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2023-07-09
Il salario minimo sarà un incentivo al lavoro nero Soprattutto al Sud
Il salario minimo favorisce il lavoro nero. A dirlo è la Cgia di Mestre secondo cui minimi tabellari sono molto inferiori alla soglia proposta dal disegno di legge presentato nei giorni scorsi alla Camera. In parole povere, con l’introduzione di una tariffa oraria minima le aziende finirebbero per pagare i loro lavoratori in modo irregolare piuttosto che pagare nove euro ogni sessanta minuti di lavoro.
Il punto, spiega in una nota la più rappresentativa organizzazione italiana dell’artigianato e della micro e piccola impresa, è che vi sono comparti spesso «fiaccati da una concorrenza sleale molto aggressiva praticata dalle realtà che da sempre lavorano completamente in nero. Stiamo parlando dell’agricoltura, del lavoro domestico e di alcuni comparti presenti nei servizi. In altre parole, non è da escludere che molti imprenditori, costretti ad aggiustare all’insù i minimi salariali, potrebbero essere tentati a licenziare o a ridurre l’orario ad alcuni dei propri dipendenti, “costringendoli” comunque a lavorare lo stesso, ma in nero. L’adozione di questa “contromisura” consentirebbe a molte attività di contenere i costi e di non scivolare fuori mercato». Il problema sarebbe, inoltre, molto più evidente al Sud, area che già oggi «conta una economia sommersa molto diffusa, con una incidenza che sfiora il 38% di tutti gli occupati non regolari presenti in Italia (in termini assoluti 1,1 milioni di persone su un totale di 2,9)».
La Cgia propone quindi di adottare il salario minimo da nove euro l’ora solo nel caso in cui “al trattamento economico minimo, ovvero i minimi tabellari previsti dai singoli contratti collettivi nazionali, si aggiungano le voci che compongono la retribuzione differita. Elementi questi ultimi presenti nel contratto collettivo nazionale che costituiscono il cosiddetto trattamento economico complessivo». Come spiega la Cgia, «i ratei delle principali voci da sommare al trattamento economico minimo per ottenere il salario minimo orario lordo sarebbero: bilateralità; fringe benefit (buoni pasto, auto aziendale, cellulare aziendale, voucher, borse di studio, etc.); indennità (trasferta, lavoro notturno, lavoro festivo, etc.); premi; scatti di anzianità; tredicesima; quattordicesima; trattamento di fine rapporto e welfare aziendale». Ci sarebbe poi un altro problema da tenere in considerazione: quello degli apprendisti.
«Gli ultimi dati disponibili resi noti dall’Istat, segnalano che in Italia ci sono tra i 650 e i 700.000 apprendisti», spiega la Cgia, «vale a dire giovani assunti con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione giovanile. La durata del contratto varia in ragione della tipologia dello stesso: mediamente oscilla tra i tre e i cinque anni. In linea generale, inoltre, la retribuzione mensile di un apprendista si aggira attorno agli 800 euro netti. L’importo è basso perché risponde alla filosofia di questo istituto che, introdotto nel 1955, è rivolto a under 30 che entrano nel mercato di lavoro senza alcuna esperienza lavorativa e al termine di questo percorso, grazie all’attività di tutoraggio realizzata dall’azienda che li ospita, acquisiscono una professione. Per contro, l’investimento realizzato dall’imprenditore viene “premiato” con la possibilità di beneficiare di un forte abbattimento del costo del lavoro».
Solo che, come spiega sempre la Cgia, «è evidente che se agli apprendisti neoassunti la retribuzione minima oraria fosse innalzata a nove euro lordi, nel giro di qualche anno registreremo un crollo dell’utilizzo di questo contratto. Per le imprese, infatti, assumere un giovane alle prime armi senza alcuna esperienza alle spalle con un contratto di apprendistato non sarebbe più conveniente».
La Cgia cita inoltre l’Inps «il numero di coloro che in Italia non raggiungono il salario minimo, così come previsto dal ddl presentato nei giorni scorsi dai partiti dell’opposizione, è di 1,9 milioni. Se a questi sottraiamo i 205.000 apprendisti che a nostro avviso non devono essere coinvolti da questo provvedimento, la platea dei lavoratori “poveri” si riduce a 1,7 milioni». In più, sempre considerando i dati Inps, «i dipendenti interessati dal salario minimo per legge godrebbero di 3,3 miliardi di reddito in più. Le imprese, invece, dovrebbero sostenere un costo aggiuntivo di almeno 4,6 miliardi, mentre per le casse dello Stato l’aumento delle retribuzioni comporterebbe un incremento del gettito Irpef e di quello contributivo pari a 1,5 miliardi di euro. Questi dati, comunque, sono sottostimati; gli importi appena citati sono stati stimati dall’Inps prendendo come riferimento una retribuzione oraria minima di 8 euro», spiega l’associazione.
Intanto, a partire dalla prossima settimana sono previsti non pochi incontri tra il governo e parti sociali per migliorare le condizioni dei lavoratori o di chi è diretto verso la pensione. Il prossimo 10 luglio governo e sindacati si incontreranno ancora una volta per discutere di previdenza a partire dal 2024. Al centro della discussione anche l’accesso a Opzione Donna: il governo sta ancora valutando se cancellare del tutto questa misura o se modificare i requisiti richiesti. All’orizzonte c’è però l’idea di sostituire Opzione Donna con l’Ape Rosa, l’accesso all’anticipo pensionistico pensato per le donne. Il prossimo incontro sul tema si terrà il 5 settembre, dopo la pausa estiva. Con ogni probabilità per quella data si inizieranno ad avere le idee più chiare su quello che attenderà i pensionati nel 2024.
«Scudo ai revisori per i fallimenti»
Una proposta di legge presentata da Marta Schifone, deputata di Fratelli d’Italia, capogruppo in commissione Lavoro scatena il plauso dei commercialisti italiani. La proposta di legge ha infatti l’obiettivo di arginare la vera e propria «fuga» dei commercialisti dagli organi di controllo delle aziende, come ad esempio i collegi dei revisori dei conti, poiché in caso di fallimento molto spesso sono proprio loro a dover rispondere «in solido» ai creditori e ai soggetti terzi. Per capirci: una società fallisce, ha debiti per milioni di euro, e i creditori possono rivalersi, oltre che sugli amministratori, pure sui revisori dei conti, che magari ricevono emolumenti di poche migliaia di euro all’anno. Il risultato è che spesso questi incarichi vengono così accettati solo da giovani professionisti che, pur di lavorare, sfidano la sorte. La proposta di legge depositata dalla Schifone prevede che i sindaci delle società siano responsabili per i danni cagionati nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi da 0 a 10.000 euro, un multiplo pari a quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, un multiplo pari a dodici volte; per i compensi maggiori di 50.000 euro, un multiplo pari a dieci volte . L’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dal deposito della relazione relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno. La limitazione della responsabilità in solido dei controllori delle aziende fallite rispetto a quella degli amministratori, parametrata al compenso percepito, è prevista in molti Paesi europei. «Sono molto fiera», dice Marta Schifone alla Verità, «della proposta di legge di Fratelli d’Italia a mia prima firma sulla limitazione della responsabilità dei sindaci. Revisionare la responsabilità civile degli organi di controllo delle società di capitali e introdurre una sua migliore delimitazione era diventata una urgenza, quasi una emergenza. Inconcepibile la responsabilità illimitata dei professionisti. Oramai la correzione della norma era indifferibile, troppe erano le situazioni distorte che si erano venute a creare. Fermi restando i requisiti di responsabilità professionale, anche deontologici oltre che risarcitori», sottolinea ancora la Schifone, «che debbono persistere assolutamente a netto presidio di legalità, con questo provvedimento affermiamo un principio di equità e tutela per i liberi professionisti». «Esprimiamo grande soddisfazione», commenta il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Elbano De Nuccio, «e ringraziamo l’on. Schifone per la presentazione di una proposta di legge che recepisce integralmente le posizioni da sempre da noi espresse su un tema particolarmente sensibile e delicato per la professione», De Nuccio ringrazia anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano, che «sta seguendo da vicino il dossier, mantenendo fede all’impegno preso sul tema a maggio, a nome del governo, ai nostri Stati generali».
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I dati della Cgia di Mestre: misura insostenibile per le imprese. E su previdenza e donne al via gli incontri governo-sindacati.La proposta di legge di Marta Schifone (Fdi): un tetto per le azioni di responsabilità a carico dei sindaci delle società. Il plauso dei commercialisti: giusta forma di tutela.Lo speciale contiene due articoli.Il salario minimo favorisce il lavoro nero. A dirlo è la Cgia di Mestre secondo cui minimi tabellari sono molto inferiori alla soglia proposta dal disegno di legge presentato nei giorni scorsi alla Camera. In parole povere, con l’introduzione di una tariffa oraria minima le aziende finirebbero per pagare i loro lavoratori in modo irregolare piuttosto che pagare nove euro ogni sessanta minuti di lavoro.Il punto, spiega in una nota la più rappresentativa organizzazione italiana dell’artigianato e della micro e piccola impresa, è che vi sono comparti spesso «fiaccati da una concorrenza sleale molto aggressiva praticata dalle realtà che da sempre lavorano completamente in nero. Stiamo parlando dell’agricoltura, del lavoro domestico e di alcuni comparti presenti nei servizi. In altre parole, non è da escludere che molti imprenditori, costretti ad aggiustare all’insù i minimi salariali, potrebbero essere tentati a licenziare o a ridurre l’orario ad alcuni dei propri dipendenti, “costringendoli” comunque a lavorare lo stesso, ma in nero. L’adozione di questa “contromisura” consentirebbe a molte attività di contenere i costi e di non scivolare fuori mercato». Il problema sarebbe, inoltre, molto più evidente al Sud, area che già oggi «conta una economia sommersa molto diffusa, con una incidenza che sfiora il 38% di tutti gli occupati non regolari presenti in Italia (in termini assoluti 1,1 milioni di persone su un totale di 2,9)». La Cgia propone quindi di adottare il salario minimo da nove euro l’ora solo nel caso in cui “al trattamento economico minimo, ovvero i minimi tabellari previsti dai singoli contratti collettivi nazionali, si aggiungano le voci che compongono la retribuzione differita. Elementi questi ultimi presenti nel contratto collettivo nazionale che costituiscono il cosiddetto trattamento economico complessivo». Come spiega la Cgia, «i ratei delle principali voci da sommare al trattamento economico minimo per ottenere il salario minimo orario lordo sarebbero: bilateralità; fringe benefit (buoni pasto, auto aziendale, cellulare aziendale, voucher, borse di studio, etc.); indennità (trasferta, lavoro notturno, lavoro festivo, etc.); premi; scatti di anzianità; tredicesima; quattordicesima; trattamento di fine rapporto e welfare aziendale». Ci sarebbe poi un altro problema da tenere in considerazione: quello degli apprendisti.«Gli ultimi dati disponibili resi noti dall’Istat, segnalano che in Italia ci sono tra i 650 e i 700.000 apprendisti», spiega la Cgia, «vale a dire giovani assunti con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e all’occupazione giovanile. La durata del contratto varia in ragione della tipologia dello stesso: mediamente oscilla tra i tre e i cinque anni. In linea generale, inoltre, la retribuzione mensile di un apprendista si aggira attorno agli 800 euro netti. L’importo è basso perché risponde alla filosofia di questo istituto che, introdotto nel 1955, è rivolto a under 30 che entrano nel mercato di lavoro senza alcuna esperienza lavorativa e al termine di questo percorso, grazie all’attività di tutoraggio realizzata dall’azienda che li ospita, acquisiscono una professione. Per contro, l’investimento realizzato dall’imprenditore viene “premiato” con la possibilità di beneficiare di un forte abbattimento del costo del lavoro». Solo che, come spiega sempre la Cgia, «è evidente che se agli apprendisti neoassunti la retribuzione minima oraria fosse innalzata a nove euro lordi, nel giro di qualche anno registreremo un crollo dell’utilizzo di questo contratto. Per le imprese, infatti, assumere un giovane alle prime armi senza alcuna esperienza alle spalle con un contratto di apprendistato non sarebbe più conveniente».La Cgia cita inoltre l’Inps «il numero di coloro che in Italia non raggiungono il salario minimo, così come previsto dal ddl presentato nei giorni scorsi dai partiti dell’opposizione, è di 1,9 milioni. Se a questi sottraiamo i 205.000 apprendisti che a nostro avviso non devono essere coinvolti da questo provvedimento, la platea dei lavoratori “poveri” si riduce a 1,7 milioni». In più, sempre considerando i dati Inps, «i dipendenti interessati dal salario minimo per legge godrebbero di 3,3 miliardi di reddito in più. Le imprese, invece, dovrebbero sostenere un costo aggiuntivo di almeno 4,6 miliardi, mentre per le casse dello Stato l’aumento delle retribuzioni comporterebbe un incremento del gettito Irpef e di quello contributivo pari a 1,5 miliardi di euro. Questi dati, comunque, sono sottostimati; gli importi appena citati sono stati stimati dall’Inps prendendo come riferimento una retribuzione oraria minima di 8 euro», spiega l’associazione.Intanto, a partire dalla prossima settimana sono previsti non pochi incontri tra il governo e parti sociali per migliorare le condizioni dei lavoratori o di chi è diretto verso la pensione. Il prossimo 10 luglio governo e sindacati si incontreranno ancora una volta per discutere di previdenza a partire dal 2024. Al centro della discussione anche l’accesso a Opzione Donna: il governo sta ancora valutando se cancellare del tutto questa misura o se modificare i requisiti richiesti. All’orizzonte c’è però l’idea di sostituire Opzione Donna con l’Ape Rosa, l’accesso all’anticipo pensionistico pensato per le donne. Il prossimo incontro sul tema si terrà il 5 settembre, dopo la pausa estiva. Con ogni probabilità per quella data si inizieranno ad avere le idee più chiare su quello che attenderà i pensionati nel 2024.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/salario-minimo-incentivo-lavoro-nero-2662252152.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="scudo-ai-revisori-per-i-fallimenti" data-post-id="2662252152" data-published-at="1688888700" data-use-pagination="False"> «Scudo ai revisori per i fallimenti» Una proposta di legge presentata da Marta Schifone, deputata di Fratelli d’Italia, capogruppo in commissione Lavoro scatena il plauso dei commercialisti italiani. La proposta di legge ha infatti l’obiettivo di arginare la vera e propria «fuga» dei commercialisti dagli organi di controllo delle aziende, come ad esempio i collegi dei revisori dei conti, poiché in caso di fallimento molto spesso sono proprio loro a dover rispondere «in solido» ai creditori e ai soggetti terzi. Per capirci: una società fallisce, ha debiti per milioni di euro, e i creditori possono rivalersi, oltre che sugli amministratori, pure sui revisori dei conti, che magari ricevono emolumenti di poche migliaia di euro all’anno. Il risultato è che spesso questi incarichi vengono così accettati solo da giovani professionisti che, pur di lavorare, sfidano la sorte. La proposta di legge depositata dalla Schifone prevede che i sindaci delle società siano responsabili per i danni cagionati nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi da 0 a 10.000 euro, un multiplo pari a quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, un multiplo pari a dodici volte; per i compensi maggiori di 50.000 euro, un multiplo pari a dieci volte . L’azione di responsabilità verso i sindaci si prescrive nel termine di cinque anni dal deposito della relazione relativa all’esercizio in cui si è verificato il danno. La limitazione della responsabilità in solido dei controllori delle aziende fallite rispetto a quella degli amministratori, parametrata al compenso percepito, è prevista in molti Paesi europei. «Sono molto fiera», dice Marta Schifone alla Verità, «della proposta di legge di Fratelli d’Italia a mia prima firma sulla limitazione della responsabilità dei sindaci. Revisionare la responsabilità civile degli organi di controllo delle società di capitali e introdurre una sua migliore delimitazione era diventata una urgenza, quasi una emergenza. Inconcepibile la responsabilità illimitata dei professionisti. Oramai la correzione della norma era indifferibile, troppe erano le situazioni distorte che si erano venute a creare. Fermi restando i requisiti di responsabilità professionale, anche deontologici oltre che risarcitori», sottolinea ancora la Schifone, «che debbono persistere assolutamente a netto presidio di legalità, con questo provvedimento affermiamo un principio di equità e tutela per i liberi professionisti». «Esprimiamo grande soddisfazione», commenta il presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, Elbano De Nuccio, «e ringraziamo l’on. Schifone per la presentazione di una proposta di legge che recepisce integralmente le posizioni da sempre da noi espresse su un tema particolarmente sensibile e delicato per la professione», De Nuccio ringrazia anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Alfredo Mantovano, che «sta seguendo da vicino il dossier, mantenendo fede all’impegno preso sul tema a maggio, a nome del governo, ai nostri Stati generali».
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Inizialmente, la presentazione della strategia della Commissione avrebbe dovuto avvenire mercoledì, ma la lettera di Friedrich Merz del 28 novembre diretta a Ursula von der Leyen ha costretto a ritardare la comunicazione. In quel giorno Merz, appena ottenuto dal Bundestag il via libera alla costosa riforma delle pensioni, si era subito rivolto a Von der Leyen chiedendo modifiche pesanti alle regole sul bando delle auto Ice al 2035. Questa contemporaneità ha reso evidente che il via libera alla richiesta di rilassamento delle regole sulle auto arrivava dalla Spd come contropartita al sì della Cdu alla riforma delle pensioni, come spiegato sulla Verità del 2 dicembre.
Se il contenuto della revisione dovesse essere quello circolato ieri, vorrebbe dire che la posizione tedesca è stata interamente accolta. I punti di cui Bloomberg parla, infatti, sono quelli contenuti nella lettera di Merz.
Non è ancora chiaro quale sarà la quota di veicoli ibridi plug-in e ad autonomia estesa che potranno essere immatricolati dopo il 2035, né se la data del 2040 sarà mantenuta. Anche i dettagli tecnici chiave sugli e-fuel e sui biocarburanti avanzati non ci sono. Resta poi ancora da precisare (da anni) quale metodo sarà utilizzato per il Life cycle assessment (Lca), ovvero i criteri con cui si valutano le emissioni nell’intero ciclo di vita dei veicoli elettrici. Non si tratta di un banale dettaglio tecnico, ma dell’architrave delle nuove regole, da cui dipenderanno tecnologie e modelli in futuro. Un Lca avrebbe già dovuto essere definito entro il 31 dicembre di quest’anno dalla Commissione, ma ancora non si è visto nulla. Contabilizzare l’acciaio green nella produzione di veicoli significa dotarsi di un metodo Lca condiviso, così finalmente si saprà quanto emette davvero un veicolo elettrico (sempre se il Lca è fatto bene).
Qualche giorno fa, sei governi Ue, tra cui quello italiano, affiancato da Polonia, Ungheria, Slovacchia, Bulgaria e Repubblica Ceca, in scia alla Germania, avevano chiesto alla Commissione di proporre un allentamento delle regole sulle auto, consentendo gli ibridi plug-in e le auto con autonomia estesa anche dopo il 2035. In una situazione in cui l’assalto al mercato europeo da parte dei marchi cinesi è appena iniziato, le case del Vecchio continente faticano a tenere il passo. L’incertezza normativa è però anche peggio di una regola fatta male. L’industria europea dell’auto si sta preparando a mantenere in produzione modelli con il motore a scoppio anche dopo il 2035, con la relativa componentistica, ma tutta la filiera, che coinvolge milioni di lavoratori in Europa e fuori, ha bisogno di certezze.
Intanto, l’applicazione al settore auto della norma «made in Europe», che dovrebbe servire a proteggere l’industria europea stabilendo quote minime di componenti fatti al 100% in Europa, è stata rinviata a fine gennaio. La regola, fortemente voluta dalla Francia ma che lascia la Germania fredda, si intreccia con la richiesta di dazi sulle merci cinesi fatta da Macron. Avanti (o indietro) in ordine sparso.
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Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Un concetto già smentito da Fdi che in un dossier sulle fake news relative proprio all’oro di Bankitalia, ha precisato l’infondatezza dell’allarmismo basato sulla errata idea di volersi impossessare delle riserve auree per ridurre il debito. E nello stesso documento si ricordava invece come questa idea non dispiacesse al governo di sinistra di Romano Prodi del 2007. Peraltro nel dossier si precisa che la finalità dell’emendamento è di «non far correre il rischio all’Italia che soggetti privati rivendichino diritti sulle riserve auree degli italiani».
Per due volte la Banca centrale europea ha puntato i piedi, probabilmente spinta dal retropensiero che il governo voglia mettere le mani sull’oro detenuto e gestito da Bankitalia, per venderlo. Ma anche su questo punto da Fdi hanno tranquillizzato. Nel documento esplicativo precisano che «al contrario, vogliamo affermare che la proprietà dell’oro detenuto dalla Banca d’Italia è dello Stato proprio per proteggere le riserve auree da speculazioni». Il capitale dell’istituto centrale è diviso in 300.000 quote e nessun azionista può detenere più del 5%. I principali soci di Via Nazionale sono grandi banche e casse di previdenza. Dai dati pubblicati sul sito Bankitalia, primo azionista risulta Unicredit (15.000 quote pari al 5%), seguono con il 4,93% ciascuna Inarcassa (la Cassa di previdenza di ingegneri e architetti), Fondazione Enpam (Ente di previdenza dei medici e degli odontoiatri) e la Cassa forense. Del 4,91% la partecipazione detenuta da Intesa Sanpaolo. Al sesto posto tra gli azionisti, troviamo la Cassa di previdenza dei commercialisti con il 3,66%. Seguono Bper Banca con il 3,25%, Iccrea Banca col 3,12%, Generali col 3,02%. Pari al decimo posto, con il 3% ciascuna, Inps, Inail, Cassa di sovvenzioni e risparmio fra il personale della Banca d'Italia, Cassa di Risparmio di Asti. Primo azionista a controllo straniero è la Bmnl (Gruppo Bnp Paribas) col 2,83% seguita da Credit Agricole Italia (2,81%). Bff Bank (partecipata da fondi italiani e internazionali) detiene l’1,67% mentre Banco Bpm (i cui principali azionisti sono Credit Agricole con circa il 20% e Blackrock con circa il 5%) ha l’1,51%.
Un motivo fondato quindi per esplicitare che le riserve auree sono di proprietà di tutti gli italiani. Il che, a differenza di quanto sostenuto da politici e analisti di sinistra, «non mette in discussione l’indipendenza della Banca d’Italia, né viola i trattati europei. Non si comprende quindi la levata di scudi di queste ore nei confronti della proposta di Fdi. A meno che, ed è lecito domandarselo, chi oggi si agita non abbia altri motivi per farlo».
C’è poi il fatto che «alcuni Stati, anche membri dell’Ue, hanno già chiarito che la proprietà delle riserve appartiene al popolo, nella propria legislazione, mettendolo nero su bianco, a dimostrazione del fatto che ciò è perfettamente compatibile con i Trattati europei». Pertanto si tratta di un emendamento «di buon senso».
La riformulazione della proposta potrebbe essere presentata oggi, come annunciato dal capogruppo di Fdi in Senato, Lucio Malan. «Si tratta di dare», ha specificato, «una formulazione che dia maggiore chiarezza». Nella risposta alle richieste della presidente della Bce, Christine Lagarde, il ministro Giorgetti, avrebbe precisato che la disponibilità e gestione delle riserve auree del popolo italiano sono in capo alla Banca d’Italia in conformità alle regole dei Trattati e che la riformulazione della norma trasmessa è il frutto di apposite interlocuzioni con quest’ultima per addivenire a una formulazione pienamente coerente con le regole europee.
Risolto questo fronte, altri agitano l’iter della manovra. L’obiettivo è portare la discussione in Aula per il weekend. Il lavoro è tutto sulle coperture. Ci sono i malumori delle forze dell’ordine per la mancanza di nuovi fondi, rinviati a quando il Paese uscirà dalla procedura di infrazione, e ieri quelli dei sindacati dei medici, Anaao Assomed e Cimo-Fesmed, che hanno minacciato lo stato di agitazione se saranno confermate le voci «del tentativo del ministero dell’Economia di bloccare l’emendamento, peraltro segnalato, a firma Francesco Zaffini, presidente della commissione Sanità del Senato con il sostegno del ministro della Salute», che prevede un aumento delle indennità di specificità dei medici, dirigenti sanitari e infermieri. In ballo, affermano le due sigle, ci sono circa 500 milioni già preventivati. E reclamano che il Mef «licenzi al più presto la pre-intesa del Ccnl 2022-2024 per consentire la firma e quindi il pagamento di arretrati e aumenti».
Intanto in una riformulazione del governo l’aliquota della Tobin Tax è stata raddoppiata dallo 0,2% allo 0,4%.
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John Elkann (Ansa)
Fatta la doverosa e sincera premessa, non riusciamo a comprendere perché da ieri le opposizioni italiane stiano inondando i media di comunicati stampa che chiamano in causa il governo Meloni, al quale si chiede di riferire in aula in relazione a quella che è una trattativa tra privati. O meglio: è sacrosanta la richiesta di attenzione per la tutela dei livelli occupazionali, come succede in tutti i casi in cui un grande gruppo imprenditoriale passa di mano: ciò che si comprende meno, anzi non si comprende proprio, sono gli appelli al governo a intervenire per salvaguardare la linea editoriale delle testate in vendita.
L’agitazione in casa dem tocca livelli di puro umorismo: «Di fronte a quanto sta avvenendo nelle redazioni di Repubblica e Stampa», dichiara il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, «il governo italiano non può restare silente e fermo. Chigi deve assumere un’iniziativa immediata di fronte a quella che appare come una vera e propria dismissione di un patrimonio della democrazia italiana. Per la tutela di beni e capitali strategici di interesse nazionale viene spesso evocato il Golden power. Utilizzato da questo governo per molto meno». Secondo Boccia, il governo dovrebbe bloccare l’operazione oppure intervenire direttamente ponendo condizioni. Siamo, com’è ben chiaro, di fronte al delirio politico in purezza, senza contare il fatto che quando il governo ha utilizzato il Golden power nel caso Unicredit-Bpm, il Pd ha urlato allo scandalo per l’«interventismo» dell’esecutivo. Come abbiamo detto, sono sacrosante le preoccupazioni sul mantenimento dei livelli occupazionali, molto meno comprensibili invece quelle su qualità e pluralismo dell’informazione, soprattutto se collegate alla richiesta al governo di riferire in aula firmata da Pd, Avs, M5s e +Europa.
Cosa dovrebbe fare nel concreto Giorgia Meloni? Convocare gli Elkann e Kyriakou e farsi garantire che le testate del gruppo Gedi continueranno a pubblicare gli stessi articoli anche dopo l’eventuale vendita? E a che titolo un governo potrebbe mai intestarsi un’iniziativa di questo tipo, senza essere accusato di invadere un territorio che non è di propria competenza? Con quale coraggio la sinistra che ha costantemente accusato il centrodestra di invadere il sacro terreno della libertà di stampa, ora si lamenta dell’esatto contrario? Non si sa: quello che si sa è che quando il gruppo Stellantis, di proprietà degli Elkann, ha prosciugato uno dopo l’altro gli stabilimenti di produzione di auto in Italia tutto questo allarme da parte de partiti di sinistra non lo abbiamo registrato.
Ma le curiosità (eufemismo) non finiscono qui. Riportiamo una significativa dichiarazione del co-leader di Avs, Angelo Bonelli: «La vendita de La Repubblica, La Stampa, Huffington, delle radio e dei siti connessi all’armatore greco Kyriakou», argomenta Bonelli, «è un fatto che desta profonda preoccupazione anche per la qualità della nostra democrazia. L’operazione riguarda una trattativa tra l’erede del gruppo Gedi, John Elkann, e la società ellenica Antenna Group, controllata da Theodore Kyriakou, azionista principale e presidente del gruppo. Kyriakou può contare inoltre su un solido partner in affari: il principe saudita Mohammed Bin Salman Al Saud, che tre anni fa ha investito 225 milioni di euro per acquistare il 30% di Antenna Group». E quindi? «Il premier», deduce con una buona dose di sprezzo del ridicolo Sherlock Holmes Bonelli, «all’inizio di quest’anno, ha guidato una visita di Stato in Arabia Saudita, conclusa con una dichiarazione che auspicava una nuova fase di cooperazione e sviluppo dei rapporti tra Italia e il regno del principe ereditario. Se la vendita dovesse avere questo esito, si aprirebbe un problema serio che riguarda i livelli occupazionali e, allo stesso tempo, la qualità della nostra democrazia. La concentrazione dell’informazione radiotelevisiva, della stampa e del Web sarebbe infatti praticamente schierata sulle posizioni del governo e della sua presidente». Avete letto bene: secondo il teorema Bonelli, Bin Salman è socio di Kyriakou, Bin Salman ha ricevuto Meloni in visita (come altre centinaia di leader di tutto il mondo), quindi Meloni sta mettendo le mani su Repubblica, Stampa e tutto il resto.
Quello che sfugge a Bonelli è che Bin Salman è, come è arcinoto, in eccellenti rapporti con Matteo Renzi, e guarda caso La Verità è in grado di rivelare che il leader di Italia viva starebbe giocando, lui sì, un ruolo di mediazione in questa operazione. Renzi avrebbe pure già in mente il nuovo direttore di Repubblica: il prescelto sarebbe Emiliano Fittipaldi, attuale direttore del quotidiano Domani, giornale di durissima opposizione al governo. In ogni caso, per rasserenare gli animi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega all’informazione, Alberto Barachini, ha convocato i vertici di Gedi e i Cdr di Stampa e Repubblica, «in relazione», si legge in una nota, «alla vicenda della ventilata cessione delle due testate del gruppo».
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