Otto gennaio 1324. A Venezia muore Messer Marco Polo. È il suo ultimo viaggio, a coronamento di una serie straordinaria di peregrinazioni ai confini del mondo allora conosciuto, sebbene da un quarto di secolo ormai si fosse dedicato alla vita stanziale, consolidando il patrimonio della sua famiglia e accasando a buoni, anzi ottimi, partiti le tre figlie Fantina, Bellela e Moreta. Lui stesso d’altronde aveva sposato nel 1300 la nobildonna Donata Badoer; a quel tempo aveva 45 anni, di cui quasi 30 trascorsi lontano da Venezia. Era stato infatti nel 1271 che Niccolò e Matteo Polo, rispettivamente padre e zio del nostro, avevano deciso di portare con loro il diciassettenne Marco in un viaggio che a lunghe tappe, attraverso Acri, Samarcanda, Caschar (oggi Kashi, nel Turkestan cinese) e mille altri luoghi soffusi di leggenda lungo la Via della seta, li avrebbe avvicinati sempre più a Cambaluk, l’odierna Pechino, in quella che non era solo una spedizione di mercatura ma anche una missione diplomatica. Qui li attendeva infatti Kublai, nipote di Gengis Khan e imperatore dei Mongoli-Tartari, che in un viaggio precedente dei fratelli Polo aveva loro affidato una lettera per papa Clemente IV. Per inciso, quella lettera Clemente non l’avrebbe mai letta, essendo morto nel 1268, prima del rientro dei Polo; in compenso, il suo successore Gregorio X era una conoscenza diretta dei Polo, che lo avevano incontrato ad Acri in veste di legato papale, venendo in seguito investiti da lui del compito di consegnare nuove, importanti missive per il Gran Khan. A Cambaluk, Marco giunse nel 1275 e dovette entrare ben presto nelle grazie dell’imperatore, se è vero che di lì a poco la dimestichezza con le lingue e l’abilità nel trattare con le persone gli valsero incarichi di crescente prestigio, come la missione nello Yunnan del 1277, che lo avrebbe portato a esplorare le contrade a ridosso del bacino dei fiumi Giallo e Azzurro. Del Catajo, così Marco Polo chiama la Cina, nonché dei suoi satelliti più o meno lontani, il viaggiatore veneziano registra minuziosamente usi e costumi, talora brutali (ripetuto è nel Milione il rimando al cannibalismo) ma il più delle volte straordinariamente civili e avanzati. Come la diffusione capillare delle stazioni di posta (janb), oppure i saggi accorgimenti del Gran Khan per prevenire le alluvioni, in tempi non sospetti di cambiamento climatico: «Ad evitare che il maltempo ingrossi certi fiumi, e questi straripino, allagando estensioni coltivate, l’Imperatore ha disposto che sulle pendici dei monti vengano sempre piantati nuovi alberi, i quali tengano compatto il terreno e frenino l’impeto delle acque». Certi amministratori della nostra cosa pubblica farebbero bene a mandarsi a memoria queste righe del Milione... Solo nel 1290 i Polo avrebbero intrapreso il viaggio di ritorno, che si sarebbe concluso cinque anni più tardi con il rientro a Venezia per la via di Costantinopoli. Risale invece al 1298 l’episodio della prigionia di Marco: catturato dai genovesi sull’isola di Curzola, in Dalmazia, nella sfortuna ebbe la buona sorte di conoscere in carcere Rustichello da Pisa, prigioniero della Superba fin dalla battaglia della Meloria, combattuta tra i genovesi e i pisani nel 1284. Autore di romanzi dal sapore arturiano in lingua d’oïl, Rustichello avrebbe messo in bella forma le memorie dettategli da Marco Polo, dando vita a Le devisement du monde / Le livre des merveilles, titoli con cui venne inizialmente conosciuto Il Milione, così chiamato non tanto per la quantità di vicende esotiche in esso contenute, quanto per il fatto che «Emilione» era il soprannome con cui era nota la famiglia dei Polo. Otto gennaio 2024. Sono passati 700 anni dalla morte di Marco Polo, eppure non molto è cambiato da allora. Esiste ancora una Via della Seta: accanto agli itinerari turistici che si fregiano di quell’antico nome (che poi così antico non è: «Seidenstrasse» fu coniato nell’Ottocento dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen, zio di Manfred, il Barone rosso), si sviluppa più concretamente quella Belt and road initiative/Bri che traduce la formula cinese yi dai yi lu, «una cintura (terrestre) e una strada (marittima)». Un progetto fortemente voluto da Xi Jinping dal 2013, allorché lo annunciò in toni solenni da Astana, capitale del Kazakistan, e che oggi prosegue nonostante le strettoie di ordine economico e geopolitico. A suon di miliardi: finora mille, erogati dalla Asian infrastructure investment bank a guida cinese per consentire lo sviluppo di questa nuova rete globale che conta almeno sei fra corridoi marittimi e terrestri, con 154 Paesi aderenti. Sebbene Marco Polo non ci sia più, il suo spirito rivive oggi nei tanti imprenditori italiani che con il loro saper-fare hanno conquistato nel corso degli anni la fiducia di innumerevoli partner internazionali e, fra essi, cinesi, rendendo l’export il motore dell’economia tricolore. Come Stefano Ricci, di ritorno recentemente dalla Mongolia, dove contribuisce alla salvaguardia delle aquile dei monti Altai mediante un accordo con la Kazakh falconry association. Non era imprenditore, ma missionario il suo omonimo Matteo Ricci, che nel 1582 sbarcò a Macao per avviarvi la sua importante opera di evangelizzazione della Cina, durata quasi trent’anni. Una Cina, beninteso, dove il cristianesimo attecchiva già ai tempi di Marco Polo, quand’anche nelle sue varianti nestoriane o comunque orientali: «(I cristiani di Fugiu/Fokien) avevano in un loro tempietto nascosto tre immagini dipinte, raffiguranti tre dei 70 apostoli che andarono pel mondo a predicare la legge di Cristo», racconta così Rustichello nella traduzione dal francese di Marino Longhi; «già da 700 anni si conservava qui, presso questa gente, la religione cristiana, tramandata da questi apostoli ai loro antenati; essi non sapevano di essere cristiani, poiché l’unico insegnamento che seguivano era quello di far festa, in giorni determinati, ai tre apostoli, e di leggere loro come preghiera versetti dei salmi». Più discontinue rispetto alla Chiesa e al mondo imprenditoriale le mosse nei confronti della Repubblica Popolare, fatte dalla politica italiana dell’ultimo cinquantennio. Rinaldo Ossola, ministro del Commercio estero dal 1976 al 1979, portò l’Italia a essere il primo Paese del mondo occidentale a dare un importante sostegno economico alla Cina, sotto forma di 1,5 miliardi di euro odierni da spendere ogniqualvolta Pechino avesse avuto bisogno di prodotti e tecnologia italiani. Nel 2019, poi, Giuseppe Conte ha firmato il Memorandum d’intesa sulla Bri, forse l’unico provvedimento di quel governo approntato con un po’ di visione. Memorandum che invece l’attuale esecutivo ha congelato sulla scia di valutazioni di allineamento internazionale. Con buona pace di quelli che già vedevano nel rinnovato porto di Trieste il terminal dell’autostrada del mare tra Oriente e Occidente. E di Messer Polo, cui toccherà di aspettare ancora un po’ prima di tornare a vedere il suo Adriatico approdo finale delle carovane intercontinentali.
Nella scelta di un'università non c'è solo il «cosa», ossia la facoltà alla quale iscriversi, ma c'è anche il «dove». Per i neodiplomati italiani la decisione è quasi obbligata: è sulla Lombardia, in particolare su Milano che bisogna scommettere. L'autorevole graduatoria Qs, che ogni anno valuta le performance delle prime 1.000 università del pianeta, colloca il capoluogo lombardo al 36° posto nella classifica delle migliori città per gli studenti, assegnandogli il primato italiano. Non a caso ogni anno a Milano gli immatricolati sono non meno di 150.000. Come gli abitanti di una città di medie dimensioni.
Anche i dati sui fuorisede la dicono lunga: gli studenti provenienti dalle altre regioni e dall'estero sono in aumento in tutti gli atenei milanesi. Alla Bocconi, per esempio, i primi sono il 55,5% degli iscritti (14.272), che sommati agli stranieri (15,4%) mettono decisamente in minoranza gli studenti lombardi (29,1%). Per quanto concerne le altre città, se sorprende poco che a Pavia, una delle università più antiche del mondo (fu fondata nel 1361), uno studente su tre non sia lombardo, la circostanza risulta meno ovvia nel caso dell'università di Bergamo, che di anni ne ha solo 50 (ma anche l'84,5% di occupabilità a un anno dal conseguimento del titolo di studio...). Ma quali sono le ragioni di questo successo? Partiamo da Milano. Ebbene, più di ogni altra città ha saputo svecchiare il concetto di università da torre d'avorio esclusivamente dedita alla ricerca pura a realtà strettamente interconnessa con il tessuto urbano e sociale circostante, con beneficio di entrambe. E dei neolaureati, che quando si affacciano sul mondo del lavoro si ritrovano in una realtà con cui hanno già avuto modo di confrontarsi. «Si tratta di un grande lavoro di infrastrutturazione», racconta ad Arbiter Marco Tursini, a capo dell'azienda immobiliare Investbiz che tanta parte ha avuto nella realizzazione di Bovisatech, polo scientifico del Politecnico di Milano, «l'incubatore di startup Polihub, recentemente trasferitosi negli spazi di Bovisatech, ha attratto 700 giovani nell'orbita di un “ecosistema" in grado di gemmare nuove aziende. In termini di creazione di nuovi posti di lavoro, è l'equivalente di una piccola manovra economica. Il tutto con il tutoring del Politecnico, che da un anno a questa parte ha istituito un fondo d'investimento per aiutare il decollo delle start up». Inutile sottolineare quale formidabile motore economico tutto ciò rappresenti anche per il Comune di Milano e per il quartiere, con il sorgere di negozi, locali e servizi e il relativo aumento dell'indotto, degli affitti e del valore degli immobili. Complice il fatto che non di rado le nuove strutture sono capolavori di urbanistica, firmati da archistar del calibro di Alessandro Mendini (è il caso di Bovisatech) o dei giapponesi Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, come avviene nel nuovo campus Bocconi. L'esperienza del Politecnico Bovisa tende a ricalcare il modello delle «cittadelle scientifiche» diffuse all'estero: «Si è guardato sia al Mit statunitense sia soprattutto all'High tech campus di Eindhoven, nei Paesi Bassi, dove si raggiunge il massimo livello di interscambio tra l'università e le aziende», precisa Tursini. Dall'Olanda viene pure il concept degli Its, scuole di alta tecnologia strettamente legate al sistema produttivo, che anche in Italia stanno prendendo piede; in Lombardia ne sono già attivi 20.
Anche dal punto di vista dell'aggiornamento dei piani di studio alle esigenze del giorno d'oggi, gli atenei lombardi dimostrano di avere le idee molto chiare: «Bisogna partire dalla constatazione che il 65% degli studenti oggi iscritti a una scuola superiore eserciterà al termine del suo percorso un lavoro che ancora non esiste», spiega ad Arbiter Remo Morzenti Pellegrini, rettore dell'università di Bergamo nonché presidente del comitato dei rettori della Lombardia, «per converso, dei dieci lavori che fino a poco tempo fa venivano descritti come le professioni del futuro, sette già non esistono più: è un dato di fatto che gli algoritmi, per esempio, hanno già preso il posto di buona parte degli operatori di Borsa e dei gestori di patrimoni finanziari ed è per questo che i lavori futuri, e quindi la programmazione dell'offerta formativa delle università, richiedono di integrare creatività e un sofisticato intreccio di competenze tecniche e relazionali. A fronte dell'obsolescenza professionale, il compito primario degli atenei oggi non deve essere quello di insegnare un mestiere, bensì di dotare gli studenti di un metodo (che non invecchia mai), munendoli nel contempo di competenze nuove, diverse e, soprattutto, interdisciplinari». Proprio quell'interdisciplinarità e attitudine al pensare interconnesso che i giovani di oggi, vittime dell'atomizzazione del sapere, fanno tanta fatica a sviluppare. Pertanto, non pago di un sistema lombardo della formazione universitaria che primeggia in Italia per offerta di discipline (con le 44 facoltà milanesi a fare da traino), Morzenti Pellegrini è riuscito a far approvare al Miur (il ministero per l'Università e la ricerca) nuovi percorsi in aggiunta a quelli già esistenti. Numerose le attività in attivazione a partire da ottobre: per esempio, il corso di laurea interdipartimentale in geourbanistica dell'ateneo bergamasco, primo nel suo genere in Italia: formerà professionisti capaci di applicare gli studi di geografia e le competenze sulla pianificazione urbanistica ai fenomeni che caratterizzano la nostra epoca, dal cambiamento climatico all'importanza della rivoluzione digitale nelle pratiche di governance. È un approccio, questo, affine a quanto avviene nelle università dei Paesi di lingua tedesca, dove è consentita una gamma assai ampia di combinazioni tra le discipline (laureandosi comunque nella materia principale).
Al via anche tre nuovi curricula magistrali: il dipartimento di lettere, filosofia e comunicazione amplia la sua offerta con l'indirizzo «Informazione e giornalismo», il dipartimento di scienze umane e sociali si arricchisce di «Psicologia della salute nei contesti sociali» mentre quello di ingegneria avvia il percorso in inglese «Ste - Smart technology engineering».
Un ulteriore aspetto da sottolineare è che «questi nuovi percorsi vengono sviluppati anche per rispondere alle esigenze che si manifestano sul territorio, per comprendere le quali non ci sottraiamo al dibattito con le parti sociali». La via lombarda all'eccellenza della formazione passa anche per la tradizionale apertura al mondo di questa regione, che si traduce per esempio nell'attivazione in questi anni da parte dell'ateneo orobico dell'International medical school (Ims), corso di laurea in medicina e chirurgia erogato in lingua inglese e realizzato in collaborazione con l'università di Milano Bicocca in veste di sede amministrativa, l'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e l'università del Surrey. È superfluo ricordare in proposito quanto il potenziamento degli aeroporti e la crescita delle compagnie low cost abbiano letteralmente messo le ali alla mobilità sia dei docenti sia dei discenti, il che spiega in buona parte i dati relativi ai fuorisede. Un'occasione più unica che rara, favorita da programmi Erasmus triennali, magistrali nonché tirocini d'eccellenza e iniziative varie, per accumulare esperienze che valgono oro ai fini della futura collocazione professionale. È un po' un ritorno all'antica prassi dei clerici vagantes, gli studenti che nel Medioevo percorrevano in lungo e in largo l'Europa per frequentare le lezioni di loro interesse. Con un biglietto aereo in tasca, oggi, e l'Alma mater langobardorum nel cuore. Ma, soprattutto, nella testa.




