini paleografiche ed interventi di restauro, il manoscritto - su pergamena di pecora - è a oggi l'ultima testimonianza superstite delle avventure di Marco Polo. Il progetto di Scrinium parte nel 2016 con lo scopo di creare una copia che corrisponda perfettamente all'originale e che possa essere consultata o data in prestito in giro per il mondo. Prende così via, presso il Laboratorio di Conservazione e di Restauro della Biblioteca veneziana, un nuovo intenso programma di indagini bio-chimico-fisiche sulla pergamena mentre parallelamente il Prof. Attilio Bartoli Langeli, esperto paleografo di fama internazionale, realizza la prima edizione diplomatica corretta e completa del testo del documento, che oggi finalmente emenda tutte le precedenti trascrizioni e traduzioni, lacunose e gravemente imprecise. Un team di studiosi e ricercatori di fama internazionale, selezionati e coordinati dalla curatrice d.ssa Tiziana Plebani, ha poi prodotto i saggi inediti contenuti nel prezioso ed elegante volume, in edizione bilingue italiano/inglese, che accompagna il facsimile dell'antica pergamena. Mentre, per offrire una prospettiva cinese sul tema, l'Istituto Confucio di Venezia ha fornito una preziosa consulenza specialistica che ha portato alla pubblicazione e alla traduzione dal cinese dell'eccellente contributo del Prof. Zhang Xiping. Il documento, prodotto in 185 copie acquistabili, verrà prima esposto al Museo di Arte Orientale di Torino per la Mostra «Dall'Antica alla Nuova Via della Seta».
Processo ai Templari
Appartengono all'edizione speciale bilingue (italiano/inglese) dell'Archivio Segreto Vaticano, gli unici quattro documenti superstiti contenenti le confessioni dei 72 Templari interrogati da Clemente V dal 28 giugno al 2 luglio 1308 e l'atto originale di assoluzione concessa dai cardinali al gran maestro del Tempio Jaques de Molay. Grazie alla collaborazione avviata con Scrinium all'inizio degli anni Duemila, questi documenti sono stati riprodotti in 799 esemplari - presentati ufficialmente nel 2007 - contenenti non solo le riproduzioni fedeli degli originali pergamenacei, ma anche un'esclusiva edizione critica degli atti dell'inchiesta.
Il rinnovato esame delle pergamene originali da parte di Scrinium, eseguito con l'ausilio della lampada di Wood, utile al recupero di parti di testo inattingibili ai precedenti editori, ha consentito ai curatori di emendare le precedenti edizioni, restituendo in tal modo, una più precisa e genuina lettura dei documenti. La collazione delle fonti superstiti ha permesso altresì di recuperare porzioni di testo di dubbia interpretazione e uniformare nomi di persone e luoghi.
La Commedia illustrata da Botticelli
Con una tiratura mondiale di 500 esemplari, le 100 pergamene con i disegni danteschi eseguiti da Botticelli alla fine del Quattrocento trovano nuova vita. Commissionate da Lorenzo de' Medici - amico e mecenate del pittore - l'opera, realizzata tra il 1480 e il 1495, è conservata nel nuovo Kupferstichkabinett del Kulturforum e nella Biblioteca Apostolica Vaticana. In totale possediamo 92 delle 100 cantiche della Commedia perché otto tavole dell'Inferno sono considerate disperse (II-VII, XI, XIV), mentre quelle relative ai due canti del Paradiso (XXXI e XXXIII) si ipotizza che non siano mai state eseguite. Comprese nel corpus delle 92 tavole ci sono «La voragine infernale» e «Inferno I» disegnate rispettivamente sul recto e sul verso di uno stesso foglio, e «Il grande Satana» che occupa un foglio doppio.
La firma di San Francesco d'Assisi
L'antico Convento del Santo di Assisi custodisce da secoli, all'interno della storica Biblioteca, le testimonianze più preziose e rare della scrittura francescana, capolavori di squisita sensibilità letteraria e altissima spiritualità. A Scrinium è stato dato il compito di realizzare un clone perfetto della Solet Annuere, della lettera bollata con la quale papa Onorio III nel 1223 conferma la Regola dei Frati minori, e della riproduzione accurata degli unici due autografi superstiti di san Francesco, reliquie veneratissime esposte nella Basilica Inferiore di Assisi e nel Duomo di Spoleto.
L'intero corpus degli scritti francescani è stato presentato nel 2017. Da questi documenti, il santo emerge nella sua misura più reale, un io umile, tanto da sfumare nel noi dell'umanità intera. Dai testi autografi risalta particolarmente la disponibilità all'ascolto, al rispetto degli altri e la sua benevolenza, dicendo: «Così dico a te figlio mio, come una madre…»
Supplica di Enrico VIII al Pontefice
Esistono solo 236 copie dell'atto che può considerarsi a tutti gli effetti il documento che diede inizio alla scissione della chiesa anglicana. Parte dell'Archivio Segreto Vaticano è la lettera inoltrata a Clemente VII dai Lords d'Inghilterra, il 13 luglio 1530, per chiedere al pontefici di riconoscere la nullità del matroneo di Enrico VIII con Caterina d'Aragona. Il documento elenca tutte le ragioni canoniche, a lungo discusse in Inghilterra e tra gli incaricati di Roma in merito all'unione del sovrano con la vedova del fratello.
L'atto, che fa da sfondo alla «Grande Questione» di Enrico VIII, è stato presentato nel giugno 2009 alle massime Autorità Vaticane e ai membri del corpo diplomatico presso la Santa Sede.




















