Il leader dell’associazione Soccorso civile, e teosriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, la promotrice della proposta di legge «liberi subito» Felicetta Maltese e la ricercatrice di bioetica Chiara Lalli sembrano essere scivolati sul concetto di «trattamento di sostegno vitale», andando oltre la pur ampia interpretazione della Corte costituzionale. Il gip del Tribunale di Firenze Agnese di Girolamo, nonostante una richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura, ieri ha disposto l’imputazione coatta per i tre indagati, che si erano autodenunciati nel 2022, dopo aver accompagnato Massimiliano, un quarantaquattrenne della provincia di Livorno malato di Sla, in Svizzera per sottoporsi al suicidio assistito. La volontà di Massimiliano non era in dubbio: «Se non avessi paura del dolore», aveva detto nel corso di un appello pubblico, «avrei già provato a togliermi la vita. Vorrei essere aiutato a morire, senza soffrire». E i tre l’avrebbero accontentato. Il cuore del procedimento riguarda la legittimità del viaggio di Massimiliano, che potrebbe svelare oltre alle fragilità di una legge, anche il tentativo di chi ha cercato di eludere alcune regole che al momento restano fondamentali. Massimiliano, infatti, precisa il gip, «non era mantenuto in vita da un trattamento di sostegno vitale (ovvero il dettaglio che in questo caso, per la legge, fa la differenza, ndr)»: «Lo stretto collegamento con la natura vitale dei trattamenti di sostegno», è scritto nell’ordinanza, sarebbe la condizione necessaria, al punto che «la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo». Un perimetro che nel caso di Massimiliano non sarebbe stato preso in considerazione. Non solo: come stabilito nella sentenza 135 del 2024, la Consulta ha sottolineato la necessità di una valutazione da parte di una struttura pubblica del Sistema sanitario nazionale. E per valutare se Massimiliano rientrasse nei requisiti previsti dalla legge italiana non era sufficiente un accertamento svizzero: «Si nega l’equivalenza della verifica delle condizioni del paziente fatta in Svizzera rispetto a una verifica fatta in Italia». Il gip con questa affermazione ha chiuso la partita. E ha ordinato alla Procura di preparare l’imputazione coatta entro dieci giorni. Nel corso del procedimento aveva anche sollevato una questione di legittimità costituzione sull’articolo 580 del codice penale (istigazione o aiuto al suicidio, un reato di aiuto al suicidio è punito con una pena da 5 a 12 anni di carcere) come modificato da una precedente sentenza della Consulta (proprio per domani è prevista un’udienza davanti ai giudici costituzionali sul fine vita, per i casi di Elena, una malata oncologica terminale, e di Romano, affetto da patologia neurodegenerativa, mentre giovedì 27 la Conferenza Stato-Regioni si occuperà delle proposte regionali al Parlamento), nella parte in cui veniva subordinata la non punibilità di chi agevola il suicidio altrui a condizione che l’aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale», chiarendo con precisione l’ambito dei trattamenti di sostegno vitale. Ma la questione fu rigettata. Il pm Carmine Pirozzoli aveva tentato di salvare capra e cavoli con una richiesta di archiviazione cerchiobottista (alla quale si erano associati i difensori dei tre indagati), ritenendo che gli attivisti non avrebbero tenuto una condotta da ricollegarsi alla volontà del paziente di aiuto al suicidio. Il contributo di Cappato, secondo il magistrato, si sarebbe esaurito «nell’aver fornito informazioni sul panorama normativo relativo al fine vita in Italia, nell’averne facilitato i contatti con la clinica e infine nell’averne sostenuto i costi di noleggio di un minivan per il viaggio in Svizzera». Tutto il piano, in sostanza. Le condotte, secondo il pm, «sul piano temporale», però, «si collocano in un momento distante dall’evento morte e che non appaiono collegate all’esecuzione del suicidio». Lalli e Maltese si sarebbero fermate a «uno stadio meramente preparatorio»: «hanno guidato il mezzo che ha accompagnato Massimiliano in Svizzera ma non risulta che le due indagate abbiano partecipato alle operazioni mediche o di assistenza per predisporre il suicidio assistito». I tre, però, stando alla ricostruzione del pm, sembrano aver fornito proprio il supporto informativo, burocratico e logistico necessari. E il gip deve aver interpretato l’assenza della valutazione di una struttura sanitaria italiana come un escamotage per portare a termine l’operazione. «Affronteremo il processo per difendere il diritto ad autodeterminarsi di Massimiliano e di tutte le persone nelle sue condizioni, la cui vita è totalmente dipendente da altri», ha commentato l’avvocato Filomena Gallo segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni. «La nostra è stata disobbedienza civile», ha aggiunto Cappato: «Con Chiara Lalli e Felicetta Maltese ci eravamo autodenunciati perché eravamo, e siamo, pronti ad assumerci le nostre responsabilità, nel pieno rispetto delle decisioni della magistratura, e nella totale inerzia del Parlamento».
La sinistra che detesta l’autonomia differenziata si strugge per quella mortuaria. E la chiede a gran voce supportando la proposta di legge letteralmente «spammata» in fotocopia dal radicale Marco Cappato (portavoce dell’Associazione Luca Coscioni) in tutte le regioni italiane per ottenere l’aiuto medico alla morte volontaria. Il progetto è approdato anche in Lombardia dove in questi giorni sono previste le audizioni degli esperti bipartisan prima del voto del Consiglio regionale. Finora il disegno di legge non ha avuto particolare successo: è naufragato in Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte, anche perché l’Avvocatura dello Stato ha sottolineato «l’incompatibilità costituzionale di un intervento regionale in materia di competenza nazionale».
In attesa di decidere se votare a favore di una legge palesemente incostituzionale, i consiglieri lombardi vengono edotti delle ragioni delle due parti da personalità eminenti: ieri fra gli altri il costituzionalista Mario Esposito, i docenti Carmelo Leotta, Mario Picozzi e don Alberto Frigerio, oltre al presidente dei comitati etici lombardi Agostino Migone De Amicis. Il giorno clou sarà domani, quando accenderanno il microfono luminari del diritto come il giudice emerito della Corte costituzionale Nicolò Zanon (faceva parte della Consulta che nel 2019 decretò la non punibilità dell’aiuto al suicidio e sollecitò invano il Parlamento a legiferare), l’ex giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo Vladimiro Zagrebelsky, l’avvocato Filomena Gallo, segretario nazionale dell’associazione Coscioni. Un dibattito di contenuto, poiché Zanon ha sempre sostenuto la «non competenza regionale» mentre gli altri sostengono il contrario. Nei prossimi giorni, davanti ai consiglieri regionali, la parola passerà fra gli altri a Jacopo Coghe, vicepresidente Pro Vita e Famiglia, e a Massimo Gandolfini, leader del Family Day. Poi il voto.
Tentare il blitz nella regione del caso Dj Fabo, nella Milano dove Cappato ottenne l’Ambrogino d’oro, è suggestivo. A Palazzo Pirelli la strategia dei radicali è identica a quella messa in atto in tutte le regioni dove hanno presentato la proposta di legge: giocare sull’equivoco della tutela della salute (un paradosso per chi auspica libertà di suicidio assistito) per sollevare un conflitto di competenza e tornare davanti alla Corte costituzionale, fondando il ricorso sulla «persistente inerzia legislativa» che a suo tempo la Consulta aveva deplorato.
Nel merito la richiesta è contraddittoria, sostenuta da una parte politica che accusa di centralismo il centrodestra facendo leva su una presunta autonomia «à la carte» in campo etico, sanitario, economico. Chi boccia il federalismo in tutti i settori, tifa per quello del fine vita. Un azzardo che prefigura scenari surreali come il turismo mortuario non più in Svizzera ma nelle regioni che eventualmente dovessero votare a favore. In questo caso la supplenza regionale al silenzio del Parlamento non avrebbe senso perché la materia è di palese competenza nazionale.
Contro l’impostazione dei radicali sposata da Pd, Movimento 5 stelle e Alleanza Verdi Sinistra sono schierati fin d’ora Fratelli d’Italia, parte della Lega (quella che non intende seguire la «libertà di coscienza» invocata da Matteo Salvini), Noi Moderati e l’area cattolica di Forza Italia. Questi gruppi contestano il punto di partenza della proposta di legge, vale a dire «il diritto all’assistenza al suicidio assistito», facendo notare che la Corte costituzionale non lo ha mai affermato ma si è limitata a intervenire su parte del Codice penale.
Matteo Forte (Fdi), presidente della Commissione Affari istituzionali in Regione Lombardia, respinge in toto la richiesta dei Cappato boys: «Ma di quale autonomia parlano? Vogliono impedirci di assumere medici e infermieri in autonomia ma vogliono legiferare sui diritti fondamentali in capo allo Stato. L’autonomia differenziata si chiede sulle famose 23 materie concorrenti, fatta salva la determinazione dei princìpi fondamentali stabiliti dalle leggi statali. Quello che vuole l’opposizione si chiama indipendenza. Quanto poi ai diritti, la Consulta si è sempre pronunciata sulla non punibilità dell’aiuto al suicidio, ma non ha mai affermato il diritto del malato al suicidio: un diritto che non esiste».
Per cogliere in pieno il problema (e il bluff della sinistra) vale la pena ricordare anche la preoccupazione della Cei, esplicitata dal suo presidente cardinale Matteo Zuppi che ha mostrato «apprensione per le derive regionaliste e la mancata applicazione della normativa sulle cure palliative». Bocciando nel 2022 il referendum sulla possibilità di dare la morte assistita, l’allora presidente della Consulta Giuliano Amato disse: «Non era affatto sull’eutanasia ma sull’omicidio del consenziente». Di conseguenza improponibile.
Fuori dall’equivoco, la sentenza del 2019 e quella del 2024 avevano ribadito la necessità di una «offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore» quali pre-requisito per verificare le richieste di suicidio assistito. Due aspetti sui quali una legge regionale dovrebbe invece intervenire, anche perché in assenza di dolore la richiesta di suicidio assistito si riduce di dieci volte. In assenza di un quadro normativo nazionale, si creerebbe all’interno del mondo sanitario un conflitto fra livelli essenziali di assistenza (i Lea), che per loro natura sono di esclusiva competenza statale come ha ribadito la stessa Corte costituzionale. Autodeterminare la propria fine non significa dare una spallata a leggi e sentenze, interpretate a senso unico per favorire non la tutela della salute ma il turismo tutto italiano della buona morte.
in grado di assicurare il suicidio assistito senza passeggiate a Chiasso, come le avrebbe chiamate Alberto Arbasino. Il sistema ha funzionato perfettamente con l’ex camionista marchigiano Federico Carboni: assistenza giuridica, marketing mediatico, supporto medico dell’anestesista della buona morte Mario Riccio (lo stesso di Piergiorgio Welby), spirito modernista galoppante, macchinario per somministrare il cocktail letale arrivato grazie alla colletta degli adepti. Mancano le note di Johann Sebastian Bach, ma è un dettaglio rimediabile.
La filiera è completa e ha portato al primo caso di suicidio assistito in Italia senza l’intervento dello Stato e con tanti saluti al servizio sanitario nazionale. La filiera è completa, costruita mentre il legislatore dormiva, e per questo Marco Cappato, portavoce e guru dell’associazione titolare del record italiano, si è sentito in diritto di dire: «Ci siamo sostituiti allo Stato poiché sarebbe stato un compito della Regione Marche, del governo e del parlamento evitare che per due anni Carboni fosse sottoposto contro la sua volontà a una sofferenza insopportabile». Di conseguenza «la legge attualmente in discussione al Senato è inutile e controproducente. Il testo, così com’è, restringerebbe le possibilità di quello che oggi è già concretizzabile».
Dal suo punto di vista niente da obiettare, ha cavalcato nelle praterie dell’Oklahoma come i farmer nel Far west senza trovare opposizione, ha percorso a spanne la strada tracciata dalla Corte costituzionale (cure palliative mai sperimentate dal paziente) e oggi rivendica la forza della prassi che di fatto attribuisce all’associazione Coscioni una sorta di monopolio del suicidio assistito in Italia. Anche noi saremmo del parere che la nuova legge non serve perché, in definitiva, c’è già quella vecchia e ribadisce che l’eutanasia nel nostro Paese è reato. Il problema rimane, perché negli ultimi anni le sentenze hanno annacquato il codice penale (articolo 580) che equipara il suicidio assistito all’istigazione o all’aiuto al suicidio; già nel 2017 il Tribunale di Milano aveva stabilito che «non si può ostacolare la volontà di un malato per richiedere il suicidio assistito». Fu il caso eclatante di Dj Fabo. L’ultima picconata, sempre, nel silenzio ottuso o complice del parlamento, è arrivata dalla Consulta che, trovando la norma lacunosa e fuori dal tempo, l’ha bypassata con indicazioni di principio e sollecitando la classe politica a legiferare. Il preambolo è singolare perché nessuno ha mai dato a una toga il compito di configurare il perimetro di un tema etico, quindi politico, ma da tempo i confini giudiziari sono più elastici di un chewing-gum alla banana. Il risultato è il pasticcio di tre giorni fa, con una decisione al di fuori della legge (quella vecchia non prevede un simile fine vita, quella nuova non esiste) e con i fautori della buona morte, o morte alla buona, che chiedono a Camera e Senato di continuare a essere liberi di galoppare nella prateria della discrezionalità.
In questo contesto la deregulation è il rischio supremo, con una vittima facilmente individuabile: l’anziano fragile e malato, psicologicamente condizionabile, facile preda del business dell’estinzione alla moda. Il nonnino vittima dei parenti a caccia di eredità e nessuna voglia di pagare la retta della Rsa o l’assistenza a domicilio non è solo una metafora cinematografica, ma è un soggetto concreto da proteggere. Se si può indurre una persona a morire senza una legge (quindi senza freni e senza colpe), significa che il livello di barbarie va ben oltre le auliche intenzioni di autodeterminazione e di pietà.
Per questo ha valore la risposta al cow boy Cappato da parte del senatore Alfredo Bazoli (piddino doc, nipote del banchiere), relatore della legge fantasma sul fine vita: «Sono molto stupito della sua posizione, questa storia dimostra quanto è necessaria e urgente la normativa. Siamo in dirittura finale, i tempi sono stretti ma al Senato c’è un cauto ottimismo. Sarà importante chiudere con lo stesso testo passato alla Camera». Difficile da concretizzare perché la sinistra ritiene che la legge sia troppo restrittiva e il centrodestra che sia troppo permissiva. Non è un dettaglio la posizione di Papa Francesco, guida del mondo cattolico: «Non esiste alcun diritto alla morte». Conclude Bazoli: «L’importante è che la morte medicalmente assistita non sia lasciata ogni volta a un giudice; non si garantirebbe alcuna uniformità di giudizio».
Perfino una legge tardiva e sbagliata è meglio del business privato della morte alla buona. Un sistema di cui diffidare, senza regole determinate dai rappresentanti dei cittadini, senza limiti precisi e con due cardini bizzarri: l’indicazione di principio degli ermellini e l’eccitazione di chi trae benefici ideologici nel rappresentare un suicidio come una conquista sociale. Tutto il resto è Dignitas.
La Corte costituzionale ha bocciato la proposta di referendum sull’eutanasia in quanto non rispettava le esigenze minime di tutela della vita umana. Marco Cappato, noto esponente radicale e militante attivo dell’associazione Luca Coscioni, ha dichiarato che, nonostante il pronunciamento della Corte costituzionale, lui e altri andranno avanti continuando ad aiutare coloro che scientemente vogliono porre fine alla loro vita, magari accompagnandoli in Svizzera dove la cosa è possibile.
Dico subito, tanto per evitare possibili equivoci, che quanto scriverò non attiene tanto alla materia del cosiddetto termine vita, anche perché la mia opinione personale è quella di uno favorevole al testamento biologico e sostanzialmente contrario alle forme di accanimento terapeutico. Ma questo conta meno, quello che più conta è un’altra considerazione di tipo giuridico legislativo.
Ci sono alcune persone in Italia che hanno raccolto le firme di alcune centinaia di migliaia di altre persone perché si celebrasse un referendum che consenta l’introduzione in Italia di una pratica all’estero già consentita. Lo hanno fatto legittimamente, lo hanno fatto legalmente, tant’è vero che la richiesta è stata accolta dall’organo giudiziario preposto e si è proceduto all’analisi di costituzionalità da parte della Corte costituzionale stessa.
Potrà sembrare superfluo - e in tal caso me ne scuso preventivamente - vorrei semplicemente ricordare la differenza che c’è tra le leggi dello Stato e i diritti costituzionali, detti anche diritti fondamentali. Il rapporto è molto semplice, le leggi che il Parlamento approva non possono in alcun modo andare contro i diritti sanciti dalla Costituzione perché tali diritti sono superiori a qualsiasi legge, rappresentano il loro limite e anche il metro con il quale misurare la legittimità (costituzionale) delle leggi stesse. Non è un caso che il presidente della Repubblica, nell’esercizio delle funzioni che gli sono attribuite dalla Costituzione stessa, ha la facoltà di sollevare nei confronti delle leggi che gli pervengono dal Parlamento i cosiddetti «dubbi di costituzionalità», cioè dubbi sul fatto che quella specifica legge rispetti i diritti costituzionali. Ciò che vale per la legge vale, nello stesso esatto modo, anche per i referendum. Prima di essere ammessi essi devono passare al vaglio dei giudici della Corte costituzionale. Questo è un principio, anzi il principio fondamentale dello Stato di diritto dove la legge non può mai andare contro il diritto, non può violarlo, non può calpestarlo, non può non adeguarvisi. Il contrario avviene di norma nello Stato totalitario nel quale è la legge del dittatore che crea il diritto.
Marco Cappato ha tutta la possibilità di attuare forme di disobbedienza civile, come del resto fece nel caso arcinoto di dj Fabo che accompagnò in Svizzera in una clinica nella quale fu aiutato a porre fine alla su esistenza per scelta volontaria. Per questo fatto Marco Cappato fu portato in tribunale e alla fine fu assolto. Sarà interessante mettere a confronto la motivazione di quella assoluzione con le motivazioni per le quali la Corte costituzionale ha deciso di respingere questo referendum. Sostanzialmente in quella occasione fu detto che Marco Cappato aveva «solo» assecondato la volontà di un altro e che quindi il suo ruolo attivo non risultava determinante né nella scelta di dj Fabo, né tantomeno nell’esecuzione della sua volontà. Comunque, ciò che è certo è che Marco Cappato c’era e che se non ci fosse stato probabilmente dj Fabo avrebbe avuto qualche difficoltà in più a mettere in atto il suo progetto. Vedremo di capire dove sta il punto e sarà interessante vederci chiaro.
La Repubblica italiana funziona così: quando uno intraprende il cammino del referendum sa che, comunque, andrà incontro al giudizio della Corte. Questo non vuol dire che non si possono discutere le sentenze della Corte costituzionale ma significa che non accettarle e comportarsi non di conseguenza rappresenta una violazione della legge che può chiamarsi obiezione di coscienza, disobbedienza civile e altro. Ma tant’è.
Non solo Alessandra Giordano, la donna di Paternò affetta da depressione che ha ottenuto il suicidio assistito in Svizzera. Sono 110 gli italiani morti nella clinica Dignitas, vicino Zurigo, tra il 2001 e il 2017: il 4,31% dei «clienti» della struttura. Accanto ai tetraplegici o ai pazienti terminali - casi che è agevole proporre all'opinione pubblica per convincerla che la «dolce morte» va legalizzata anche in Italia - c'è una schiera di sofferenti, il cui posto non dovrebbe essere sul capezzale di Dignitas. Sono, appunto, le persone affette da depressione, come la quarantaquattrenne siciliana: circa il 3% di quelli che si recano in Svizzera per il suicidio assistito.
Alcune storie hanno dell'incredibile: basti pensare a Gill Pharaoh, una britannica di 75 anni. Ex infermiera, prima di partire per il suo ultimo viaggio in Svizzera aveva dichiarato a un tabloid: «Ho badato a persone anziane per tutta la mia vita e mi sono sempre detta: io non lo diventerò». Esponente del gruppo fondato da Michael Irwin, alias «dottor morte», la Pharaoh non era malata. Non assumeva medicinali. Aveva solo paura di diventare vecchia.
Non esistono statistiche ufficiali sui nostri connazionali affetti dal male oscuro, che decidono di togliersi la vita nel Paese elvetico. Ma negli anni le cronache hanno registrato diversi episodi. Il più celebre è quello di Lucio Magri, fondatore del Manifesto, che, ammalatosi di depressione, nel 2011 aveva scelto il suicidio assistito nel Canton Ticino. Nel 2014, invece, era toccato a Oriella Cazzanello, 85 anni, di Arzignano (Vicenza). Come nella vicenda della Giordano, a un certo punto, i familiari di Oriella non erano più riusciti a contattarla. Finché a un notaio di Arzignano non è arrivata un'urna con le sue ceneri. La signora era andata a Basilea per farla finita: pare fosse piombata nello sconforto per lo sfiorire della sua bellezza. Ad accompagnarla, un amico, Angelo Tedde, cui la donna aveva intestato due polizze da 600.000 euro. Tedde era finito a processo per aiuto al suicidio, ma nell'ottobre del 2015 era stato assolto. Più recente è la storia di un ingegnere di 62 anni di Albavilla (Como), che nel 2017 si è recato a morire in Svizzera perché affetto da depressione. La Procura aveva aperto un'inchiesta e avviato una rogatoria presso le autorità elvetiche. Indagato anche l'amico del professionista, che lo aveva accompagnato oltreconfine. Di nuovo, inchiesta archiviata. Rogatoria senza esito.
Ma il caso più assurdo forse è quello di Pietro D'Amico, ex magistrato, lambito nel 2007 da un'inchiesta condotta dall'allora pm Luigi De Magistris. D'Amico, nel 2013, mise fine ai suoi giorni in una struttura di Basilea, Life circle eternal spirit. Depresso perché gli era stata diagnosticato un male incurabile. Un male che però, come avrebbe rivelato l'autopsia, non esisteva: diagnosi errata. A oggi, non si ha notizia di accertamenti svolti da giudici italiani, nonostante lo sgomento e la costernazione della figlia.
Le cliniche svizzere, a cominciare da Dignitas, ci tengono a precisare che prima di fornire all'«interessato» (cioè, all'aspirante suicida) la cosiddetta «luce verde», svolgono tutti gli accertamenti. Un concetto sul quale ha insistito anche il leader dell'associazione Luca Coscioni, il radicale Marco Cappato, raggiunto dalla Verità. «Non è vero che chi è depresso può andare in Svizzera e ottenere il suicidio assistito», ha assicurato. «Sono episodi estremamente rari, perché c'è depressione e depressione. La depressione che deriva da sfortunate circostanze della vita è per definizione reversibile, curabile. Molto di rado è una patologia irreversibile».
Ma si può sostenere che una donna di 44 anni, come Alessandra Giordano, potesse essere affetta da una depressione inguaribile che ne giustificava la soppressione? Si può dire altrettanto dell'infermiera inglese che non voleva invecchiare, dell'ottantacinquenne vicentina angosciata dallo sfiorire della sua bellezza, o del magistrato fuorviato da diagnosi errate? Gli attivisti pro eutanasia hanno presentato una legge di iniziativa popolare per legalizzare questa pratica in Italia. Se il Parlamento non l'approvasse, a settembre sarà comunque la Consulta a cassare il reato di aiuto al suicidio. Non si rischia di aprire una pericolosa breccia? Come in Belgio, Paese da poco trascinato dinanzi alla Corte di Strasburgo, per «mancata protezione della vita umana», da un cittadino che lamenta l'eutanasia di sua madre depressa?
Cappato, alla Verità, ha specificato che la proposta di legge sull'eutanasia non potrebbe essere applicata ai casi di depressione. Ma ha ammesso: «Mi è capitato che persone depresse venissero a chiedermi aiuto per avviare l'iter del suicidio. Ovviamente, a loro io consiglio di insistere con le terapie psichiatriche». Ma di quante persone di tratta? «Non sono numeri statisticamente rilevanti. Ma di sicuro i casi non diminuiscono: anzi, negli ultimi anni sono aumentati». Ecco. Quante altre Alessandra Giordano sono là fuori?







