(Totaleu)
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.
Ufficialmente era un bed and breakfast, in realtà, hanno scoperto gli investigatori della polizia di Stato, quell’appartamento di Torre Belvedere, un anonimo casermone di cemento che si affaccia sulla ferrovia di Padova, era un formicaio clandestino, una base logistica per «smistare» cinesi irregolari. Un hub con 22 posti letto incastrati a forza in due stanze fetide e con una situazione igienica da incubo.
Quando i poliziotti hanno fatto irruzione, lunedì scorso, c’erano 16 ospiti, tutti cinesi: sei completamente sprovvisti di documenti. L’immobile è stato sequestrato. I due indagati, una donna cinese di 52 anni e un suo concittadino di 73, sono stati denunciati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Gli è stato notificato anche un provvedimento del questore, Marco Odorisio, per il rimpatrio. La donna, si è scoperto, era regolare in Italia dal 2000, ma non sarebbe nuova ai guai: avrebbe un precedente per resistenza a pubblico ufficiale e uno sfratto pendente per ritardi sistematici nel pagamento dell’affitto. Oltre a un ordine di sfratto, si è beccata pure l’avvio del procedimento per la revoca del permesso di soggiorno. L’intervento della polizia è stato disposto dall’autorità giudiziaria padovana dopo che, un mese fa, erano stati rintracciati dieci cinesi irregolari, di cui sei al primo foto segnalamento sul territorio italiano. Non una coincidenza, ma un’anomalia evidente. Già allora gli investigatori avevano fiutato l’esistenza di un sistema organizzato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, con Torre Belvedere ridotta a snodo per l’arrivo e lo smistamento di stranieri senza documenti.
Da qui, il pubblico ministero Benedetto Roberti ha disposto una nuova ispezione per verificare la presenza di ulteriori clandestini e lo stato dell’appartamento, delegando gli agenti a svolgere un’attività ispettiva. Quando la polizia ha bussato alla porta, alle 7, la donna non c’era. Ma dentro gli agenti hanno trovano uno spettacolo degradante: i 22 posti letto erano stati spalmati tra il salotto e le camere, le condizioni igienico-sanitarie disastrose, una cucina e i bagni in stato di abbandono. I sei irregolari, uomini tra i 24 e i 71 anni, vengono portati in questura. Due di loro non risultano mai essere stati fotosegnalati in Italia, segno che la presunta rete che si serviva del bed and breakfast operava con discrezione, traghettando nell’ombra chiunque avesse bisogno di sparire dai radar delle autorità. Gli approfondimenti dell’Ufficio immigrazione della questura hanno fatto scattare i provvedimenti.
Per cinque di loro un ordine di lasciare il Paese entro sette giorni. Per un sessantaquattrenne, invece, il destino è immediato: trattenuto in questura in attesa della convalida dell’espulsione da parte del Giudice di pace, il giorno dopo è stato scortato all’aeroporto di Milano Malpensa e imbarcato su un volo diretto a Pechino. Rimpatrio eseguito. Fin qui l’attività investigativa già conclusa. Ma l’indagine sulla base logistica per clandestini è solo cominciata. Gli investigatori ricordano almeno due precedenti: nel 2015 si scoprì che nello stesso palazzo due appartamenti ospitavano cinesi per 10 euro a notte compresi due pasti oppure per un affitto mensile di circa 300 euro, tutto rigorosamente in nero; nel 2020, invece, un altro appartamento riadattato a bed and breakfast con 16 posti letto veniva pubblicizzato sui siti cinesi come «comodo per la stazione e a pochi passi dal centro», anche in quel caso gli ospiti erano abusivi e clandestini. E negli atti dell’inchiesta ci sarebbero già dei collegamenti che potrebbero portare verso una rete di protezione per i cinesi non in regola con i documenti. Torre Belvedere, con il suo squallore nascosto dietro la facciata di un finto bed and breakfast, molto probabilmente era solo un tassello.
Secondo qualche malpensante, l’Unione europea non sarebbe altro che la proiezione degli interessi tedeschi sul Vecchio continente. E le ragioni in tal senso non mancano: la storia recente mostra come le regole, applicate rigorosamente con i deboli, vengano poi facilmente sospese quando conviene ai forti. È accaduto più volte con i vincoli di bilancio: nei primi anni Duemila, quando la Germania ha riformato il suo mercato del lavoro per renderlo più flessibile; durante la pandemia, quando la sospensione del patto di stabilità è stata accolta favorevolmente anche da Berlino, visto il pericolo gravante anche sulle aziende tedesche; e ancora una volta oggi, con la crisi dell’industria teutonica, tanto che ieri Cdu, Spd e Verdi hanno trovato un accordo per rimuovere il tetto al debito dalla Costituzione, aprendo la strada a 500 miliardi di investimenti per riconvertire l’automotive in produzione bellica. L’economia, però, è soltanto uno degli ambiti in cui si manifesta la natura germanocentrica del progetto europeo. Un esempio recente arriva dagli ultimi dati sull’immigrazione forniti da Frontex, l’agenzia Ue che vigila sui confini del Vecchio continente.
Tutte le rotte migratorie europee registrano un netto calo di ingressi, tranne quella del Mediterraneo centrale, la via diretta verso l’Italia. Nei primi due mesi del 2025, infatti, gli attraversamenti irregolari delle frontiere Ue sono scesi del 25% rispetto all’anno precedente, fermandosi a circa 25.000 individui. Il primato spetta alla rotta balcanica, cruciale per la Germania, con un vistoso calo del 64%. Seguono il corridoio dell’Africa occidentale, sull’Atlantico, in discesa del 40%, e il Mediterraneo orientale - spesso prodromico al raggiungimento dei Balcani e della Germania - con una riduzione degli ingressi del 35%. Bene anche il dato riguardante la Manica (-28%), mentre più contenuta è la diminuzione sulla rotta del Mediterraneo occidentale, tra Spagna e Marocco, con un -2%.
Soltanto due rotte hanno segno positivo: quella terrestre dell’Europa orientale, cui contribuiscono le note vicende belliche, e quella del Mediterraneo centrale, cioè gli immigrati che partono dal Nord Africa per arrivare sulle coste italiane. In valori assoluti la situazione per noi non migliora: al primo posto, nonostante il forte calo, rimane la rotta dell’Africa occidentale, con circa 7.200 ingressi sul suolo europeo tra gennaio e febbraio del 2025; subito sotto, però, troviamo il corridoio italiano, con quasi 6.900 sbarchi. A seguire, il Mediterraneo orientale con 6.500, la Manica con 4.400, il Mediterraneo occidentale con 2.100, la rotta balcanica con 1.400 e la frontiera terrestre dell’Europa orientale con 962.
Dati piuttosto interessanti, se messi a confronto con il 2024. L’anno scorso, infatti, la rotta italiana aveva registrato un incoraggiante calo del 59%, mentre quella balcanica addirittura del 78%. Le altre, invece, avevano visto tutte incrementare i flussi: +9% la Manica, +18% l’Africa occidentale, +1% il Mediterraneo occidentale, +14% il Mediterraneo orientale e +192% la via terrestre nell’Est Europa. Nei primi due mesi del nuovo anno, però, mentre la rotta balcanica mantiene significative riduzioni negli ingressi - e parallelamente anche l’altra via di primario interesse tedesco, quella del Mediterraneo orientale, ha cambiato nettamente segno e ora si riduce drasticamente -, l’unico Paese a registrare un forte incremento è l’Italia. Insomma, forse i toni un po’ duceschi con cui Olaf Scholz ha affrontato la questione lo scorso settembre - ricordiamo tutti il video al Bundenstag in cui ha fieramente rivendicato il diritto della Germania di decidere chi entra nel suo territorio - sono serviti qualcosa. Oppure, forse, ha pesato il timore che Afd trionfasse alle elezioni dello scorso febbraio. Sta di fatto che, anche sul fronte immigrazione, gli interessi tedeschi sembrano sempre ben tutelati.
La rotta del Mediterraneo centrale, dunque, è diventata la seconda più attiva verso l’Ue. Il principale punto di partenza è la Libia, dove - nota Frontex - i trafficanti ricorrono a potenti motoscafi per sfuggire ai controlli. Il costo di una traversata in mare, spiega l’agenzia Ue, varia tra i 5.000 e gli 8.000 euro a persona. I più rappresentati nel corridoio italiano rimangono i cittadini del Bangladesh, i quali spesso sfruttano «accordi formali tra la Libia» e il loro Paese «per entrare legalmente per lavoro» e poi affidarsi agli scafisti. Il quadro, pertanto, è piuttosto fosco: la Libia sfrutta il business dell’immigrazione clandestina attraverso «accordi di lavoro» coi bangladesi, disponibili poi a versare migliaia di euro nelle casse degli scafisti. Contemporaneamente, i giudici italiani bloccano i respingimenti e affossano il Piano Albania (che ambisce proprio a essere un deterrente al traffico di esseri umani) emettendo sentenze che, classificando il Bangladesh - insieme con l’Egitto - come Paese non sicuro, non convalidano i trattenimenti. Intanto, lungo queste rotte le persone continuano a morire: l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) stima 248 vittime in mare tra gennaio e febbraio, dopo le 2.300 del 2024.
Quando si giudica l’operato del governo sull’immigrazione - da cui, legittimamente, ci si aspettava di più - bisogna allora tenere a mente il contesto in cui si muove, tra un’Europa germanocentrica che cura gli interessi di Berlino, una rotta piuttosto trafficata e lucrosa per gli scafisti, e una magistratura che ostacola qualunque tentativo di contenimento.
Era uno dei lothar dalemiani. Nicola Latorre, insieme a Claudio Velardi, Marco Minniti e Fabrizio Rondolino: tutti pelati («ci radevamo perché non avevamo capelli», parola di Velardi), in fuga dal lìder Maximo, teste d’uovo. Latorre più di tutti probabilmente, tanto che, dopo varie legislature a Palazzo Madama, la presidenza della commissione Difesa del Senato e la direzione dell’Agenzia industrie e difesa (fino a fine 2023), insegna Relazioni internazionali alla facoltà di Scienze politiche dell’università Guido Carli.
Professor Latorre, che cosa pensa del fatto che da quando il comandante della polizia giudiziaria libica Najeem Osama Almasri è stato espulso l’Italia è paralizzata?
«Penso che il dibattito su questa vicenda va avanti da troppi giorni e sta facendo perdere di vista una serie di altri fatti che stanno caratterizzando lo scenario geopolitico. Ritengo sia un errore tenere in scacco le attività del Parlamento non solo perché ci sono questioni urgenti relative all’attività legislativa, ma soprattutto per una serie di avvenimenti nello scenario mondiale che richiederebbero rigore nelle discussioni, all’opposto dei toni urlati e propagandistici che trasmettono un’immagine non adeguata del nostro Paese».
Prima di addentrarci, qual è la sua opinione generale su questa vicenda?
«Ritengo che il governo potesse chiudere la discussione sulla decisione presa, che personalmente condivido, motivandola con le esigenze di sicurezza nazionale. Se, insieme alle autorità che la regolano, il governo ha ritenuto di prendere questa decisione avrebbe dovuto esplicitarla subito chiaramente. Mantenere questo pericoloso criminale in condizioni di libertà o di restrizione nel nostro Paese avrebbe potuto produrre conseguenze per la sicurezza nazionale sia sul nostro territorio, ma anche per i cittadini e le aziende italiane che operano in Libia».
Avrebbero potuto esserci ripercussioni sui nostri connazionali, sulle attività dell’Eni o nuove ondate di migranti dalla Libia verso le nostre coste?
«Il nostro rapporto con la Libia ha grande rilevanza innanzitutto sulla sicurezza interna perché è noto che, come per quelli provenienti dall’area balcanica, i flussi migratori sono utilizzati per destabilizzare i Paesi. Inoltre, è noto che nell’area del Sahel, come dell’Afghanistan, è forte la presenza di cellule terroristiche organizzate. Infine, in Libia si gioca la partita per noi decisiva dell’approvvigionamento energetico».
Come giudica il comportamento dell’opposizione?
«L’opposizione ha utilizzato la propaganda per screditare il nostro Paese e attaccare il presidente del Consiglio. Ha misconosciuto le esigenze di sicurezza e l’obbligo di misurarsi con decisioni che, se da un punto di vista etico presentano elementi problematici, sul piano della responsabilità possono essere inevitabili».
Come mai solo il 18 gennaio, dopo che aveva girato l’Europa per 12 giorni, la Corte penale internazionale ha spiccato il mandato di arresto contro Almasri?
«È una circostanza che lascia aperti molti interrogativi. Sappiamo dal suo passaporto che questo personaggio poteva godere di molte protezioni internazionali».
Disponeva anche di un visto decennale per gli Stati Uniti.
«Incuriosisce la tempistica della vicenda. Il fatto che la Germania comunichi la presenza sul suo territorio di Almasri appena prima che lasci il Paese fa pensare che la vera preoccupazione delle autorità tedesche era di liberarsi di una patata bollente».
La presenza di Almasri in Europa diviene pubblica a Monaco di Baviera il giorno prima del suo ingresso in Italia.
«Non sono un sostenitore delle teorie dei complotti, credo sinceramente che si sia presa una decisione cinica e spregiudicata tesa a scaricare su altri Paesi la gestione di una polpetta avvelenata».
Che cosa suggerisce il fatto che, secondo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, il primo mandato di arresto abbia richiesto una seconda versione dopo sei giorni?
«Non ho elementi né intenzione di pronunciarmi su questioni di tecnica giuridica. Tuttavia, emerge un percorso pasticciato, motivo in più per cui ritengo che la priorità della sicurezza nazionale è la motivazione giusta a supporto dell’espulsione di questa persona».
Giorgia Meloni avrebbe dovuto presentarsi in Parlamento come hanno reclamato le opposizioni?
«Decidere di presentarsi o no è prerogativa del premier. Quel che conta è che il governo abbia riferito nelle aule parlamentari».
Lo scontro tra magistratura e governo riguarda anche il fronte dei rimpatri degli irregolari.
«Qui, purtroppo, il fatto che preoccupa è la contraddittorietà dei comportamenti di diverse magistrature perché questa disomogeneità di comportamenti inficia la certezza del diritto».
Cosa pensa del fatto che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che è anche capo del Csm, non si sia pronunciato su questo contrasto istituzionale?
«Penso che Mattarella, insieme alla difesa della Costituzione si preoccupa sempre di tenere unito il Paese. Le sue dichiarazioni cercano di non alimentare conflitti che possono danneggiarlo».
Dovrebbe far riflettere gli esponenti dell’opposizione il fatto che il Memorandum firmato dall’ex ministro Marco Minniti con la Libia nel 2017 è stato adottato dall’Unione europea e confermato dai governi successivi?
«Certo. Non solo dovrebbe far riflettere le opposizioni, ma continuo a pensare che quel Memorandum contiene elementi che dovrebbero orientare la nostra strategia sull’immigrazione. Il problema è che, un minuto dopo l’approvazione, di quel Memorandum è stata contrastata l’attuazione».
Non resta che sperare nel cosiddetto Piano Mattei?
«Spero che non resterà solo un titolo, ma diventi il cuore della strategia di politica estera del nostro Paese. Questo significa investire energie e risorse finanziarie in quel piano. Auspico che un contributo importante arrivi anche dall’Unione europea».
Il nostro governo ha espulso Almasri perché sotto pressione di un ricatto?
«La decisione di espellere questo signore non è frutto di nessun ricatto, ma solo di una valutazione dell’interesse della sicurezza nazionale».
Ora si scopre che una denuncia presso la Cpi risale al 2019: verranno chiamati in causa anche i ministri dei governi Conte e Draghi?
«Mi auguro che questo tipo di denunce, di ieri e di oggi su decisioni assunte per ragioni di Stato, vengano tutte cestinate».
A livello internazionale chi può aver avuto interesse a far esplodere il caso Almasri in Italia?
«Non credo ci siano Paesi che avessero interesse a farlo detonare in Italia, ma che ce l’avevano a non farlo esplodere in casa loro. In particolare credo, sulla base di una mia sensazione, che la Germania si è preoccupata di non farlo esplodere nel pieno di una campagna elettorale nella quale il tema dell’immigrazione è cruciale. Bisogna considerare che, tra le tante protezioni internazionali di cui gode questo signore, c’è quella della Turchia e sappiamo quale influenza proprio in materia di immigrazione abbia la Turchia sulla Germania».
Possiamo ricordare anche Abdullah Öcalan, il capo del PKK curdo di cui la Germania non chiese l’estradizione benché inseguito da un mandato di cattura per terrorismo. Allora il premier era D’Alema.
«Già nel 1998 c’era un mandato di cattura internazionale nei confronti di Öcalan e doveva essere estradato in Germania dove però c’erano sia una grande comunità curda che una grandissima comunità turca e, dunque, la presenza di Öcalan avrebbe alimentato tensioni sociali di complessa gestione. Il governo tedesco ha sempre evitato di chiedere l’estradizione anche quando, ricercato, riuscì a entrare in Italia. La gestione di quel caso impegnò il nostro Paese, non fu mai estradato in Germania e non mi pare abbia scatenato un putiferio come quello a cui stiamo assistendo».
Alcune cancellerie europee di Paesi in difficoltà al loro interno potrebbero gradire un ridimensionamento del premier italiano ora che appare un possibile elemento di mediazione tra le sponde dell’Atlantico?
«Se fosse vero sarebbe un errore grave prestare il fianco a questo tentativo. Il tema della difesa dell’interesse nazionale è una priorità sulla quale mi auguro che tutte le forze politiche possano convergere. Quando Silvio Berlusconi fu oggetto delle risatine di scherno di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, da vicecapogruppo dei senatori Pd e quindi esponente dell’opposizione, feci una dichiarazione, ahimè poco gradita da parte dell’opposizione, che stigmatizzava quell’attacco, offensivo per il nostro Paese. L’ho sempre pensata così».
Come vanno interpretati i toni antiamericani e contro Elon Musk di Mattarella all’università di Marsiglia?
«Credo che il capo dello Stato abbia voluto porre un problema di fondo, denunciando i rischi provocati dal ruolo che sta assumendo Elon Musk non come imprenditore ma come decisore politico in relazione al funzionamento dei sistemi democratici. Guardi, provo a fare un pronostico: tra qualche mese il vero conflitto sarà tra Musk e Trump».
Parlando di minacce per la democrazia nessuno si preoccupava quando l’amministrazione americana voleva pilotare l’informazione dei social di Meta.
«È vero. Ma oggi Musk sta assumendo un protagonismo che travalica i suoi compiti di imprenditore le cui qualità non sono in discussione».
Mattarella è preoccupato per il ridimensionamento degli organismi sovranazionali come l’Oms che, in realtà, non sono puri come si vuol farci credere.
«Concordo. Funzionano male e devono essere riformati, a cominciare dal consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Tuttavia, boicottare gli organismi sovranazionali ci porterebbe in uno scenario di incertezza ancora peggiore».
Mattarella non si pronuncia sullo scontro istituzionale sui Paesi sicuri, all’estero critica i governi sovranisti: siamo a due indizi?
«Posso sbagliare, ma a mio avviso sarebbe un errore interpretare il discorso di Mattarella come un tentativo di contestare una parte politica e favorirne un’altra. Il nostro capo dello Stato lancia un warning sull’affermarsi di un modello di relazioni internazionali bipolare in cui il più forte può dominare, rispetto a un più salutare sistema multipolare».
Per chiudere, che bilancio fa della sua collaborazione con Massimo D’Alema?
«Gli anni di collaborazione con D’Alema sono stati molto importanti per la mia formazione e con lui ho imparato a pensare con la mia testa. Soprattutto negli ultimi anni non ho condiviso spesso le sue analisi, ma senza per questo mettere in discussione la mia stima e la mia amicizia nei suoi confronti».
Donald Trump ha sparato a palle incatenate contro le grazie presidenziali che Joe Biden ha conferito ai suoi famigliari, oltre che ad alcuni funzionari e deputati antitrumpisti. «Questo tizio andava in giro a graziare tutti. E sapete, la cosa buffa, forse triste, è che non si è graziato da solo», ha detto il presidente, riferendosi al predecessore durante un’intervista rilasciata a Fox News. «Joe Biden ha dei pessimi consiglieri. Qualcuno ha consigliato a Biden di concedere la grazia a tutti tranne che a sé stesso», ha aggiunto. Si tratta di affermazioni che una parte della stampa americana ha interpretato come una velata minaccia nei confronti dell’ex inquilino della Casa Bianca. In altre parole, Trump, che ha comunque precisato che «sarà il Congresso a decidere», non sembrerebbe escludere l’ipotesi di far mettere sotto indagine il predecessore.
Ora, bisognerà vedere se il nuovo presidente si muoverà realmente in questo senso o se si sia trattato di una battuta. È chiaro che, se facesse mettere sotto inchiesta Biden, si tratterebbe di una mossa controversa e istituzionalmente non auspicabile, soprattutto in un’ottica di pacificazione nazionale. Tuttavia, negli ultimi due anni, su queste colonne abbiamo spesso sottolineato che la strumentalizzazione della Giustizia, portata avanti dal Partito democratico, avrebbe finito con lo scoperchiare un vaso di Pandora. Il procuratore generale nominato da Biden, Merrick Garland, nominò il procuratore speciale che avrebbe indagato (e poi incriminato) Trump appena tre giorni dopo che quest’ultimo si era ricandidato alla presidenza. Si trattava, tra l’altro, di novembre 2022: molto tempo prima, cioè, che Biden annunciasse il ritiro dalla campagna elettorale per la riconferma alla Casa Bianca.
Tutto questo, senza trascurare che, nonostante avesse sempre promesso il contrario, lo stesso Biden ha alla fine graziato suo figlio Hunter, che era stato condannato per possesso illecito d’arma da fuoco e per reati fiscali: una mossa, questa, che irritò addirittura alcuni esponenti dem. Non solo. L’allora presidente democratico ha usato il perdono anche per «scudare» in extremis alcuni dei suoi famigliari su cui pesavano fondati sospetti di attività non esattamente cristalline, oltre a rapporti economici opachi con aziende cinesi: si pensi soprattutto al fratello James. Senza poi trascurare che un’indagine della Camera aveva mostrato come Biden, da vicepresidente, avesse tenuto dei comportamenti sospettabili di traffico d’influenze. Insomma, la politicizzazione della Giustizia non è mai auspicabile. Ma è stata l’amministrazione Biden a creare dei precedenti pericolosi su questo fronte.
Lo stesso ex senior advisor di Barack Obama, David Axelrod, ha ammesso che, con le sue grazie ai famigliari, il presidente uscente ha fatto un «regalo» al successore, creando un contesto che ha reso più facile a Trump conferire il perdono presidenziale a coloro che parteciparono all’irruzione in Campidoglio. Tra l’altro, lo Speaker della Camera, Mike Johnson, ha lasciato intendere che potrebbe essere avviata un’indagine parlamentare sulle grazie di Biden. Accadde già nel 2001, quando il Congresso indagò sul perdono concesso in extremis da Bill Clinton al miliardario Marc Rich: si voleva infatti capire se quel provvedimento fosse un “ringraziamento” per dei finanziamenti elettorali. Inoltre attenzione: il dipartimento di Giustizia di Biden mise nel mirino alcuni gruppi considerati sgraditi, come gli attivisti pro life. Uno di loro, Mark Houck, fu addirittura arrestato con grande spiegamento di mezzi da parte dell’Fbi nel 2022, per poi venire assolto durante il processo tenutosi l’anno successivo. Ebbene, ieri è emerso che il nuovo presidente avrebbe intenzione di concedere la grazia a vari attivisti pro life attualmente in carcere. Nel frattempo, Trump sta proseguendo con la linea dura sull’immigrazione irregolare. Secondo Fox News, tra il 21 e il 22 gennaio, l’Immigration and customs enforcement ha effettuato oltre 460 arresti di clandestini con precedenti penali per aggressione sessuale, furto e rapina. In particolare, i Paesi di provenienza interessati sono Afghanistan, Angola, Bolivia, Brasile, Colombia, Repubblica Dominicana, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Messico, Nicaragua, Senegal e Venezuela. Gli arresti hanno inoltre avuto prevalentemente luogo in Illinois, Utah, California, Minnesota, New York, Florida e Maryland. A Boston sono stati infine arrestati alcuni membri della pericolosa gang Ms-13. Intanto però, un giudice federale di Seattle ha bloccato temporaneamente l'ordine esecutivo di Trump per abolire lo ius soli, definedolo «incostituzionale». In tutto questo, il presidente americano sta prendendo in considerazione l’ipotesi di schierare altri 10.000 soldati alla frontiera. Trump ha anche firmato un decreto che prescrive ai dipartimenti di Giustizia, Stato e Sicurezza interna di «intraprendere tutte le azioni necessarie per respingere, rimpatriare e rimuovere immediatamente gli immigrati clandestini attraverso il confine meridionale degli Stati Uniti». La nuova amministrazione americana ha inoltre interrotto il funzionamento di Cbp One: l’app che veniva utilizzata dai migranti per prenotare appuntamenti ai varchi d’ingresso della frontiera. Insomma, è chiaro che Trump vuole usare i primi giorni di presidenza per lanciare un messaggio chiaro e incrementare la deterrenza al confine.

