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Nella quarta puntata di Rovescio, Giorgia Pacione Di Bello affronta con l'avvocato Pietro Frisani di Difendimi.com e il giornalista Tobia De Stefano alcuni recenti casi di mancata o inadeguata sicurezza sul lavoro.
Giuseppe De Rita (Imagoeconomica)
L’analisi del patron del Censis: «Il populismo dei 5 stelle ha distrutto il sistema di relazioni che ci ha fatto sviluppare come società moderna. Abbiamo paura a far figli. Le foto dell’economia emersa instillano ottimismo ma i segnali del sommerso mi preoccupano».
Giuseppe De Rita ha 92 anni. Lucidissimo da far invidia. Otto figli, quest’anno il signore dei numeri che hanno raccontato e raccontano l’Italia festeggia i 60 anni della sua creatura, osservatorio e laboratorio di ciò che si muove nel ventre molle del Paese: il Censis.
«Siamo nati a metà degli anni ‘50 nella Svimez, associazione privata per lo sviluppo del Mezzogiorno».
Ambiente?
«L’aveva creata nel ‘47 Rodolfo Morandi, un socialista più “avanzato” di Nenni. Ambiente laico. A metà degli Anni ‘50 Giorgio Ceriani Sebregondi volle una sezione sociologica. Avevo una venerazione per lui. Era conte, aveva fatto la Resistenza e veniva dal giro dei catto-comunisti che di comunista non avevano nulla e avevano lasciato il Pci».
Un’idea rivoluzionaria.
«Sì. La prima cattedra di Sociologia in Italia è del ‘62, quella di (Franco) Ferrarotti. Venni assunto nel ‘55».
Anni?
«Ventitré, fresco di laurea in Giurisprudenza. L’idea era che, dopo aver fatto il Piano Vanoni e il piano per il Mezzogiorno, pensato a industrie e infrastrutture, ci occupassimo di sociale. Per cominciare scuola, analfabetismo eccetera. Giravo il Sud come una trottola».
Era l’Africa che si diceva?
«In parte sì. Ricordo ancora l’Aspromonte».
Che cosa aveva trovato?
«Niente, perché l’atteggiamento era: noi non vogliamo parlare. C’era il problema dell’incesto».
Era così diffuso?
«Allora sì. A Brindisi invece trovammo un porto e una classe dirigente che funzionavano perfettamente».
Il Censis nasce?
«Alla fine del ‘63 la Svimez non ce la faceva più a reggere la sezione sociologica, ormai con 14 dipendenti. Fu preannunciato il licenziamento di tutti, tranne del sottoscritto. Ma io avevo in mano contratti con le aziende, con la Cassa del Mezzogiorno per 30 milioni di lire. Ce ne servivano 61 per sopravvivere. Decidemmo di continuare da soli. A novembre del ‘63 siamo dal notaio, il 1° gennaio del ‘64 il Censis comincia ad operare».
E che Italia racconta?
«Il primo rapporto è del ‘67. Ne veniva fuori l’Italia dei diritti e dell’autonomia. Nasciamo come difensori dei diritti: il diritto all’impresa, il diritto al lavoro, il diritto all’aumento del lavoro individuale, la piccola impresa, l’artigianato. Ci chiamavano gli “autonomi bianchi”. Ha presente gli autonomi degli Anni ‘70? Be’, noi condividevamo gli stessi principi di innovazione, soggettività, personalizzazione della vita: loro da un punto di vista rosso, noi cattolico».
Addirittura?
«Una parte della Dc ci guardava male, ci ritenevano dei socialisti travestiti. Era un’Italia che viveva un grande risveglio».
Invece quella del 2023 l’avete chiamata l’Italia dei «sonnambuli»: non vede, non sente, non parla davanti ai rischi enormi e però è spaventata di tutto.
«Vede, la nostra fortuna è stata quella di andare a leggere il sommerso. A metà degli anni ‘70 l’emerso era di un pessimismo fottuto: la crisi del petrolio, il terrorismo, le aziende americane che scappavano. Noi siamo andati tra gli “stracciaroli” - come li chiamava Gianni Agnelli - di Prato, a Sassuolo e trovavamo ricchezza, impresa, un orgoglio individuale e collettivo enorme. Adesso il problema è l’opposto…».
Cioè?
«L’emerso dà l’idea che tutto sommato le cose vanno. L’occupazione in qualche modo tiene, il Pil in fondo regge».
E invece?
«Invece nel sommerso c’è questa debolezza demografica enorme. Che non è solo l’“Italia invecchia”».
Dall’ultimo rapporto Censis: nel 2050 ci saranno 8 milioni di persone in meno in età lavorativa, una minoranza - il 25% - di famiglie con figli. Spaventoso.
«Sì, è preoccupante. Nasce da meccanismi sommersi per cui non ci sposiamo, non ci prendiamo la responsabilità della famiglia, abbiamo paura a far figli. Per la mia generazione il clic fondamentale è l’americanizzazione dell’Italia, l’edonismo americano. La cultura americana è la cultura dell’individuo, dell’eroe, del far west. Parte da lontano, dall’aver inoculato il germe dell’individualismo nella cultura italiana che è sì individuale ma anche collettiva, famigliare, localistica. Questo primato della soggettività, dell’emozione individuale ce lo siamo messi dentro e lentamente ha corroso tutto il resto della coesione».
Magari c’entra il fatto - come avete denunciato più volte - che gli stipendi in Italia sono fermi da 30 anni, in Francia, Germania, Regno Unito sono cresciuti del 35-40%.
«Sì, anche. Ma non è il fattore determinante. Se ci fosse questo impoverimento generalizzato, questa precarietà strisciante un po’ di conflittualità ci sarebbe. Invece non c’è».
Perché la politica continua a non ascoltare i vostri allarmi?
«La politica oggi è prigioniera del fattore che la crea, cioè l’opinione. L’attuale presidente del Consiglio è figlia non di un modo di essere delle forze sociali e politiche ma dell’opinione che ha creato di se stessa: io sono Giorgia… Il politico il consenso lo cerca sull’ondata dell’opinione. C’è il femminicidio? E io mi butto sul femminicidio. C’è la guerra? E io mi schiero. Che gli frega dei problemi strutturali e di quello che succederà nel 2050. E’ il mondo dei like, del talk».
Forse non c’è conflitto perché non c’è più una rappresentanza che gli dia voce.
«La soggettività spinta ad oltranza porta alla rottura della relazione, l’altro non conta».
Sui social gli altri contano solo come specchio del nostro narcisismo.
«Appunto. La tragedia del populismo italiano è che ha coinciso con la rottura della relazione. Il grillismo, l’ondata di “vaffanculo” ha rotto il sistema della relazione. Ma è il sistema della relazione che crea le Prato, le Sassuolo, la solidarietà di gruppo, il volontariato, una società moderna. Il vaffa è stato una tragedia, ma nessuno lo ha capito».
L’incontro ha tracimato. Ora di pranzo. Il presidente del Censis si accende il primo mezzo toscano della giornata. «Ho cominciato a 65 anni, mai fumato prima».
E quindi?
«Dal sommerso arrivano solo preoccupazioni, lo abbiamo visto. Ma questa è una società che sa evolvere, senza mai capire come. Confido nell’abbandono al divenire dell’italiano medio. Il divenire collettivo non ci ha mai spaventato». Pausa. «Ma io un po’ di conflittualità la vedrei bene».
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Riduci
Dal gestore di B&B abusivi all’infermiera a domicilio, dai badanti irregolari al buttafuori cash, dal custode clandestino all’estetista imparentata col politico grillino. Storie dei «furbi» che fregano gli onesti. Due volte.
«Per carità, solo black». A un certo punto a Napoli sembrava quasi un’offesa offrire un contratto. «Ma per chi mi hai preso? Non se ne parla proprio, e poi col Reddito come faccio? Se vuoi solo black». Solo «nero». Come il buco nei conti dello Stato provocato dalla card distribuita un po’ a tutti, senza controlli, e, soprattutto, senza una logica. I finti disoccupati sono l’altra faccia del disastro Rdc. Migliaia e migliaia di lavoratori che hanno continuato a incassare gli stipendi sottobanco senza rinunciare alla delizia della generosità dello Stato. Talvolta ingegnandosi come un Archimede per trovare la leva con cui (ri)sollevare il proprio bilancio.
Qualcuno l’ha presa poi addirittura come una sfida. «Mi sto vendicando dello Stato, qual è il problema?», disse ad esempio una aspirante reginetta di TikTok dei rioni popolari che reclamava il diritto del marito a fregare l’Inps. «Io tengo le capacità, quelle che non avete voi... fatelo se ci riuscite...», aizzava le folle, «io non ci posso fare niente, mi spiace per chi guadagna poco o per chi sta messo a posto e paga le tasse». E non si riferiva certo a quell’altro influencer partenopeo denunciato dalla guardia di finanza per aver nascosto al fisco oltre 150.000 euro ottenuti nel biennio pandemico 2020-2021 vendendo, sulle piattaforme online, video e foto delle sue performance. Anche lui aveva in tasca il Reddito. Ma questo non l’aveva mica sbandierato sul Web.
Scoprire casi del genere non è nemmeno difficile, a dire il vero. Basta girare un po’, bazzicare soprattutto i Caf che sono una fucina sempre in funzione di istanze e rivendicazioni. Spesso sono gli stessi percettori ad ammetterlo candidamente. Un po’ Robin Hood, un po’ Banda Bassotti.
Loredana, detta Lorella, gestisce due B&B abusivi nel centro di Napoli. Separata con un figlio, vive in una casa messa a disposizione dalla famiglia dell’ex compagno. Quando le va male, ci riferisce una fonte che la conosce bene, porta a casa non meno di 2.000 euro al mese. Questo non le impedisce di avere diritto a un assegno Inps di altri 400 euro.
Cira, invece, è infermiera a domicilio. Per ogni siringa si fa pagare 15 euro. Con due figli e un appartamento in affitto a Casoria, ha ottenuto dall’Ente previdenziale un assegno di 700 euro. In nero, ne guadagna quasi il triplo: 1.800.
Restiamo sempre in ambito socio-sanitario: Giovanna e Matteo sono sposati da oltre quarant’anni e viaggiano per la settantina. Sono specializzati nell’assistenza agli anziani e ai malati allettati. Insieme, mettono assieme circa 2.500 euro al mese. Ma l’Inps non lo sa e gliene versa altri 1.300 di sussidio. E che dire di Carmine? Custode semi-ufficiale, direbbe Totò, di un parco residenziale, nel quartiere Vomero. Ha iniziato venti anni fa come aiuto giardiniere poi è stato promosso portinaio (abusivo) a tutti gli effetti. Oggi ha una casa in comodato d’uso e guadagna 1.200 euro in nero di «salario». Volendo, potrebbe addirittura ambire a una regolarizzazione ma il Rdc gli assicura un’entrata extra di altri 600 euro. Perché rinunciare?
Così la pensa anche Michele, un passato da poliziotto, che in estate fa il buttafuori nelle discoteche della Penisola Sorrentina e, in inverno, lavora nel pub della (ex) moglie. Tutto rigorosamente aumm aumm, come si dice. Per lui una card gialla da 700 euro al mese. Quasi la stessa cifra (600 euro) riconosciuta a due «impiegate» di una gioielleria di Castellammare di Stabia, l’ex Stalingrado del Sud, impegnate full time sei giorni a settimana per 800 euro al mese.
Sempre nella provincia Sud ci siamo imbattuti nella storia di tre «dipendenti» di un garage-autolavaggio. Uno di loro gestisce con il cognato pure una rivendita di bibite che rifornisce bar e ristoranti sul litorale del Miglio d’Oro. Non siamo riusciti a fargli i conti in tasca, ma un indizio ci fa nascere il sospetto che non se la passi tanto male. In famiglia lo chiamano «Berlusconi».
Di più miti pretese è invece l’architetto che opera come amministratore di condominio in un paesino del Vesuviano. Il suo sussidio è di 700 euro ma l’attività libero professionale gliene porta in dote altri 1.200. Ufficialmente è nullatenente. Qualche maligno sostiene però che la figlia di 23 anni si sia intestata, suo conto, auto, motorino e monolocale, affittato a una famiglia del Bangladesh. D’altronde si sa: i panni sporchi vanno lavati in famiglia.
E, a proposito di bucato, come non citare l’addetta alla manutenzione dei macchinari di una lavanderia industriale che, tra Rdc e «salario», porta a casa oltre 1.300 euro? Un bonifico gratuito è un piatto troppo ghiotto per rinunciarvi così a cuor leggero. Come ben sa quel ristoratore di Bacoli che, nel suo bel locale affacciato sul mare, là dove un tempo erano all’ancora le navi imperiali care a Plinio il Vecchio, ha «assunto» la (ex) fidanzata, trasferitasi per finta in un’altra città con sussidio mensile di 500 euro.
E se tutto il mondo è paese, pure nel villaggio globale spuntano i furbetti del Reddito. Come Nino, esperto di Web marketing. Lavora come social media manager per due aziende di abbigliamento, gestendone i profili social e le piattaforme di e-commerce. Di suo ci aggiunge anche un proprio canale di vendita di libri scolastici usati online. Chi lo conosce bene, giura che i 600 euro dell’Inps sono poca cosa rispetto agli incassi unofficial. A Mimmo, invece, un tempo autista di un politico di centrodestra, è andata peggio: sulla sua card arrivano solo 400 euro. In compenso però fa il metronotte per conto di un’associazione di commercianti che a lui ha affidato la sicurezza di una decina di negozi.
Quasi nessuno di loro ha paura di essere scoperto. «Bisogna essere molto sfortunati o molto stupidi», è la convinzione. La speranza è invece la statistica. Invocano la protezione dei grandi numeri. «Controllare tutti è impossibile, qualcuno sfuggirà sempre alla rete». Né si troverà chi è pronto alla denuncia. Ci sono categorie che sono completamente invisibili all’erario, spalleggiate come sono dai clienti. Secondo la stima di un Caf, interpellato dalla Verità, tra la Sanità e Forcella, i rioni popolosi e popolari del centro storico di Napoli, ci sarebbero almeno quaranta artigiani (idraulici, falegnami, vetrai ed elettricisti) che continuano tranquillamente a «fare il black» senza che l’Istituto di previdenza sospetti alcunché. «Se non lo prendiamo noi il Reddito di cittadinanza, lo farà qualcun altro», è la giustificazione.
Il bonifico ti fa bello. Lo ha sperimentato anche Elena che fa l’estetista a domicilio. Quando le va male, riesce a mettere assieme non meno di 1.500 euro. Altri 600 glieli fornisce lo Stato. Sui social difende a spada tratta il provvedimento varato dal governo Conte. Elena è imparentata con un politico grillino.
What else?
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- I dati della Cgia di Mestre: misura insostenibile per le imprese. E su previdenza e donne al via gli incontri governo-sindacati.
- La proposta di legge di Marta Schifone (Fdi): un tetto per le azioni di responsabilità a carico dei sindaci delle società. Il plauso dei commercialisti: giusta forma di tutela.
Lo speciale contiene due articoli.
Il salario minimo favorisce il lavoro nero. A dirlo è la Cgia di Mestre secondo cui minimi tabellari sono molto inferiori alla soglia proposta dal disegno di legge presentato nei giorni scorsi alla Camera. In parole povere, con l’introduzione di una tariffa oraria minima le aziende finirebbero per pagare i loro lavoratori in modo irregolare piuttosto che pagare nove euro ogni sessanta minuti di lavoro.
Il punto, spiega in una nota la più rappresentativa organizzazione italiana dell’artigianato e della micro e piccola impresa, è che vi sono comparti spesso «fiaccati da una concorrenza sleale molto aggressiva praticata dalle realtà che da sempre lavorano completamente in nero. Stiamo parlando dell’agricoltura, del lavoro domestico e di alcuni comparti presenti nei servizi. In altre parole, non è da escludere che molti imprenditori, costretti ad aggiustare all’insù i minimi salariali, potrebbero essere tentati a licenziare o a ridurre l’orario ad alcuni dei propri dipendenti, “costringendoli” comunque a lavorare lo stesso, ma in nero. L’adozione di questa “contromisura” consentirebbe a molte attività di contenere i costi e di non scivolare fuori mercato». Il problema sarebbe, inoltre, molto più evidente al Sud, area che già oggi «conta una economia sommersa molto diffusa, con una incidenza che sfiora il 38% di tutti gli occupati non regolari presenti in Italia (in termini assoluti 1,1 milioni di persone su un totale di 2,9)».
La Cgia propone quindi di adottare il salario minimo da nove euro l’ora solo nel caso in cui “al trattamento economico minimo, ovvero i minimi tabellari previsti dai singoli contratti collettivi nazionali, si aggiungano le voci che compongono la retribuzione differita. Elementi questi ultimi presenti nel contratto collettivo nazionale che costituiscono il cosiddetto trattamento economico complessivo». Come spiega la Cgia, «i ratei delle principali voci da sommare al trattamento economico minimo per ottenere il salario minimo orario lordo sarebbero: bilateralità; fringe benefit (buoni pasto, auto aziendale, cellulare aziendale, voucher, borse di studio, etc.); indennità (trasferta, lavoro notturno, lavoro festivo, etc.); premi; scatti di anzianità; tredicesima; quattordicesima; trattamento di fine rapporto e welfare aziendale». Ci sarebbe poi un altro problema da tenere in considerazione: quello degli apprendisti.
«Gli ultimi dati disponibili resi noti dall’Istat, segnalano che in Italia ci sono tra i 650 e i 700.000 apprendisti», spiega la Cgia, «vale a dire giovani assunti con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione giovanile. La durata del contratto varia in ragione della tipologia dello stesso: mediamente oscilla tra i tre e i cinque anni. In linea generale, inoltre, la retribuzione mensile di un apprendista si aggira attorno agli 800 euro netti. L’importo è basso perché risponde alla filosofia di questo istituto che, introdotto nel 1955, è rivolto a under 30 che entrano nel mercato di lavoro senza alcuna esperienza lavorativa e al termine di questo percorso, grazie all’attività di tutoraggio realizzata dall’azienda che li ospita, acquisiscono una professione. Per contro, l’investimento realizzato dall’imprenditore viene “premiato” con la possibilità di beneficiare di un forte abbattimento del costo del lavoro».
Solo che, come spiega sempre la Cgia, «è evidente che se agli apprendisti neoassunti la retribuzione minima oraria fosse innalzata a nove euro lordi, nel giro di qualche anno registreremo un crollo dell’utilizzo di questo contratto. Per le imprese, infatti, assumere un giovane alle prime armi senza alcuna esperienza alle spalle con un contratto di apprendistato non sarebbe più conveniente».
La Cgia cita inoltre l’Inps «il numero di coloro che in Italia non raggiungono il salario minimo, così come previsto dal ddl presentato nei giorni scorsi dai partiti dell’opposizione, è di 1,9 milioni. Se a questi sottraiamo i 205.000 apprendisti che a nostro avviso non devono essere coinvolti da questo provvedimento, la platea dei lavoratori “poveri” si riduce a 1,7 milioni». In più, sempre considerando i dati Inps, «i dipendenti interessati dal salario minimo per legge godrebbero di 3,3 miliardi di reddito in più. Le imprese, invece, dovrebbero sostenere un costo aggiuntivo di almeno 4,6 miliardi, mentre per le casse dello Stato l’aumento delle retribuzioni comporterebbe un incremento del gettito Irpef e di quello contributivo pari a 1,5 miliardi di euro. Questi dati, comunque, sono sottostimati; gli importi appena citati sono stati stimati dall’Inps prendendo come riferimento una retribuzione oraria minima di 8 euro», spiega l’associazione.
Intanto, a partire dalla prossima settimana sono previsti non pochi incontri tra il governo e parti sociali per migliorare le condizioni dei lavoratori o di chi è diretto verso la pensione. Il prossimo 10 luglio governo e sindacati si incontreranno ancora una volta per discutere di previdenza a partire dal 2024. Al centro della discussione anche l’accesso a Opzione Donna: il governo sta ancora valutando se cancellare del tutto questa misura o se modificare i requisiti richiesti. All’orizzonte c’è però l’idea di sostituire Opzione Donna con l’Ape Rosa, l’accesso all’anticipo pensionistico pensato per le donne. Il prossimo incontro sul tema si terrà il 5 settembre, dopo la pausa estiva. Con ogni probabilità per quella data si inizieranno ad avere le idee più chiare su quello che attenderà i pensionati nel 2024.
«Scudo ai revisori per i fallimenti»
Una proposta di legge presentata da Marta Schifone, deputata di Fratelli d’Italia, capogruppo in commissione Lavoro scatena il plauso dei commercialisti italiani. La proposta di legge ha infatti l’obiettivo di arginare la vera e propria «fuga» dei commercialisti dagli organi di controllo delle aziende, come ad esempio i collegi dei revisori dei conti, poiché in caso di fallimento molto spesso sono proprio loro a dover rispondere «in solido» ai creditori e ai soggetti terzi. Per capirci: una società fallisce, ha debiti per milioni di euro, e i creditori possono rivalersi, oltre che sugli amministratori, pure sui revisori dei conti, che magari ricevono emolumenti di poche migliaia di euro all’anno. Il risultato è che spesso questi incarichi vengono così accettati solo da giovani professionisti che, pur di lavorare, sfidano la sorte. La proposta di legge depositata dalla Schifone prevede che i sindaci delle società siano responsabili per i danni cagionati nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi da 0 a 10.000 euro, un multiplo pari a quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, un multiplo pari a dodici volte; per i compensi maggiori di 50.000 euro, un multiplo pari a dieci volte . L’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dal deposito della relazione relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno. La limitazione della responsabilità in solido dei controllori delle aziende fallite rispetto a quella degli amministratori, parametrata al compenso percepito, è prevista in molti Paesi europei. «Sono molto fiera», dice Marta Schifone alla Verità, «della proposta di legge di Fratelli d’Italia a mia prima firma sulla limitazione della responsabilità dei sindaci. Revisionare la responsabilità civile degli organi di controllo delle società di capitali e introdurre una sua migliore delimitazione era diventata una urgenza, quasi una emergenza. Inconcepibile la responsabilità illimitata dei professionisti. Oramai la correzione della norma era indifferibile, troppe erano le situazioni distorte che si erano venute a creare. Fermi restando i requisiti di responsabilità professionale, anche deontologici oltre che risarcitori», sottolinea ancora la Schifone, «che debbono persistere assolutamente a netto presidio di legalità, con questo provvedimento affermiamo un principio di equità e tutela per i liberi professionisti». «Esprimiamo grande soddisfazione», commenta il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Elbano De Nuccio, «e ringraziamo l’on. Schifone per la presentazione di una proposta di legge che recepisce integralmente le posizioni da sempre da noi espresse su un tema particolarmente sensibile e delicato per la professione», De Nuccio ringrazia anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano, che «sta seguendo da vicino il dossier, mantenendo fede all’impegno preso sul tema a maggio, a nome del governo, ai nostri Stati generali».
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