Le forze libiche alleate di Khalifa Haftar hanno nuovamente colpito i terroristi dello Stato islamico nel Sud della Libia, provocando la loro reazione con un duplice attentato kamikaze. È in questo contesto che gli Usa sono intervenuti in Ciad per sostenere gli sforzi libici nella lotta al terrorismo, con l'obiettivo di riaprire presto una propria rappresentanza diplomatica in Libia. Nel frattempo, Fayez Al Serraj ha aperto all'Italia per riconquistare la fiducia di Roma, che però, assieme a Washington, ritiene ormai il generale il suo uomo nel Paese nordafricano.
ll Fezzan continua a minacciare il processo di pacificazione della Libia, nonostante Ghassan Salamé, a capo della missione Onu nel Paese mediterraneo, si sia detto fiducioso che il 2019 possa essere l'anno del compromesso, dopo 8 anni dalla caduta del dittatore Muammar Gheddafi. Ma mentre i leader di Tripoli e Bengasi, rispettivamente Fayez Al Serraj e Khalifa Haftar, nonostante le diverse vedute, lavorano per la riunificazione dei rispettivi eserciti e delle istituzioni, il Sud della Libia ribolle a causa del terrorismo proveniente dal Sahel e dei movimenti di protesta del Fezzan.
È in queste dinamiche che rientrano le rinnovate operazioni militari degli Stati Uniti nel Ciad e l'intenzione di Washington di riaprire presto la propria rappresentanza diplomatica in Libia, sei anni dopo l'attacco al consolato americano di Bengasi costato la vita all'ambasciatore Chris Stevens. Ma non solo: anche l'Italia sta ripensando alle sue attività diplomatiche in Libia. Infatti, Roma potrebbe riaprire il consolato a Bengasi, chiuso in via precauzionale nel 2013 dopo un attentato al console Guido De Sanctis. Secondo fonti della Verità, la sede dovrebbe riaprire in tempo utile per l'organizzazione delle elezioni di primavera (un'ipotesi, quella del voto in primavera, non gradita a Parigi e definita un «miraggio» dal quotidiano francese Le Monde). Rappresenterebbe, inoltre, un ramoscello d'ulivo verso il generale Haftar, che sperava nel ritorno a Tripoli dell'ambasciatore Giuseppe Perrone e che ha mal digerito la sostituzione di questi con Giuseppe Maria Buccino Grimaldi (sostenuto dai ministri Enzo Moavero Milanesi ed Elisabetta Trenta della Difesa contro i desiderata del collega del Viminale Matteo Salvini), ritenuto dall'uomo forte della Cirenaica troppo morbido verso la Fratellanza musulmana.
Dopo l'attentato contro il ministero degli Esteri del governo di Tripoli, le forze fedeli al generale Haftar hanno intensificato gli sforzi contro il terrorismo. Il leader di Bengasi sta cercando di estendere la sua influenza inviando brigate e tessendo alleanze con le tribù locali nel Fezzan, dove a capodanno si è però registrato un duplice attentato kamikaze nei dintorni della città di Sebha, area fuori dal controllo delle autorità libiche, in cui operano sia i terroristi islamisti sia altri gruppi armati, come i ribelli ciadiani e sudanesi e i trafficanti di esseri umani. Gli attentatori si sono fatti saltare in aria nel villaggio di Ghadwa, a 60 chilometri circa a Sud di Sebha, per vendicarsi del blitz avvenuto la mattina contro una fattoria usata da loro come covo per tenere gli ostaggi rapiti in diverse spedizioni, sempre nel Sud e nel centro della Libia.
Ma non ci sono soltanto i fedeli del Califfato islamico a seminare panico e instabilità nel Sud della Libia. I continui attacchi del movimento di protesta giovanile contro il giacimento di Sharara rappresentano «un tentativo sistematico» di bloccare le attività dell'intero complesso petrolifero, secondo Mustafa Sanallah, presidente della compagnia energetica libica National oil corporation (Noc), che ha commentato così il terzo episodio di furto in una settimana all'interno del complesso avvenuto il primo gennaio 2019. «Le legittime aspirazioni delle comunità della Libia meridionale vengono continuamente colpite e violate da bande armate, che invece di proteggere il campo per generare ricchezza per tutti i libici, stanno consentendo il suo saccheggio». E la Noc starebbe addirittura pensando di chiudere il giacimento che vede anche le partecipazioni della spagnola Repsol, della francese Total, dell'austriaca Omv e della norvegese Equinor.
Con il Fezzan a ferro e fuoco, non sembra possibile escludere, almeno per ora, dai giochi Serraj. Il vicepresidente del consiglio presidenziale libico, Abdulsalam Kajman, ha spiegato ad Agenzia Nova di sperare «che gli Stati Uniti possano essere più coinvolti in Libia» perché un Paese «stabile nella regione è nell'interesse nazionale degli Stati Uniti» ma anche dell'Europa. Kajman, originario del Fezzan ha ricordato gli sforzi di Tripoli e di Washington per espellere l'Isis da Sirte. Gli Usa, infatti, dal Sahel, e in particolare dal Ciad, potrebbero presto decidere di allargare le zone di loro competenza per sostenere gli sforzi libici, in particolare quelli di Haftar, nella lotta al terrorismo.
Quanto, invece, all'Italia c'è da registrare quanto detto dal neoministro libico della governance locale, Milad Al Tahir, in un colloquio avvenuto nei giorni scorsi con il vice capo missione dell'ambasciata d'Italia in Libia, Nicola Orlando. Secondo il sito Libya Observer, il ministro, un accademico dell'università di Sebha e recentemente nominato da Serraj, ha rinnovato la richiesta di riattivare il Trattato di amicizia tra Italia e Libia firmato nel 2008 dall'ex premier Silvio Berlusconi e da Gheddafi per riaprire le porte libiche alle imprese italiane. Un'apertura, quella di Tripoli, pensata per riconquistare la fiducia di Roma, che però, assieme a Washington, ritiene ormai Haftar il suo uomo in Libia.
- Carroccio e pentastellati a Tripoli vogliono ricominciare da zero. Corsa a tre per la successione al capo dell'Aise scelto da Marco Minniti. L'obiettivo è rilanciare la presenza dell'Eni nella zona, mantenendo i propri avamposti, ma in particolare mettere ordine tra le tribù libiche che in questi anni ci hanno tenuto sotto ricatto, spesso con l'invio dei migranti.
- I gialloblù vorrebbero alla Vigilanza dei mercati Marcallo Minenna l'ex assessore della giunta Raggi. Incertezza anche sul futuro di Anas.
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La stretta di mano tra il premier, Giuseppe Conte, con il generale Khalifa Haftar e il presidente libico, Fajez Serraj, alla conferenza di Palermo sulla Libia ha rappresentato per la nostra politica estera un grosso passo in avanti che però non ha cancellato del tutto le difficoltà diplomatiche e di intelligence rimaste nella Cirenaica. Proprio per questo motivo, lunedì il governo avrebbe deciso di mettere mano alle nomine sui servizi segreti. È un tema che si trascina ormai da mesi, sul ricambio o meno dei vertici di Dis, Aise e Aisi, ma che ora diventa essenziale per dare vita alla nuova politica estera in Libia dell'esecutivo gialloblù, meno vicina agli Stati Uniti ma comunque equidistante dalla Russia di Vladimir Putin.
L'obiettivo è quello di rilanciare la presenza dell'Eni nella zona, mantenendo i propri avamposti, ma in particolare mettere ordine tra le tribù libiche che in questi anni ci hanno tenuto sotto ricatto, spesso con l'invio dei migranti: un'idea sul tavolo sarebbe quella di coinvolgerle nei guadagni del petrolio facendole entrare nel Noc (National Oil Corporation). Per farlo serve un ricambio generale, non solo nell'intelligence, ma che potrebbe passare dai vertici di Eni, il nostro colosso petrolifero.
A quanto risulta alla Verità, infatti, lunedì il Consiglio dei ministri dovrebbe sostituire il numero uno dell'Aise, il servizio segreto militare o esterno, cioè Alberto Manenti, che per anni ha gestito la situazione a Tripoli, anche perché nato a Tarhuna e vanta un'ottima conoscenza dell'arabo. Manenti è dal 1980 nel Sismi, fu nominato a Forte Braschi nel 2014 dal governo di Matteo Renzi, con la benedizione di Marco Minniti, ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega ai servizi segreti, poi diventato ministro dell'Interno.
I possibili sostituti di Manenti sono tre. Il primo, è Enrico Savio, attuale numero due del Dis, che vanta l'appoggio del presidente di Leonardo, Gianni De Gennaro. Poi c'è Luciano Carta, il severo e marziale generale della Guardia di finanza, che in molti avrebbero voluto al vertice della stessa Gdf. Quindi c' è Gianni Caravelli, il secondo vice dell'Aise, spinto dal ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Ma Caravelli fu nominato all'Aise proprio da Minniti e fu delegato da Manenti a seguire il dossier libico. E oggi sembra non essere un vantaggio.
Caso vuole che in questi giorni sul tavolo di Palazzo Chigi sia arrivata una relazione dettagliata sugli ultimi anni di gestione Minniti-Manenti del dossier libico. Per anni infatti, l'Italia ha sostenuto esclusivamente il Government of national accord (Gna) con a capo Serraj, unica autorità riconosciuta dall'Onu. I motivi della decisione, a detta di fonti diplomatiche, sono da ricondursi alla vicinanza delle scelte prese in passato dagli Stati uniti, in particolare da Hillary Clinton, al tempo segretario di Stato. Minniti, non è una notizia, è sempre stato molto vicino a Washington, come hanno rivelato anche i cablogrammi di Wikileaks. Il problema è che questa gestione è stata deleteria per i nostri interessi nella zona, come dimostra l'avanzata dei francesi di Total.
Non solo. L'Italia, dopo la caduta di Muammar Gheddafi, ha disinvestito in Libia in termini di capacità di intelligence e si è ritrovata con il problema dell'immigrazione e del terrorismo, ormai già esplosi. A conferma della sottovalutazione di questi due problemi basta rileggersi le relazioni che annualmente i nostri servizi segreti forniscono al Parlamento. Dal 2011 al 2017, quasi sei anni, nei dossier inviati a Camera e Senato non si fa minimo cenno agli sbarchi sulle nostre coste. Se ne inizia a parlare l'anno scorso, quando, si fa cenno a «sbarchi “occulti", effettuati sotto costa per eludere la sorveglianza marittima aumentando con ciò, di fatto, la possibilità di infiltrazione di elementi criminali e terroristici». A questo si aggiunga una politica discutibile sulla questione, con il governo di centrosinistra che a giorni alterni ha fatto intendere che i terroristi non potessero mischiarsi ai migranti, mentre altre volte sì. A quanto pare la gestione Minniti e Manenti ha puntato molto su Eni come braccio operativo della nostra intelligence. Lo disse persino l'ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi, in televisione, intervistato da Lilli Gruber, scatenando le proteste dei 5 stelle. Negli ultimi anni la situazione è cambiata, l'arrivo della Russia in Siria e anche in Libia hanno modificato la geopolitica di un Medio oriente completamente destabilizzato. L'Italia si è ritrovata sola e impreparata con il governo di Tripoli. Serraj si è rivelato debolissimo, basti pensare che vive a Tripoli in un palazzo con elevatissimo livello di protezione e limita pochissimo i suoi movimenti.
Sul fronte interno invece i gialloblù non prevedono novità. Il capo del Dis, Alessandro Pansa, resterà per ora al proprio posto almeno fino all'inizio del 2019. Mentre sarà confermato nel ruolo di numero uno dell'Aisi, Mario Parente. La solidità del generale dei carabinieri piace a Conte e al resto dell'esecutivo.
Consob, su Minenna presidente c’è il veto di Mattarella
C'è un fantasma che si aggira per i palazzi della politica romana, è il nuovo presidente di Consob, l'autorità di vigilanza per i mercati finanziari, poltrona vacante da più di due mesi dopo che Mario Nava diede le dimissioni il 13 settembre. A quanto pare, nelle ultime ore, 5 stelle e Lega avrebbero trovato la quadra su Marcello Minenna, ex assessore della giunta Raggi e già con un piede dentro l'organo di controllo della Borsa. In corsa ci sono anche due professori della Bocconi, Alberto Dell'Acqua e Donato Masciandaro. Ma di date certe sull'insediamento non ce ne sono.
E c'è un motivo. La resistenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che secondo procedura, è quello che decide la nomina con decreto dopo la proposta del presidente del Consiglio, che a sua volta deve avere il parere favorevole delle commissioni Finanze di Camera e Senato. Si tratta di una procedura complessa su cui sorveglia il nostro Stato profondo, l'apparato burocratico contro cui si scagliano da mesi i grillini senza successo. Del resto al Quirinale c'è una figura che segue con attenzione la scelta sul nuovo presidente di Consob. È Giuseppe Fotia, consigliere per gli Affari finanziari al Colle dal 2006, quando si insediò per la prima volta il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano. Fotia è stato soprannominato in questi anni come il «Signor no» della copertura finanziaria delle leggi, lo è anche adesso.
Ma a parte Consob, anche sulle altre nomine, dall'Antitrust all'Agcom, fino all'Anas, c'è incertezza. A sbloccarsi è stata Consip, stazione appaltante della Pubblica amministrazione, dove è arrivato come presidente Renato Catalano, capo dipartimento del Dag, nomina benedetta dall'asse formato da Mattarella, il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, e Roberto Garofoli, capo di gabinetto del Mef. In Anas è stata rinviata al 28 novembre l'assemblea per nominare il nuovo ad. Ugo Dibennardo resta la prima scelta, grazie all'appoggio del ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Da giorni però i grillini sono spaccati al loro interno. E mercoledì, 20 senatori pentastellati hanno presentato un'interrogazione che si chiede: «se la ventilata nomina di Dibennardo in sostituzione di Gianni Vittorio Armani non costituisca elemento di continuità con le precedenti gestioni e se non si ritenga invece urgente attivare le procedure ispettive previste dall'ordinamento, per fugare qualsiasi ombra nella gestione delle attività di Anas».







