Mentre in Libia si continua a combattere, le acque del Mar Mediterraneo di fronte al Paese nordafricano ribollono. Si muovono, in particolare, Francia e Stati Uniti da una parte, Iran dall'altra. Dopo che Washington ha mostrato i muscoli, in particolare a Mosca, con un'esercitazione di due portaerei, la Uss Abraham Lincoln e la Uss John Stennis, nel Mediterraneo centrale alla presenza di Jon Huntsman, ambasciatore Usa in Russia, è il turno di Parigi.
Secondo quanto riferito dall'emittente Al Jazeera (che essendo qatariota è considerata vicina al governo di Tripoli guidato da Fayez Al Serraj), una fregata francese avrebbe consegnato motoscafi e armi all'autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Khalifa Haftar nel porto di Ras Lanuf, importante scalo petrolifero nel Golfo della Sirte che sarebbe anche la base di partenza degli attacchi con i droni su Tripoli. Per altre fonti si è trattato invece di uno scalo tecnico per fare rifornimento. Ciò che è certo è che la Marina francese è rimasta in porto per alcune ore. Non sono arrivate né conferme né smentite, ma il fatto che si parli di «scalo tecnico» conferma i movimenti. Tanto è bastato al comandante della Marina del Governo di accordo nazionale di Tripoli, Redha Issa, per avvertire che qualsiasi infiltrazione in Libia è «un tentativo di suicidio».
Ma, dicevamo, si muove anche l'Iran. Teheran, infatti, ha annunciato che invierà presto una flottiglia della sua Marina militare nei porti del Sud Italia per attività di addestramento congiunto con quella italiana. È quanto ha riferito il contrammiraglio Hossein Khanzadi, a margine di un incontro nel porto cinese di Qingdao in occasione del settantesimo anniversario della fondazione della Marina di Pechino. Il dialogo tra Teheran e Roma, così come quello annunciato tra Teheran e Tokyo, verte sul rafforzamento della cooperazione nel settore della formazione delle rispettive marine militari.
Ma in questo c'è un rischio per l'Italia. L'Iran, infatti, dopo essere entrato nella gestione delle società del porto mediterraneo di Laodicea (Latakia) in Siria, cerca di allargare il suo raggio d'azione. E i porti del Sud Italia possono rappresentare per Teheran un'occasione per mettere il naso nel dossier libico. Nel progetto del presidente statunitense Donald Trump, infatti, la stabilità della Libia è fondamentale per portare a zero le esportazioni di petrolio di Iran e Venezuela.
A tre settimane dall'inizio della battaglia attorno a Tripoli, ieri le forze governative hanno conquistato terreno sul fronte Sud della capitale libica, avvicinandosi all'area di Qasr Ben Ghashir (nota come Castel Benito durante il fascismo) strategica vista la sua vicinanza all'aeroporto internazionale di Tripoli, il principale scalo aereo del Paese. I governativi, inoltre, secondo quanto riferito dal portavoce militare Mohammed Gnounou, hanno attaccato l'area di Ain Zara, 15 chilometri a Sud Est del centro della capitale, e circondato le milizie avversarie che si sono arrese e hanno consegnato le armi. Gli uomini di Khalifa Haftar, che giovedì 4 aprile hanno iniziato la loro marcia su Tripoli, hanno impiegato anche elicotteri d'assalto, già utilizzati nelle battaglie di Bengasi e Derna, fra il 2014 e il 2018. Nella notte tra giovedì e venerdì, infatti, i mezzi dell'aviazione dell'uomo forte della Cirenaica, di fabbricazione russa e risalenti agli anni Ottanta, hanno colpito alcune aree della capitale.
Da Pechino, dove si trova per il forum sulla Nuova via della Seta, è intervenuto anche il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte, che ha incontrato il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi, uno dei principali sostenitori di Haftar, e ha avuto un colloquio telefonico con Serraj. L'Italia «non è né a favore di Serraj né a favore di Haftar, ma a favore del popolo libico, che ha il diritto di vivere in pace», ha dichiarato il premier che domani vedrà il presidente russo Vladimir Putin. «Il mio governo», ha aggiunto escludendo la soluzione militare e definendo come unica possibile quella politica, «mira alla stabilizzazione del Paese». Intanto, il Viminale ha annunciato che lunedì il vicepremier e ministro dell'Interno Matteo Salvini sarà all'aeroporto militare di Pratica di Mare in occasione dell'arrivo di un gruppo di 147 richiedenti asilo provenienti da Misurata, grazie a un corridoio umanitario.
Mentre un Falcon 900EX dell'Aeronautica militare italiana utilizzato spesso dai nostri servizi segreti ieri atterrava a Bengasi, la «capitale» del generale Haftar, il premier Conte ha fatto appello a tutti i leader mediorientali e agli Stati Uniti affinché si lavori a un immediato cessate il fuoco in Libia. Sempre ieri si sono mossi gli Emirati Arabi Uniti, con Arabia Saudita ed Egitto primi sponsor dell'uomo forte della Cirenaica. Lo sceicco Abdullah Bin Zayed Al Nahyan, ministro degli Esteri di Abu Dhabi, ha incontrato a Londra il suo omologo britannico, Jeremy Hunt. Al centro del colloquio i rapporti di collaborazione tra il Regno Unito, promotore in sede Onu del cessate il fuoco, e la città-Stato di Misurata, vero motore della controffensiva di Serraj e primo interlocutore di Londra e Roma.
La decisione degli Stati Uniti di riavvicinare Khalifa Haftar non deve stupire. Non solo perché l'uomo forte della Cirenaica ha vissuto per una ventina di anni in esilio in Virginia ed è stato collaboratore della Cia. Ma anche perché i suoi sforzi antiterrorismo sono in linea con le politiche del presidente Usa Donald Trump.
La Libia è un nuovo Yemen piuttosto che una nuova Siria. Spesso la crisi nel Paese nordafricano è stata paragonata allo Stato fallito guidato da Bashar Al Assad e in preda alla guerra civile. In particolare, per il rischio che diventi un hub per il terrorismo e che alimenti la crisi dei rifugiati.
In realtà, in palio nella guerra libica c'è la leadership dell'islam sunnita. Da una parte, infatti, troviamo Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto schierati al fianco del generale Khalifa Haftar, l'uomo forte della Cirenaica che il 4 aprile scorso ha lanciato la sua offensiva sulla capitale Tripoli; dall'altra, Turchia e Qatar, principali sostenitori di Fayez Al Serraj, il premier del Governo di accordo nazionale che a Tripoli ha la sua sede.
Il sunnismo è la corrente maggioritaria dell'islam: comprende, secondo le stime, tra l'85 e il 90 per cento dell'intero mondo islamico tra Nord Africa e Medio Oriente. L'altra corrente è quella sciita, diffusa soprattutto in Iran, Iraq, Azerbaigian e Bahrein.
Quando Haftar ha lanciato la sua offensiva su Tripoli l'ha fatto annunciando un'operazione contro il terrorismo infiltrato nel governo della capitale e del Paese. Tradotto: un'operazione contro le milizie islamiste che combattono al fianco di Serraj e la Fratellanza musulmana. Quest'ultima è l'organizzazione islamista nata al Cairo negli anni Venti dello scorso secolo che ha nel Partito libertà e giustizia il suo braccio politico. Di questa formazione faceva parte l'ex presidente egiziano Mohamed Morsi, rovesciato nel 2013 da Abdel Fattah Al Sisi, che oggi rappresenta per Haftar il tramite con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. E cosa accomuna l'Egitto di Al Sisi e quei due Paesi del Golfo? L'opposizione alla Fratellanza musulmana e ai suoi sostenitori. Cioè Turchia e Qatar, principali sponsor, il primo militare e il secondo economico, del governo di Serraj.
La decisione degli Stati Uniti di riavvicinare Haftar non deve quindi stupire. Non soltanto perché l'uomo forte della Cirenaica, ex generale sotto Muhammar Gheddafi, ha vissuto per una ventina di anni in esilio in Virginia ed è stato collaboratore della Cia. Ma anche perché i suoi sforzi «antiterrorismo» sono in linea con le politiche del presidente Usa Donald Trump.
La Casa Bianca ha riferito soltanto venerdì scorso di una telefonata tra Trump e Haftar avvenuta il lunedì precedente (poche ore dopo la conversazione tra il presidente Usa e il premier italiano Giuseppe Conte). Secondo una nota ufficiale della Casa Bianca, Trump ha riconosciuto gli sforzi di Haftar «per combattere il terrorismo e mettere in sicurezza le risorse petrolifere del Paese». I due hanno inoltre «condiviso la visione per una transizione della Libia verso un sistema politico stabile e democratico», continua la nota. Intanto, il numero degli sfollati dall'inizio degli scontri armati a Tripoli ha superato quota 32.000. I morti sono almeno 254 e i feriti 1.128.
La mossa Usa non soltanto ha spiazzato il Regno Unito, schierato al fianco di Tripoli perché legato a Misurata, e l'Italia, che sostiene Serraj visti anche i suoi rapporti con il Qatar ma che continua a sperare nell'intervento di Washington per riportare la pace in Libia e evitare nuove crisi di migranti. Ha anche cambiato le carte in tavola. Sono, infatti, diversi gli analisti che ora vedono come realistica la possibilità di intervento al fianco di Haftar da parte di Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.
L'intervento degli Stati Uniti, che giovedì scorso non hanno sostenuto con la Russia (anch'essa nemica della Fratellanza musulmana) la risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu elaborata dal Regno Unito per un cessate il fuoco immediato, ha tagliato fuori anche la Francia di Emmanuel Macron. Washington vuole evitare un ritorno dei suoi «boots on the ground» e sta cercando per vie diplomatiche di escludere un nuovo caos nell'area che ne richiederebbe l'intervento. Ecco perché Trump ha fatto pressione su Macron affinché la Francia ridimensioni le sue mire sulla Libia: Washington vuole evitare nuove frizioni tra Roma, in asse con Doha, e Parigi, che puntava a diventare il principale interlocutore europeo del Cairo.
Così facendo gli Usa di Trump hanno anche dichiarato il loro appoggio a una delle due fazioni in guerra per la supremazia del mondo islamico sunnita, quella guidata dall'Arabia Saudita. A danno della corrente che fa capo al Qatar, il Paese che donò un milione di dollari alla Clinton Foundation quando Hillary Clinton, la sfidante democratica di Trump nel 2016, era segretario di Stato americano.
Parigi sigilla i confini: «Ora pericolo Isis». Peccato che la causa siano i suoi traffici
- La Francia ci chiede di blindare le frontiere per altri 6 mesi. Comodo, dopo l'ennesimo conflitto innescato per i propri affari.
- Enzo Moavero Milanesi incontra la delegazione di senatori vicini a Donald Trump. Sul tavolo la richiesta di mediare tra curdi e turchi. Washington garantirebbe intelligence in Tripolitania. Intanto il rappresentante di Misurata Ahmed Maitig minaccia: «400 jihadisti pronti a fuggire».
Lo speciale contiene due articoli.
Nei giorni scorsi, il vicepremier Luigi Di Maio se l'è presa con gli alleati europei della Lega «che fanno i sovranisti con le frontiere italiane». A quanto risulta, però, non sono i sovranisti (veri e presunti) a fare i furbetti con i confini altrui. Al solito, i primi a giocare sporco sono proprio i nostri cari, democratici e liberali vicini di casa francesi. Ieri fonti del Viminale hanno fatto sapere che la Francia ha chiesto ufficialmente di prorogare la chiusura delle frontiere con l'Italia per altri sei mesi. La richiesta è arrivata da Christophe Castaner, il ministro dell'Interno di Parigi. Il compagno di partito di Emmanuel Macron ha spiegato che le frontiere vanno serrate per via di una «emergenza nazionale» legata al terrorismo. Meraviglioso: qui si perde tempo a dibattere se sia il caso o meno di tenere i porti chiusi (per Di Maio è una «misura occasionale», niente meno), e intanto i francesi si blindano.
In effetti, come conferma il Viminale, centinaia di jihadisti ora presenti in Libia potrebbero approfittare della guerra per lasciare il Paese diretti in Europa (e, ovviamente, in Italia). Le indicazioni in questo senso non mancano, anche se talvolta la minaccia dei barconi viene brandita in modo strumentale. Fayez Al Serraj, il leader del governo di Tripoli, ha dipinto un quadro inquietante: «Non ci sono solo gli 800.000 migranti pronti a partire», ha detto a Repubblica, «ci sarebbero i libici in fuga da questa guerra e, nel Sud della Libia sono già ritornati in azione i terroristi dell'Isis che il governo di Tripoli con l'appoggio della città di Misurata aveva scacciato da Sirte tre anni fa».
Giusto ieri, il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, ha incontrato Ahmed Maitig, vicepremier libico schierato con Al Serraj e considerato - come abbiamo scritto ieri - il rappresentante de facto di Misurata. Maitig ha sostanzialmente confermato l'allarme, spiegando che nelle carceri della sua città sono detenuti circa 480 ex combattenti dello Stato islamico. Come è facile comprendere, se la situazione da quelle parti dovesse degenerare (o se l'Italia dovesse in qualche modo scontentare gli amichetti di Misurata...) le porte delle galere potrebbero aprirsi e i combattenti islamici non avrebbero altro da fare che prendere il largo.
Ora, è evidente che i vari leader libici hanno tutto l'interesse a mostrare una situazione la più fosca possibile. Ma è vero anche che le loro affermazioni non sono poi così lontane dalla verità. E infatti a Parigi le prendono molto, molto sul serio e hanno deciso - in attesa di sviluppi - di premurarsi. Come? Beh, come hanno sempre fatto: chiudendo i portoni a doppia mandata.
Sono circa 4 anni che la Francia ha reintrodotto i controlli alla frontiere, sospendendo Schengen e la libera circolazione. La chiusura è arrivata dopo i primi, micidiali attacchi islamici, da Charlie Hebdo al Bataclan. Da allora, come noto, i gendarmi hanno continuato a tenere sotto controllo i confini. Talvolta, mostrando ben poca diplomazia e molta arroganza, hanno pure deciso di passare dal nostro lato per scaricarci immigrati sgraditi. Adesso ci fanno sapere che i chiavistelli rimarranno per altri sei mesi.
Fanno molto bene, i capoccia di Parigi, a guardarsi le spalle. Ma è troppo comodo farlo a spese nostre. Forse vale la pena di rammentare che il carnaio libico l'hanno prodotto, prima di tutti gli altri, i cari francesi. Hanno cominciato nel 2011 con la rimozione brutale di Muammar Gheddafi, che ha destabilizzato la Libia e l'ha lasciata in balia di jihadisti, trafficanti e criminali di varia natura.
Ma anche oggi i cuginastri d'Oltralpe non hanno perso il vizio, anzi. Facciamo un esempio? Domenica scorsa, al confine tunisino, sono state fermate 13 persone provenienti dalla Libia. Cittadini francesi, che le fonti vicine al Qatar identificano come consiglieri militari del generale Khalifa Haftar. Difficile pensare che i gentiluomini in questione si trovassero da quelle parti per godersi una bella gita turistica, no? È evidente che la Francia, da anni, conduce maneggi in Libia, continuano a gettare benzina sul fuoco degli scontri e delle rivolte.
Per altro, i gioviali vicini hanno brigato a lungo per danneggiare il nostro Paese e per tagliarlo fuori da qualsiasi affare in Cirenaica e dintorni. Adesso, tuttavia, sono così premurosi da annunciarci che sigilleranno i confini per un altro po' di tempo. Come a dire: amici italiani, intanto che cerchiamo di farvi le scarpe in Libia, se ci scappa qualche jihadista incarognito è meglio se ve lo prendete voi... Tanto «siamo tutti europei», no?
Gli Usa hanno ribadito la loro offerta: «Andate in Siria e vi diamo una mano»
Mentre l'eco del ministro degli esteri del Qatar, Mohamed Al Thani, ancora si aggira per Roma, il rappresentante di Misurata, Ahmed Maitig, utilizza la capitale per lanciare alcuni avvertimenti. «Con la guerra in Libia in corso centinaia di migliaia di migranti potranno raggiungere facilmente le coste europee. Ma può succedere anche di peggio», ha detto il vicepremier libico e link tra Tripoli e Doha rilasciando dichiarazioni alla stampa estera, ricordando che «i circa 400 prigionieri dell'Isis detenuti tra Tripoli e Misurata potrebbero fuggire approfittando del caos». Non si comprende se sia un avvertimento e una minaccia. In ogni caso Maitig dopo aver telefonato anche al ministro degli esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha ricordato che il suo governo «ha lavorato con la comunità internazionale per tenere prigionieri questi terroristi». E nonostante questo, «oggi vediamo che alcuni partner supportano l'offensiva di Haftar».
Il messaggio è diretto alla Francia, ma indirettamente anche ad elementi della compagine di maggioranza italiana. C'è infatti chi media e vorrebbe una Libia spaccata in due. Esattamente il contrario di quanto sperano le tribù di Misurata e il Qatar stesso che sa di poter fare forti pressioni sull'esecutivo di Giuseppe Conte. Il terzo incomodo tra il governo di Fayez Al Serraj e quello del generale khalifa Haftar, pernottando ancora un giorno a Roma, ha potuto assistere da lontano a un nuovo elemento diplomatico che si sta riaffacciando sullo scacchiere: gli Stati Uniti. Maitig non apprezza l'eventuale ritorno dell'intelligence Usa e al tempo stesso sta cercando di muoversi perché il governo italiano non si muova in tale direzione. Ieri invece il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha accolto una folta quanto importante delegazione del Congresso americano.
Le questioni più rilevanti dell'attualità internazionale, con particolare attenzione alla situazione in Libia e nel bacino del Mediterraneo, oltre che ai rapporti con la Cina e con la Russia, sono state al centro di una riunione alla Farnesina con il senatore americano Lindsey Graham, presidente della Commissione Giustizia del Senato, delegato agli esteri del Partito repubblicano e ascoltatissimo consigliere di Donald Trump.
Il senatore era accompagnato da una delegazione composta dai senatori John Barrasso, Chris Coons, Ben Sasse e dal deputato Michael McCaul. «L'articolata discussione durante la riunione ha permesso anche di ribadire la valenza strategica per l'Italia delle consolidate relazioni transatlantiche», si legge in una velina filtrata dalle agenzie di stampa. In realtà, i rappresentanti del Congresso in comune hanno una posizione chiara sul ruolo dell'Italia in Siria. Più volte Graham ha spiegato quanto sia importante gestire la transizione con le milizie dei curdi. Il senatore rappresenta l'ala repubblicana che non vuole mollare la presa. Ecco perché ieri è venuto a perorare la causa del ruolo italiano di cuscinetto tra i turchi e i curdi. I nostri militari e soprattutto i carabinieri godono di grande stima per l'attività svolta nei Balcani e in Iraq. Il messaggio è stato: aumentare la nostra presenza in Siria in cambio della riapertura del desk Usa in Libia e un sostegno attivo di intelligence. A quanto risulta alla Verità, Moavero avrebbe aperto allo scenario di impegno crescente in Siria, anche dovrà fare i conti con la componente 5 stelle. Il numero uno della Difesa, Elisabetta Trenta, lo scorso ottobre aveva dichiarato ufficialmente il contrario, spiegando che la presenza a Mosul vedrà un alleggerimento progressivo. Smentirla non sarà facile, ma nemmeno troppo complicato.
Dal momento che, rispetto alla fine del 2018, gli equilibri sono cambiati. Sia tra i capi di stato maggiore sia tra il ministro e il partito di Di Maio. D'altronde l'opzione avrebbe una serie di vantaggi. La presenza Usa in Libia porterebbe il ridimensionamento del Qatar e la possibilità di imporre a Haftar un cessate il fuoco. In fondo, l'uomo forte della Cirenaica sarebbe disposto a una trattativa solo diventando azionista del petrolio libico e ottenendo una quota del fondo sovrano Lia. Al momento Bengasi non può esportare greggio se non per vie illecite.
I beni riconducibili a Mohammar Gheddafi sono ancora congelati in giro per il mondo. Recentemente a Roma sono state liberate le proprietà immobiliari e presto toccherà alle azioni e agli altri asset. La Cirenaica non vuole rinunciare al bottino. Solo la Casa Bianca può imporsi perché è in grado di dialogare direttamente con i sauditi. Speriamo che la diplomazia acceleri e trovi una soluzione prima che Haftar conquisti tutta la capitale, nonostante la frenata di ieri. Al quel punto sarebbe più difficile per noi italiani ritornare in pista e mantenere un posto al sole (anche se in seconda fila).
- Il premier libico: «Khalifa Haftar è un cancro nel Mediterraneo». Una brigata del generale si arrende. Scovati 007 francesi al confine tunisino.
- Giuseppe Conte incontra il capo della Tripolitania e il numero 2 del Qatar: «Cessate il fuoco subito». Il ministro della Difesa: «Con la guerra avremmo rifugiati da accogliere». Matteo Salvini la stoppa: «Attracchi sigillati».
Lo speciale contiene due articoli
Ottocentomila persone, poco meno degli abitanti della città metropolitana di Genova. Sarebbe questo, secondo il premier libico Fayez Al Serraj, il numero di migranti pronti a partire dalle coste della Libia dopo l'offensiva del generale Khalifa Haftar. Intervistato da Repubblica e Corriere della Sera, il capo del governo di accordo nazionale, l'esecutivo riconosciuto dall'Onu e sostenuto Italia Qatar e Turchia, ha invitato il nostro Paese a «fare presto» per evitare un'invasione: «Non ci sono solo gli 800.000 migranti potenzialmente pronti a partire», ha spiegato Serraj a Repubblica, «ci sarebbero i libici in fuga da questa guerra, e nel Sud della Libia sono già ritornati in azione i terroristi dell'Isis che il governo di Tripoli con l'appoggio della città di Misurata aveva scacciato da Sirte tre anni fa».
Serraj fa appello alla comunità internazionale e lancia accuse al rivale Haftar: «Le sue truppe attaccano le strutture civili». «A Tripoli non ci sono terroristi come sostiene l'uomo forte della Cirenaica», continua il premier lasciando intuire che dietro la campagna lanciata da Haftar altro non ci sia che la volontà di mettere le mani sulla capitale e di conseguenze sulle entrate del petrolio.
«Ci auguriamo che la comunità internazionale operi al più presto per la salvezza dei civili», dice Serraj proprio nel giorno in cui a Roma il premier italiano, Giuseppe Conte, e il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, avevano in agenda due incontri: quello con Ahmed Maiteeq, vice di Serraj e uomo forte di Misurata, e con Mohammmed Bin Abdulrahman Al Thani, vicepremier e ministro degli Esteri del Qatar. I due, tra l'altro, sono amici di lunga data.
Sempre sull'asse Roma-Doha, oggi Emanuela Del Re, viceministro degli Esteri, interverrà alla Georgetown University in Qatar. Sull'asse Roma-Dubai, invece, sempre oggi, il vicepremier Luigi Di Maio incontrerà lo sceicco Abdullah Bin Zayed Al Nahyan, ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, l'uomo che, come ricostruito dalla Verità, a fine febbraio, più di un mese prima dell'inizio degli scontri a Tripoli, passò da Roma e incontrò l'altro vicepremier, Matteo Salvini, per consigliare all'Italia di scaricare Serraj e sostenere Haftar.
Serraj ringrazia l'Italia per aver tenuto aperta l'ambasciata a Tripoli, «per mantenere in funzione l'ospedale da campo a Misurata» e «per il supporto politico» offerto dal governo. Poi però avverte: «Siamo di fronte a una guerra di aggressione che potrà diffondere il suo cancro in tutto il Mediterraneo».
Come faceva Muammar Gheddafi, così ora fanno Haftar e Serraj: utilizzano il rubinetto dei migranti come strumento di ricatto. Né più né meno di quanto fatto negli anni scorsi dalla Turchia con l'Europa. Il numero, 800.000, fornito da Serraj non è nuovo: il premier tripolino lo ripete da mesi nei suoi viaggi per il Vecchio continente. Ma delle due, una: o Serraj ha ragione sui numeri e il dossier presentato alcuni giorni fa al premier Conte dagli 007 italiani che parlava di 6.000 migranti pronti a partire dalla Libia è sbagliato, oppure il premier tripolino, approfittando della giornata calda di ieri, l'ha sparata un po' grossa.
Intanto, dallo scoppio delle ostilità, il bilancio è salito a 130 morti, 560 feriti e 16.000 sfollati. Ieri, un'intera brigata militare proveniente da Tarhuna e appartenente alle forze di Haftar si è consegnata uomini e mezzi (tra cui diversi pick up e blindati) alle forze di Misurata, alleate di Serraj, nella periferia Sud di Tripoli. Nella notte tra domenica e lunedì, invece, gli uomini dell'autoproclamato Esercito nazionale libico avevano lanciato cinque missili Grad sul quartiere di Abu Slim, causando almeno tre feriti e distruggendo diverse auto parcheggiate nei pressi. E ieri c'è stato il primo attentato a Bengasi da quando è iniziata l'offensiva su Tripoli: un'autobomba è esplosa al passaggio della vettura del colonnello Adel Marfoua, comandante dell'antiterrorismo di Haftar, che è riuscito a sfuggire illeso.
In questo contesto, gli Usa rafforzano la presenza militare navale nel Mediterraneo con l'ingresso di una portaerei, un incrociatore lanciamissili e un cacciatorpediniere che saranno operativi a Napoli. Un segnale all'attivismo della Russia ma anche di sostegno a Roma e Tripoli. La Francia, invece, rimane al fianco di Haftar pur dopo averlo criticato. Secondo quanto riferito da Arabi 21, domenica 13 cittadini francesi sono stati fermati al confine tunisino, in uscita dalla Libia. Si tratterebbe, secondo il sito vicino al Qatar, di consiglieri militari delle forze di Haftar.
Aggiungendo a questo il rinvio a data da destinarsi della conferenza nazionale libica prevista in questi giorni sotto l'egida delle Nazioni Unite, è sempre più chiaro il fallimento della mediazione internazionale per evitare la soluzione militare e favorire quella politica. Ieri, intervistato dalla radio della Bbc, l'inviato Onu in Libia, Ghassan Salamé, ha dichiarato che l'offensiva di Haftar su Tripoli «è più un golpe» che un'azione contro antiterrorismo. Una presa di posizione dura e nuova per il diplomatico, che sembra confermare quelle voci che lo danno prossimo alle dimissioni, con un paio di mesi d'anticipo sulla fine del suo mandato.
Gabriele Carrer
Conte cerca di scongiurare l’esodo. Ma la Trenta socchiude già i porti
Se fino a 36 ore fa si era avuta la sensazione che la preoccupazione di una parte del governo (la catena Conte-Di Maio-Moavero-Trenta) rispetto al pantano libico fosse quella di transennare e ingabbiare Salvini, ben più che quella di esprimere una linea univoca ed efficace, la giornata di ieri si è incaricata di confermare e aggravare l'impressione.
La spaccatura si è approfondita; rispetto al tema dei porti, si è perfino superata la soglia della provocazione verso il Viminale; e - per il resto - al di là di una raffica di incontri e contatti, l'impressione è quella di un'attesa passiva degli eventi, per non dire della contemplazione del disastro.
La giornata di ieri si era aperta con un'intervista di Luigi Di Maio al Corriere. Un paginone e tre bordate contro il leader leghista. La prima, una sorta di surreale ramanzina: «Ci vuole responsabilità, non è uno scherzo quello che sta succedendo. La Libia non può essere trattata come un tema da campagna elettorale, è un interesse strategico del nostro Paese». La seconda, un'inattesa dichiarazione filo-Macron («La Francia è un Paese amico»), abbastanza incongrua considerando l'evidente lavorio dell'Eliseo contro l'Italia e a favore di Haftar, e resa comunque poco credibile dalla recente gaffe in Francia del leader grillino (il suo incontro con l'ala estremista dei gilet gialli). La terza, una sconfessione della linea del Viminale sui porti: «Chiudere un porto è una misura occasionale, risultata efficace in alcuni casi quando abbiamo dovuto scuotere l'Ue, ma è pur sempre occasionale».
Poche ore, e, in totale sintonia con Di Maio, il ministro della Difesa Trenta ha peggiorato le cose, intervistata su Radio Capital: «Sono appena tornata da un viaggio nel Corno d'Africa, ero stata poco tempo prima in Niger: in questi Paesi abbiamo tassi di crescita demografica incredibili, il raddoppio della popolazione entro il 2030. Come pensiamo di poter gestire questo futuro con la chiusura dei porti? È impossibile, bisogna lavorare su una soluzione alternativa». E ancora: «Io credo che la diplomazia debba essere portata ai massimi livelli e che non sia utile sfruttare queste occasioni per fare politica, mentre è utile lavorare tutti nella stessa direzione per arrivare alla migliore soluzione possibile». E infine una sorta di avvertimento contro la linea di Salvini: «Se si dovesse arrivare a una guerra, non avremmo migranti, avremmo rifugiati: e i rifugiati si accolgono».
A entrambi Matteo Salvini ha risposto in modo ruvido: «Rispetto il collega Di Maio che si occupa di lavoro, ma sui temi del controllo dei confini e della criminalità organizzata sono io a decidere. Se Di Maio e la Trenta la pensano in modo diverso, lo dicano in Cdm e faremo una franca discussione. I porti con me rimangono indisponibili, chiusi e sigillati ai mercanti di esseri umani».
Tanto per ribadire la linea grillina e contraddire l'alleato leghista, a stretto giro di posta è intervenuto - senza alcun titolo per farlo - anche il presidente della Camera Roberto Fico: «I rifugiati non possono essere respinti: coloro che scappano da una guerra non possono essere respinti. Questo è il diritto internazionale, quindi mi sembra davvero scontato. È il diritto e così è».
Insomma, molta energia spesa dai 5 stelle per dire che occorrerà accogliere i rifugiati. Forse varrebbe la pena usarne altrettanta per impedire l'esito più catastrofico della crisi.
Su questo fronte, si segnalano i colloqui del premier Conte per un verso con Mohammed Al Thani, vicepremier del Qatar, e per altro verso con Ahmed Maitig, vicepresidente del Consiglio presidenziale libico, uomo forte di Misurata e avversario di Haftar.
«Ad Al Thani ho ribadito la nostra forte preoccupazione per questa deriva militare», ha detto Conte. «Auspichiamo un cessate il fuoco immediato. Dobbiamo scongiurare una crisi umanitaria che potrebbe preannunciarsi devastante non solo per le ricadute sull'Italia e dell'Ue ma nell'interesse delle stesse popolazioni libiche». Peccato che il Qatar, sponsor dell'esecutivo Serraj, non abbia influenza su Haftar: anzi, può essere percepito come una controparte.
Quanto a Maitig, la speranza di Conte è doppia: per un verso, che le sue milizie facciano argine all'avanzata delle truppe di Haftar; e per altro verso che Maitig costituisca un terzo elemento - auspicabilmente utile nella mediazione - rispetto al contrasto durissimo tra Haftar e Serraj. Basterà ad evitare il peggio e a ottenere che Haftar arretri?
Daniele Capezzone







