Il campo largo non vuole il premio di maggioranza. Meglio l’ingovernabilità
Sergio Mattarella (Ansa)
L’ufficio stampa del presidente definisce «priva di fondamento» l’indiscrezione sulla contrarietà del capo dello Stato a una nuova legge elettorale sotto elezioni. Intanto i giochi di palazzo per battere la Meloni con un «pareggio» e un governo tecnico continuano.
Mattarella smentisce. Con una nota dell’ufficio stampa, il Quirinale ha negato che il capo dello Stato sia intenzionato a «non permettere che si faccia una nuova legge elettorale a ridosso del voto». Gianfranco Rotondi, ex ministro per l’Attuazione del programma e oggi parlamentare di Fratelli d’Italia, aveva dato per certa l’opposizione del presidente della Repubblica, il quale si sarebbe espresso in tal senso durante un incontro con l’associazione degli ex onorevoli. La frase attribuita a Mattarella, ha precisato l’ufficio stampa del Colle con una nota inviata al Giornale, che per primo ne aveva parlato, è «totalmente priva di fondamento». Bene. Significa che una nuova legge elettorale, anche se si avvicinano le elezioni, si può fare.
Era bastato un accenno all’intenzione di mettere mano al sistema di voto perché le opposizioni si mettessero di traverso, decise a opporsi alla modifica del Rosatellum. Legge che nel 2017 Matteo Renzi fece approvare appena quattro mesi prima dell’apertura dei seggi, nella speranza che, modificando i collegi a misura di coalizione, il Pd riuscisse a fare il pieno di voti nel Mezzogiorno. Al contrario di quanto avevano immaginato al Nazareno, a raccogliere i frutti del nuovo sistema elettorale non furono però il Partito democratico o i suoi alleati, ma il Movimento 5 stelle, che nel Mezzogiorno, con la promessa del reddito di cittadinanza, fece il pieno di consensi e dunque anche di parlamentari. E a firmare la legge a ridosso del voto fu proprio Sergio Mattarella, che non obiettò alcunché nonostante mancassero poche settimane alla presentazione delle liste per il rinnovo del Parlamento. Dunque, fossero state vere le parole riferite da Gianfranco Rotondi, sarebbe stato ben strano. Infatti, ci sarebbe stato da chiedersi perché il Quirinale fosse deciso a impedire una riforma del sistema a un anno e mezzo dalle elezioni, quando otto anni fa lo stesso presidente della Repubblica non aveva avuto nulla da eccepire di fronte a una modifica del sistema a pochi mesi dalle elezioni. Due pesi e due misure? L’ufficio stampa di Mattarella però ha chiarito che lo scenario delineato da Rotondi non ha alcun fondamento. La legge elettorale dunque si può fare, anche se manca un anno e mezzo alle prossime elezioni.
Come avrete capito dalle reazioni isteriche delle opposizioni e dal nervosismo che serpeggia attorno alla questione, il tema di come si voterà è fondamentale non solo perché avrà effetti sulle elezioni, ma anche per capire se dalle urne uscirà una maggioranza stabile o meno. Come a una cena con alcuni sconosciuti ha ben spiegato Francesco Saverio Garofani, ovvero il collaboratore di Mattarella segretario del Consiglio supremo di difesa, per battere la Meloni non serve soltanto una leadership acchiappavoti, c’è bisogno anche della modifica alla legge elettorale. Ovviamente, essendo un ex Pd, Garofani, vorrebbe un sistema che favorisca la sua parte politica. Ma siccome è molto difficile che Giorgia Meloni faccia un regalo al centrosinistra, predisponendo un sistema che agevoli i compagni, l’opposizione rema contro e forse anche in alcuni uffici dei vertici della Repubblica c’è qualcuno che guarda con sospetto alle modifiche della legge elettorale. Le ragioni del fuoco di sbarramento sono tutte qui. Se si stoppa un nuovo sistema che ridisegni i collegi e consenta agli italiani di scegliere da chi farsi governare, la sinistra ha qualche speranza non di vincere, ma di ingolfare il sistema, ovvero di impedire che le elezioni diano una maggioranza precisa alla coalizione in vantaggio. Sapendo di non avere molte possibilità di sconfiggere Giorgia Meloni in quanto la maggioranza degli italiani vota centrodestra, qualcuno fra i compagni sogna un pareggio, così da consentire al capo dello Stato di scegliere un tecnico a cui affidare la guida di un esecutivo di unità nazionale. Sono decisioni che abbiamo già visto in passato e, come è noto, non ne è venuto nulla di buono, ma soltanto tasse e declino economico.
Le leggi elettorali degli ultimi 30 anni sono sempre state a ridosso del voto. Per cui sarebbe sembrato strano che solo ora il capo dello Stato le volesse impedire. Soprattutto, ancor più strana sembrerebbe una scelta che premiasse l’instabilità politica al posto della governabilità. Non avere una maggioranza chiara significa solo una cosa, ovvero che a decidere chi debba guidare il Paese non sarebbero gli italiani, ma quella parte politica che, pur essendo minoranza, prova ogni gioco di prestigio e ogni scorrettezza pur di aggiudicarsi anche senza voti Palazzo Chigi.
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Gianfranco Rotondi (Ansa)
L’ex ministro: «In Transatlantico se ne parla, il momento della riforma è questo».
Chi frequenta il cosiddetto Transatlantico, ovvero il lungo corridoio che dà accesso all’aula di Montecitorio, sa bene che in quell’area off limits, dal cortile alla buvette, passando dai divanetti della galleria dei presidenti, se ne dicono di cotte e di crude. Quel posto assomiglia a un mercato di quartiere dove, seduti sulle poltrone color rosso fegato, davanti a un caffè o fumando una sigaretta, parlamentari e giornalisti adorano scambiarsi battute, indiscrezioni e pettegolezzi. Alcuni veri, altri verosimili.
Un retroscenista esperto come Augusto Minzolini, editorialista del Giornale ed ex senatore di Forza Italia, sa quello che dice. Per questo le parole dell’onorevole di Verde è Popolare, Gianfranco Rotondi, non possono essere state fraintese. Durante un incontro con l’associazione ex parlamentari, racconta Rotondi, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si sarebbe lasciato sfuggire un commento del tipo «non permetterò che si faccia una legge elettorale a ridosso del voto. Abbiamo avuto l’esperienza del Mattarellum, che fu approvato poco prima delle elezioni, e diversi partiti arrivarono alle urne impreparati. Bisogna dare il tempo alle forze politiche di organizzarsi». Secondo Rotondi, invitato a chiarire, si tratta di «una banalità», che tutti sanno, ma a rifletterci bene nessuna parola detta da un capo dello Stato può considerarsi banale o sparata a caso.
Rotondi conferma tutto e ammette candidamente di aver riportato solo «una voce da Transatlantico»: «Mattarella difficilmente potrebbe gradire un’iniziativa di riforma elettorale a ridosso del voto», spiega Rotondi. «Se nuova legge elettorale deve essere, il tempo è ora, e non ci vuole Mattarella per arrivare a questa conclusione. Tirarlo per la giacca è un esercizio inutile per tutti, indossa giacche molto elastiche».
Nessuno può negare il fatto che il Quirinale stia ragionando sul successore di Mattarella, preparando il terreno più fertile possibile. I recenti fatti del consigliere di fiducia del presidente, Francesco Saverio Garofani, che auspicava un «provvidenziale scossone» e la nascita di una lista civica nazionale delle forze di sinistra, in funzione anti Meloni, ne sono la prova. Dopo quella figuraccia, che non pochi grattacapi ha provocato all’inquilino del Colle più alto di Roma, appena 13 giorni dopo salta fuori quest’altra confidenza. E, naturalmente, il Quirinale si affretta a smentire anche questa notizia, esattamente come aveva fatto con quella di Garofani definendola «ridicola», poi però dimostratasi vera.
Anche la rivelazione spiattellata da Rotondi è credibile per molteplici aspetti. Non rappresenta un segreto il fatto che il premier, Giorgia Meloni, voglia al più presto cambiare l’attuale legge elettorale. L’idea è anzi quella di accelerare e presentare un testo già a inizio anno. Questo perché se le opposizioni si ricompattassero davvero, l’esito delle Politiche sarebbe un sostanziale pareggio, con conseguente rischio di ingovernabilità. Ma come era già prevedibile la Meloni non avrà nel Colle un alleato. Anzi, scopriamo adesso che potrebbe essere addirittura un intralcio. Mattarella non vuole che si ripeta l’errore del Mattarellum, ovvero la sua creatura, quando, approvata nel 1993, entrò in vigore sei mesi prima del voto, consentendo a Silvio Berlusconi di vincere. Ma non è l’unica legge a essere stata varata a ridosso delle urne. Il Porcellum di Roberto Calderoli venne votato a Natale 2005 e adottato ad aprile 2006. Il Rosatellum dell’ex renziano Ettore Rosato, votato ad ottobre 2017 e usato a marzo 2018. In quel caso fu proprio Mattarella a promulgare la legge, a quattro mesi dal voto, lo stesso presidente che oggi si opporrebbe, pur mancando alle elezioni un anno e mezzo. Sarà mica perché la nuova legge elettorale voluta dalla Meloni formerebbe la nuova maggioranza che nel 2029 eleggerebbe il nuovo presidente della Repubblica?
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Ettore Rosato (Ansa)
La quota proporzionale era già un pasticcio, ma col taglio dei parlamentari si rischia un effetto ancor più paradossale: non capire chi si elegge (e nemmeno in quale collegio).
Università di Verona
Votiamo per la seconda volta con il Rosatellum, ma per la prima volta con un Parlamento di soli 400 deputati e 200 senatori. Si tratta di un sistema misto, in cui circa il 60% dei deputati è eletto con il proporzionale a lista chiusa (245 seggi) e quasi il 40% (151) con il maggioritario. A questi si aggiungono i quattro eletti all’estero. Per il meccanismo di attribuzione dei 245 seggi nel proporzionale non si è scelta una distribuzione a livello di collegio, ma si è preferito attribuire tali seggi a livello nazionale e poi «calare» questa attribuzione nelle 28 circoscrizioni prima, e successivamente nei 49 collegi plurinominali. E qui diventa tutto molto complicato.
In ciascuna di queste circoscrizioni vengono eletti da uno (Molise) a otto (Calabria, ma non solo) deputati. Circoscrizioni piccole avvicinano (potenzialmente) eletti ed elettori: un milanese potrà sapere qual è il deputato del suo partito eletto nel suo collegio e «tenerlo d’occhio» durante la legislatura. È intuitivo capire che un partito che ottiene il 25% dei voti otterrà grossomodo il 25% dei seggi a livello nazionale; è invece molto arduo capire chi saranno i tre deputati eletti in Basilicata o dove saranno eletti i 20 deputati di Azione o di Forza Italia. Già nel 2018 sapevamo di questa erraticità nell’assegnazione dei seggi, ma la diminuzione del numero di parlamentari (e quindi del numero di seggi in palio ciascun collegio) ha esacerbato la situazione.
Per prima cosa, il meccanismo di distribuzione proporzionale dei seggi è il cosiddetto «metodo Hare». Esempio: ci sono 15 elettori che devono eleggere 5 deputati. Questo implica che ogni partito riceverà un deputato ogni tre voti. Immaginiamo di avere tre partiti: il partito A riceve 8 voti, il B ne riceve 3 e C 4. Assegniamo quindi un deputato ogni tre voti, e ci ritroviamo con due seggi al partito A (8 voti), un seggio al partito B (3 voti) e un seggio al partito C (4 voti). Ci accorgiamo quindi che abbiamo distribuito solo quattro seggi; l’ultimo lo diamo al partito che ha più voti «avanzati», in questo caso A. Il quale ha avuto un po’ più seggi del dovuto (grazie ai resti), mentre B ha avuto esattamente il numero di seggi spettanti, e il partito C ha avuto un po’ meno seggi del dovuto (a causa di un «resto» troppo basso). Questa operazione viene effettuata sui voti dei singoli partiti a livello nazionale per distribuire i 245 seggi tra le liste a livello nazionale. Per calare questi seggi a livello locale, viene poi ripetuta a ogni circoscrizione.
Il problema è che, proprio per questi giochi di resti, il conteggio a livello di circoscrizione potrebbe assegnare a un partito più (o meno) seggi di quelli spettanti secondo il conteggio nazionale. Ci ritroviamo quindi con partiti «eccedentari» («troppi» seggi assegnati nel conteggio circoscrizionale) e partiti «deficitari» (l’opposto). Qui partono i bizantinismi. La commissione elettorale dovrà individuare circoscrizioni in cui il partito eccedentario ha ricevuto l’ultimo seggio grazie a un «resto» (come il partito A nel nostro esempio) e il partito deficitario ha invece un «resto inutilizzato» (come il partito C dell’esempio). Questa «corrispondenza di amorosi sensi» avverrà solo in alcune circoscrizioni; tra queste, si sceglierà la circoscrizione in cui il «resto utilizzato» del partito eccedentario è più piccolo, e finalmente parte lo scambio: il partito eccedentario cederà un seggio a quello deficitario. L’operazione è ripetuta fino a che tutti i partiti non abbiano ottenuto i seggi spettanti secondo il riparto nazionale.
Questo processo è compiuto due volte: una prima volta per calare i seggi dal livello nazionale alle 28 circoscrizioni, e una seconda volta (con meccanismi peraltro leggermente diversi) sui 49 collegi plurinominali. Il risultato? È difficilissimo prevedere chi verrà eletto dove. Questa imprevedibilità è ancora maggiore per i partiti più piccoli: ad esempio Liberi e uguali nel 2018 ha ottenuto 14 seggi per la parte proporzionale, ma non ha eletto alcun deputato nel collegio in cui ha ottenuto il risultato migliore (6,4% in Basilicata, terra del ministro uscente Roberto Speranza).
Il meccanismo di ripartizione nasconde ulteriori effetti perversi. Guardiamo alle elezioni del 2018 utilizzando i nuovi collegi elettorali, e proviamo a capire cosa succederebbe se, ceteris paribus, gli elettori milanesi della Lega iniziassero a virare verso Fratelli d’Italia. Sarebbe ragionevole aspettarsi che Fdi vedesse aumentare i propri eletti a Milano, a discapito della Lega. L’effetto invece è paradossale. Prendendo come punto di partenza le elezioni del 2018, se 15.000 leghisti milanesi cambiassero idea e votassero Fdi, il partito otterrebbe un seggio in più a… Cagliari, togliendolo a Forza Italia (i cui voti nel nostro esempio sono rimasti come detto invariati). Il partito del Cavaliere guadagnerebbe però un seggio in… Basilicata, togliendolo alla Lega. Lo sbattere d’ali di qualche elettore leghista a Milano ha creato due piccoli uragani a Cagliari e Potenza, colpendo per sbaglio anche Forza Italia, semplice «spettatrice» di questo scontro. La cosa sconcertante è che gli elettori di Milano con il loro voto possono non contribuire all’elezione dei candidati nella propria circoscrizione, e quindi non hanno modo di utilizzare la loro matita per punire o premiare chi gli è messo di fronte. Non solo: il candidato locale non ha alcun incentivo reale a cercarsi voti nel collegio, se a trarne beneficio saranno candidati di chissà quale parte d’Italia. Da ultimo, tutto ciò rende complicato per i partiti selezionare la classe dirigente: il rischio è trovarsi i riempilista in Parlamento e i quadri di partito a spasso. Questo sistema, nella sua parte proporzionale, rende perciò più ancor distanti eletti ed elettori, restituendo risultati al limite della casualità.
Non è la prima volta: lo scorporo del Mattarellum (poi bypassato maldestramente dalle «liste civetta»), il premio di maggioranza del Porcellum e il meccanismo di sbarramenti e assegnazione dei seggi nel Rosatellum sono esenti tutto sommato simili di come evitare accuratamente un sistema lineare.
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Enrico Letta (Ansa)
Il campo largo è destinato al fallimento, Enrico Letta ne è consapevole e allora punta sul cambio della legge elettorale. I giornaloni si accodano subito e il tema diventa il primo in agenda, alla faccia dei problemi veri: inflazione, guerra e fabbisogno energetico.
All’improvviso sei arrivata tu. Non so chi l’ha deciso, mi ha preso sempre più. Una quotidiana guerra con la razionalità. Ci vorrebbe la canzone di Max Pezzali (883) per raccontare questo nuovo folle innamoramento del palazzo per l’oggetto del desiderio di ogni Parlamento in via di sepoltura: la legge elettorale. Per quanto possa sembrare strano, per la politica è il tema del giorno. Della guerra in Ucraina come volevasi dimostrare non frega più niente a nessuno. L’emergenza climatica ha già stancato. Sulla crisi economica non sanno che cosa dire. E così non si trova niente di meglio che rilanciare il tema più appassionante che ci sia: Rosatellum o no? Maggioritario o proporzionale? Liste bloccate? Coalizioni primo o dopo il voto? «Il dibattito entra nel vivo», scrive euforico il Corriere della Sera. «Il dialogo è ripreso», conferma La Stampa. E tutti i quotidiani s’entusiasmano: «La notizia agita il Parlamento», «Riapre il cantiere», «si auspica un’ampia discussione» ovviamente capace di «coinvolgere tutte le forze». Immaginiamo che questo innamoramento sia condiviso dagli italiani, che sicuramente non vedevano l’ora di conoscere il pensiero dei partiti sull’argomento. Come spiega sul Qn, in modo definitivo, il cerimoniere di Palazzo, Bruno Vespa: «Legge elettorale? È ora di parlarne». Punto. È ora di parlarne. Altro che bollette e prezzi che aumentano. È ora di parlare di clausola di sbarramento e premio di maggioranza. Così hanno deciso, la seduta è tolta.
Il segretario del Pd Enrico Letta, per dire, è a Aix en Provence per un importante incontro sull’economia. E trova il tempo per rispondere al telefono al Foglio. Per affrontare il tema dell’inflazione? Dei prezzi? Del gas? Della benzina? Dei nuovi poveri? No, fra la crisi economica, l’orrore per l’omicidio di Shinzo Abe e la guerra in Ucraina, come sottolinea il medesimo quotidiano, Letta sceglie di commentare la legge elettorale. Ovvio: è più importante. «Noi siamo determinati a cambiarla», dice il segretario Pd. Determinati. Del resto i leader politici sono così: quando ci sono le cose fondamentali scoprono all’improvviso la determinazione. Mica come sui tagli delle tasse che sono tutti sor Tentenna. No. Sulla legge elettorale sono determinati. Così determinati che sono «disposti a parlare con tutti», come precisa ancora Letta, aggiungendo che si sono accorti (evidentemente all’improvviso, proprio come nella canzone di Max Pezzali) che «quella che abbiamo è la peggior legge elettorale possibile». Se ne sono accorti ora, ecco. Perciò bisogna fare in fretta. Impegnarsi molto. Subito. «Il mese di luglio è decisivo». Decisivo per vedere quante aziende sopravviveranno al massacro d’autunno? No, decisivo per vedere quanti partiti sopravviveranno alle elezioni di primavera.
In effetti questa improvvisa passione per la legge elettorale da parte del Pd nasce da una profonda motivazione ideale: non sanno come fare dal momento che il progetto del campo largo si è trasformato rapidamente nel progetto di un camposanto. Tramontata l’idea della coalizione allargata, infatti, il segretario Letta si è trovato spiazzato. Come salvare la ghirba? Ovvio: mettendo mano alla legge elettorale. Che fino a ieri (con il campo largo) andava benissimo, oggi invece diventa «pessima», come da nota ufficiale del duo Malpezzi-Serracchiani. «È importante cambiarla», dicono. Ovvio. Ma importante per chi? Non certo per i cittadini. Di sicuro per il Pd. E chi altro? Dovendo cercare alleati per questa riforma fondamentale per il futuro del Paese, il Pd a chi guarda? A chi si sente improvvisamente vicino? A chi chiede collaborazione? Sorpresa: alla Lega. Motivazioni di principio? Condivisioni ideali? Vicinanza di vedute? Macché: siccome la Lega, stando agli attuali sondaggi, avrebbe meno voti di Fratelli d’Italia, al Pd pensano che a Salvini potrebbe interessare cambiare legge e far saltare anche la coalizione di centrodestra, esattamente come è saltato il campo largo. Capite come passano le giornate i leader politici? Capite la profondità e la generosità dei loro pensieri? E capite perché poi con un sistema elettorale o con l’altro gli italiani non li votano più?
Su Repubblica il vicedirettore Stefano Cappellini lo spiega in modo chiaro: «Perché Salvini vuole tenersi una legge elettorale che lo obbliga ad allearsi con una Meloni, ormai largamente avanti con i voti e dunque, in caso di vittoria del centrodestra, a consegnare a lei Palazzo Chigi e a lui il ruolo di vassallo?». Già: perché dovrebbe? Se lo facesse sarebbe un «errore tattico». Per evitare il quale, dicono i bene informati sarebbero già al lavoro, fianco a fianco, gli esperti della materia, i senatori Dario Parrini del Pd e Roberto Calderoli della Lega. Allo studio una nuova forma alchemica per mandare tutti al voto in modo sparpagliato (con il proporzionale) e dare il premio di maggioranza alle coalizione che si formano dopo il voto. Per tentare Salvini lo stuzzicano in tutti i modi: non vorrai mica fare il «minor party della Meloni»?, gli chiede per esempio Matteo Ricci (Pd). «Salvini il ministro della Meloni», titola Repubblica. Mentre lunedì sera si tiene un convegno della Fondazione Astrid, coordinata da Franco Bassanini, sul tema: «Rosatellum o nuova legge elettorale?». Roba forte, insomma.
Non sappiamo come proseguirà l’avvincente dibattito nelle prossime ore. Ma già solo il fatto che nel palazzo, dove si dovrebbero risolvere i problemi degli italiani, si pensi soltanto a risolvere i problemi dei partiti (e delle relative seggiole), è piuttosto irritante. Tanto più che non si capisce come mai in Italia si scopre sempre che una legge elettorale fa schifo quando si arriva a pochi mesi dalle elezioni. Questo è il sistema più sicuro per non avere mai un sistema che fa il bene del Paese, ma solo un sistema che tutela i meschini interessi del momento. Se proprio si deve discutere di legge elettorale perché il Parlamento non ne discute a inizio legislatura? Se davvero i leader politici hanno a cuore la stabilità, la rappresentanza e la democrazia, come dicono (e non i giochetti di potere), perché non si mettono d’accordo quando le urne e i relativi calcoli sono lontani? Perché si fanno cogliere da raptus amorosi proprio alla vigilia del voto? Non so chi l’ha deciso, proprio come cantava Max Pezzali. Ma sembra davvero una quotidiana guerra con la razionalità. E, a dirla tutta, anche con la dignità.
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