È la principale causa di morte giovanile in Europa, ma quasi non se ne parla. No, non stiamo parlando di droghe, alcool né dei pur assai letali incidenti stradali. Stiamo parlando del suicidio, piaga che un recente report dell’agenzia Eurofund, intitolato Mental health: Risk groups, trends, services and policies e basato sul 2021, ha rilevato appunto essere la prima causa dei decessi dei giovani tra i 15 e i 29 anni, riguardando quasi uno su cinque di essi (18,9%, pari a circa 5.000 casi) e superando, così, la già vasta quota di giovani vite (16,5%) perse a causa degli incidenti stradali. In generale, gli aumenti più significativi del fenomeno hanno riguardo le donne sotto i 20 anni e gli uomini sopra gli 85, anche se indubbiamente esso tocca soprattutto il sesso maschile, che sconta una probabilità di suicidio 3,7% più elevata della controparte femminile, che pure risulta più propensa a segnalare i propri disagi mentali e a cercare aiuto.
Ma a preoccupare è soprattutto il dilagare giovanile del suicidio, del quale ormai anche la stampa ha preso coscienza. Il 20 ottobre sulle colonne del Guardian Tobi Thomas ha firmato un articolo che riporta come, in Inghilterra, «i tassi di suicidio tra i giovani» siano «aumentati del 50% in 10 anni». Le cose non vanno meglio in Germania dove Diane Kotte, coordinatrice nazionale di [U25] - un servizio di prevenzione che può contare su 330 volontari -, ha confermato come i tentativi di suicidio siano più frequenti tra gli under 25 e che il suicidio sia, da quelle parti, la seconda causa di morte più comune della categoria. Anche in Francia, dove la situazione apparentemente è stabile, sono in netto aumento (+24%) i casi di ragazzine tra gli 11 e i 17 anni coinvolte in tentativi di suicidio o autolesionismo e l’opinione pubblica è ancora sconvolta dal suicidio, avvenuto nei giorni scorsi nella Mosella, di Sara una bambina di appena 9 anni trovata impiccata in casa sua: faceva la quinta elementare e ha lasciato anche un breve biglietto di addio alla famiglia.
E l’Italia? Anche qui la situazione è grave. Quasi 7.000 persone, lo scorso anno, hanno chiesto supporto perché attraversate dal pensiero del suicidio, fenomeno in aumento se si pensa che si è passati dai 3.680 casi del 2019 ai quasi 4.000 (3.934) del 2022. Una crescita che ha interessato tutte le fasce di età, ma risultata assai vistosa tra i giovani, dove dal 2020 al 2021 – in un solo anno - l’impennata registrata è stata del 16%. Certamente la pandemia, i lockdown e l’isolamento sociale hanno a questo proposito avuto un ruolo, ma sarebbe ingenuo attribuire ad un solo evento la genesi multifattoriale di un fenomeno, come si è poc’anzi visto, di portata internazionale. Dunque, che fare? Appare evidente, dinnanzi ad una situazione simile, la necessità di interrogarsi seriamente su quali possono essere i fattori di rischio intercettabili per prevenire gesti estremi.
In estrema sintesi, tra le principali cause dell’ideazione suicidaria troviamo quattro elementi. Il primo sono dei disagi e problemi di salute mentale, dalla depressione all’ansia, fino al disturbo bipolare; in secondo luogo, ci sono gli eventi traumatici e le situazioni di stress prolungato; in terza battuta, un ruolo lo svolge l’isolamento sociale - con le conseguenti solitudine e mancanza di supporto -; infine, certamente a peggiorare la situazione può esserci l’uso di droghe o alcol. A questi fattori di rischio, ne vanno sommati e considerati almeno altri due degni di nota.
Il primo riguarda le dinamiche familiari e, in sintesi, il fatto che i figli di genitori che si sono tolti la vita corrono un rischio assai più elevato, purtroppo, di seguire tali orme. Uno studio prospettico pubblicato su Jama Psychiatry – effettuato monitorando tra il 1997 e il 2012 la situazione di 701 figli (età media 17,7 anni) – ha portato i suoi autori a concludere come una storia di tentativi di suicidio da parte dei genitori comporti un rischio quasi cinque volte maggiore di tentativi di suicidio nella prole a rischio di disturbi dell’umore, anche dopo aver tenuto conto della trasmissione familiare dei disturbi dell’umore. Una più recente metanalisi pubblicata nel 2021 sul British Journal of Psychiatry – e realizzata su 20 studi precedenti isolati a partire da un database di oltre 3.600 articoli sul tema –, ha dato una stima più contenuta, rilevando che i figli esposti al suicidio dei genitori hanno una probabilità tre volte maggiore di morire per suicidio e due volte maggiore di tentare il suicidio. Sono evidenze che comunque fanno capire come una buona strategia per contrastare il suicidio tra i giovani sia quella di contrastare lo stesso fenomeno nella popolazione adulta e dei genitori. In aggiunta a quello familiare, rispetto a quelli più tradizionali un secondo ulteriore fattore di rischio – rilevante anche perché emergente proprio in questi anni – è quello legato all’uso nei giovanissimi degli smartphone, uso che molto spesso è strettamente correlato alla depressione e all’isolamento sociale.
Eloquenti, a questo proposito, appaiono le evidenze emerse da un recente studio pubblicato sul Journal of the human development and capabilities e realizzato dalla neuroscienziata Tara C. Thiagarajan e colleghi esaminando i questionari di oltre 100.000 giovani adulti di età compresa tra 18 e 24 anni. Ebbene, ciò che con questo lavoro si è visto è che i bambini di età inferiore ai 13 anni che avevano accesso a uno smartphone scontavano maggiori probabilità di coltivare pensieri suicidi, di avere una minore autostima nonché un distacco dalla realtà rispetto ai coetanei. Più precisamente, il 48% delle ragazze che possedeva uno smartphone all’età di 5 o 6 anni ha dichiarato di avere gravi pensieri suicidi, rispetto al 28% delle ragazze che possedevano uno smartphone all’età di 13 anni o più; analogamente, tra i ragazzi, il 31% di coloro che possedeva uno smartphone entro i 5 o 6 anni ha riferito di avere gravi pensieri suicidi, mentre il 20% dei giovani che possedeva uno smartphone entro i 13 anni o più ha riferito di avere gravi pensieri suicidi. Analogamente, uno studio che ha monitorato oltre 4.000 adolescenti per quattro anni – pubblicato lo scorso giugno su Jama, ed eloquentemente intitolato Addictive screen use trajectories and suicidal behaviors – ha riscontrato che i soggetti con elevata e crescente dipendenza da telefonini cellulari e social media sono risultati associati a un rischio maggiore di pensieri e comportamenti suicidari.
Non si deve leggere simili statistiche come un tentativo di demonizzare gli smartphone, ovviamente. Tuttavia, se esperti anche italiani del calibro del professor Alberto Pellai incoraggiano il più possibile i genitori a posticipare il regalo di questi dispositivi ai loro figli, ecco, una qualche ragione c’è. Ed ha evidentemente a che fare con il loro benessere e con il contenimento di dinamiche di rischio della salute mentale – oltre che dell’isolamento sociale, dato che spesso le due cose sono collegate – che non debbono assolutamente essere sottovalutate. Non ci si può infatti illudere di contrastare la nuova pandemia suicidaria delegando a terzi un compito educativo che, al contrario, origina ed ha il suo ambito prevalente sempre nella famiglia – come del resto anche le ricerche poc’anzi citate mostrano in modo chiaro. Se si dimentica questo, si corre un enorme pericolo di sottovalutazione.
«La nostra cultura continua a considerare il dolore un tabù»
La Verità ha avvicinato Michela Pensavalli, psicologa, psicoterapeuta e coordinatrice dell’Istituto di Terapia Cognitivo Interpersonale (Itci) di Roma
Dottoressa, il suicidio è la prima causa dei decessi giovanili in Europa.
«Il dato colpisce, ma purtroppo non sorprende del tutto. Nel nostro Istituto riceviamo ogni giorno richieste da famiglie che osservano nei figli segnali di disagio profondamente preoccupanti. Il suicidio rappresenta il segnale di una sofferenza meno visibile ma più profonda: una perdita di senso, l’isolamento, la fragilità delle relazioni e la pressione di modelli di successo difficili da raggiungere».
Quali sono le cause?
«Le cause sono molteplici. I giovani oggi si percepiscono più fragili: i social media amplificano il confronto costante, accrescono l’ansia da prestazione e alimentano la paura di non essere “abbastanza”. A questo si aggiungono la precarietà lavorativa, l’instabilità economica e la crisi ambientale - tutti elementi che minano la fiducia nel futuro e rendono difficile immaginare progetti di vita stabili e significativi. Siamo più connessi, ma anche più soli. Molti ragazzi si sentono invisibili, privi di reti di supporto o di adulti significativi a cui potersi affidare. Inoltre, la nostra cultura continua a proporre il tabù del dolore: si fatica a parlare del proprio figlio depresso o in difficoltà, e permane lo stigma. Chiedere aiuto viene ancora percepito come segno di debolezza».
L’isolamento sociale della pandemia ha peggiorato della situazione?
«Assolutamente sì, possiamo dirlo con chiarezza. L’isolamento imposto dalla pandemia ha avuto un impatto profondo sulla salute mentale, soprattutto dei più giovani, che si sono trovati improvvisamente privati dei loro spazi di crescita, socialità e confronto. Per molti adolescenti, la scuola, lo sport e le amicizie rappresentano non solo luoghi di apprendimento, ma vere e proprie palestre di identità: servono a definirsi, a misurarsi con gli altri, a sperimentare l’autonomia. Quando questi canali si sono interrotti bruscamente, è venuto meno un equilibrio già fragile. A ciò si è aggiunta una convivenza forzata in contesti familiari talvolta conflittuali o emotivamente impoveriti, accompagnata dalla paura e dall’incertezza collettiva. Il risultato è stato un aumento marcato dei disturbi d’ansia, dell’umore, dei comportamenti autolesivi e delle difficoltà nella regolazione emotiva. La pandemia non ha creato il disagio, ma lo ha amplificato e reso più visibile».
Quali sono i segnali cui prestare più attenzione?
«I segnali non sempre sono eclatanti: spesso si manifestano in modo sottile, ma persistente. Possono comparire cambiamenti improvvisi e duraturi dell’umore o del comportamento, come chiusura, irritabilità, perdita di interesse per attività prima amate, oppure, al contrario, un’apparente calma “strana” dopo un periodo di forte tristezza. Anche l’isolamento sociale è un campanello d’allarme importante: la riduzione dei contatti, il ritiro dal gruppo o la tendenza a restare molto tempo soli, specie se accompagnati da frasi disfattiste, meritano sempre attenzione. Altri segnali possono riguardare il sonno e l’appetito: insonnia, ipersonnia, perdita o aumento marcato dell’appetito. Anche le espressioni verbali di disperazione o autosvalutazione vanno prese sul serio, persino quando vengono espresse in tono ironico o scherzoso. Minimizzare, per paura di confrontarsi con un disagio, è un errore grave. Vanno inoltre considerate con estrema cautela le condotte autolesive o a rischio come tagli superficiali, abuso di alcol o sostanze, guida spericolata, perché spesso rappresentano tentativi impliciti di chiedere aiuto o di anestetizzare il dolore. È fondamentale ascoltare senza giudizio e non sottovalutare mai ciò che si osserva».
Quali sono i fattori protettivi per arginare il fenomeno?
«In primo luogo, è fondamentale favorire relazioni affettive stabili e significative: la presenza di adulti affidabili, empatici e disponibili all’ascolto, come genitori, insegnanti, allenatori o terapeuti, rappresenta una vera forma di protezione, perché sentirsi “visti” è già un modo per sentirsi salvi. All’analfabetismo emotivo che caratterizza la vita di molti giovani iperconnessi e soli deve contrapporsi un’educazione emotiva e una solida alfabetizzazione psicologica. Imparare fin da piccoli a riconoscere, nominare e gestire le proprie emozioni riduce il rischio che il dolore si trasformi in comportamenti disfunzionali. Le scuole dovrebbero diventare veri e propri laboratori di competenze emotive, non solo cognitive. Convocare i giovani alla socialità reale è altrettanto fondamentale: occorre creare spazi e occasioni in cui possano stare insieme. È inoltre indispensabile garantire un accesso facilitato ai servizi di salute mentale: sportelli d’ascolto, psicologi scolastici e presidi territoriali. Un’altra parola d’ordine è coltivare l’autostima e il senso di efficacia personale: aiutare i giovani a sperimentare piccoli successi, a sentirsi capaci e competenti, a tollerare la frustrazione, significa contrastare la cultura del “tutto e subito”».
La fede riduce i rischi del 69%
Un grande, anzi decisivo fattore protettivo rispetto al fenomeno del suicidio è quello della religione. Spesso poco ricordato in un’epoca laica e secolarizzata quale è quella che, almeno in Occidente, si vive, esso è stato alla base delle prime ricerche sociologiche. Non a caso, con il più noto lavoro di uno dei padri della sociologia, Le Suicide (1897) di Émile Durkheim, si era già messo in luce un aspetto in tal senso, e cioè la relazione tra religione e suicidio in Europa, evidenziando in particolare come le province protestanti presentassero tassi di suicidio più elevati rispetto alle cattoliche. La pionieristica ricerca di Durkheim è stata in seguito corroborata da moltissimi altri lavori, che oggi ci confermano come la fede religiosa sia un elemento prezioso nel contenere il rischio di gesti estremi.
Giusto poche settimane fa, a settembre, è stata pubblicata sulla rivista scientifica Jaacap Open una revisione della letteratura a partire da 61 studi condotti in tutto il mondo, con un campione complessivo di oltre 340.000 persone. Ebbene, la stragrande maggioranza di queste ricerche (il 67,2%) ha riscontrato associazioni protettive tra religiosità/spiritualità e tendenza al suicidio, portando gli autori di tale pubblicazione, guidati da Talitha West, a concludere «che gli adolescenti che dichiaravano di essere più religiosi o spirituali avevano meno probabilità di pensare al suicidio o di tentare il suicidio». D’accordo, ma a quanto ammonta l’effetto protettivo garantito dalla religione?
Una risposta ci arriva leggendo un lavoro uscito nel 2021 sul Journal of health science research – e anche in questo caso effettuato considerando decine di studi precedenti (63) –, dal quale si apprende come «la religione riduce il rischio di morte per suicidio del 69%». Per la verità, la fede – intesa come fede vissuta recandosi con regolarità nei luoghi di culto – garantisce effetti protettivi anche nei confronti di altre piaghe che colpiscono tanti giovani: la tossicodipendenza, il bullismo, gli abbandoni scolastici, ecc. Fermiamoci però al tema del suicidio, perché resta da spiegare come mai la religione protegga i ragazzi dalla tentazione di togliersi la vita. Le risposte che emergono dalla letteratura sono essenzialmente tre.
Anzitutto, credere in Dio significa collocare la propria esistenza in un orizzonte di senso; il che già a priori salvaguardia da pensieri di disperazione o rassegnazione. In seconda battuta, c’è da dire che il credente – non certo risparmiato, nel corso della sua vita, da momenti dolorosi – ha nella preghiera un sollievo decisivo, documentato ormai da migliaia di studi scientifici, che ne riscontrano benefici persino fisici, come per esempio nei tempi di guarigione da una malattia. In terzo luogo, e questa è anche una spiegazione di un altro legame rilevante – quello tra fede praticata e longevità –, vivere la pratica religiosa significa essere parti d’una comunità. Quindi non solo prendere parte a riti e liturgie, ma essere parte di un complesso di relazioni frequenti e solidali; in tempi di dilagante solitudine, ciò acquista un valore enorme.
Alla luce di simili considerazioni, non c’è allora da stupirsi del fatto che credere in Dio protegga dal suicidio. Ciò che invece dovrebbe meravigliare è l’ostinazione con cui la cultura dominante scredita o marginalizza il rilievo sociale della religione, a partire da quella cristiana e in particolare cattolica, quando essa rappresenta un così prezioso pilastro bel bene comune.