La Ferrari scavalca Stellantis. Adesso occupa il secondo posto per valore di mercato alla Borsa di Milano. Il gioello di Maranello capitalizza 64 miliardi di euro. Il colosso italo-fancese 62,6 miliardi. In testa alla classifica c’è Enel con circa 70 miliardi. Se il titolo Ferrari continuerà a salire alla velocità attuale potrebbe scavalcare il colosso elettrico. Magari facesse lo stesso Leclerc con Verstappen. La novità deve far riflettere: una fabbrica di automobili di gran lusso che produce 13.000 auto l’anno (ma fino a pochi anni fa erano meno 10.000) potrebbe essere fra qualche settimana il titolo di maggior valore della Borsa di uno dei Paesi del G7. Si potrà sempre obiettare che Piazza Affari non rispecchia il panorama industriale dell’Italia essendo piccola e, fino a qualche anno fa neanche tanto ben frequentata. Tutto vero. Ma il tema resta. Soprattutto nel confronto con Stellantis. Sempre più evidente che John Elkann ha deciso di tenersi il gioiello di color rosso lasciando ai francesi il compito di gestire il problematico futuro dell’azienda che un tempo si chiamava Fiat e poi Fca. La situazione di oggi è la seguente: la Ferrari, nel suo unico stabilimento in provincia di Modena con 5.000 dipendenti contribuisce ad una creazione valore maggiore di Stellantis, quarto costruttore mondiale di auto, con decine di stabilimenti in tutto il mondo e 86.000 dipendenti.Poi si potranno fare mille precisazioni e spaccare il capello in otto: ma la realtà è questa. Com’è potuto succedere? Dalle fabbriche italiane della Fiat uscivano 2 milioni di auto l’anno. Adesso a stento si arriva 600.000. La Fiat era una parte determinante del Pil italiano. Addirittura essenziale. Enrico Cuccia, gran patron di Mediobanca non aveva dubbi: «Quello che va bene alla Fiat va bene anche all’Italia». Tutto questo ora non c’è più. Il Cavallino Rampante regalato dalla madre di Francesco Baracca disegnato sul cofano ha un peso sul Pil italiano pari a zero. Molto emozionante, per carità, ma poi? Tutto molto glamour ma di consistenza economica molto limitata. Eco mediatica immensa: una Ferrari Gto del 1962 è stata venduta la settimana scorsa a 51,7 milioni di euro. E non importa se quelle auto erano tanto potenti quanto inguidabili. Cambio impossibile, frizione durissima, abitabilità problematica. Attorno a quei motori però è stato costruito il Mito. Nel frattempo la Fiat è stata demolita. Certo ci sono stati errori imprenditoriali colossali (su tutti il licenziamento di Vittorio Ghidella, padre della Punto e della Thema) il cui costo è stato costantemente scaricato sulla collettività. Oggi i veri azionisti del gruppo dovrebbero essere i contribuenti italiani. Tutto questo, con la complicità di partiti, governo (Prodi che ferma il passaggio dell’Alfa alla Ford) e del sindacato. A cominciare da Maurizio Landini che ormai preferisce farsi intervistare a giorni alterni dai giornali del gruppo Agnelli anzichè affrontare i problemi delle fabbriche del gruppo Agnelli. E forse non è nemmeno la peggior tragedia. Quando si è occupato di Fiat è stato dalla parte sbagliata. Come dimenticare Landini segretario generale della Fiom in lotta con Sergio Marchionne con scioperi e ricorsi in tribunale senza capire che aveva di fronte l’ultimo difensore delle fabbriche italiane del gruppo (lo stabilimento di Termini Imerese che fu chiuso era stato un azzardo fin dall’inizio). Non a caso la fioritura di Ferrari nasce proprio dalla decisione del supermanager italo canadese di darle vita autonoma lontano dal resto. Eppure la storia della Cgil è in simbiosi con Mirafiori, la città industriale che al momento del massimo splendore contava 50.000 dipendenti. Il più grande impianto industriale d’Europa e forse del mondo. Intorno a quelle catene di montaggio sono state costruite le pagine più importanti della storia del sindacato e della sinistra italiana. Dall’autunno caldo del 1979 che segna l’inizio dell’egemonia sindacale in fabbrica fino alla marcia dei 40.000 che ne segna la fine. Oggi sono arrivate 15.000 mail agli impiegati per incentivarli a lasciare l’azienda. Sono gli eredi dei 40.000 del 1980. La rivalsa di Cgil, Cisl e Uil. La firma però è quella di Carlo Tavares, amministratore delegato Stellantis.
La favola della joint-venture sino-americana Silk-Faw, l’improbabile (almeno a livello geopolitico) alleanza industriale tra Pechino e New York in terra emiliana è ai titoli di coda. La fabbrica di supercar elettriche più volte sponsorizzata da Romano Prodi e dal governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini che avrebbe dovuto sorgere a Reggio Emilia non aprirà mai. Anche se ancora nelle scorse ore l’amministratore delegato Giovanni Lamorte (sarebbe troppo scontato giocare con il suo cognome) aveva provato a rilanciare sui giornali il progetto.
Ieri la Regione ha revocato il contributo da 4,5 milioni di euro che la Silk-Faw si era aggiudicata partecipando a un bando del 2021 «per l’attrazione degli investimenti in Emilia-Romagna». Contestualmente l’ente ha «stracciato» l’accordo per la costruzione dello stabilimento. Nella determina dirigenziale firmata dalla giunta si fa riferimento alla «volontà di rinunciare all’accordo di insediamento e sviluppo sottoscritto in data 27 aprile 2022» da parte della stessa società. Una decisione di cui la Regione avrebbe semplicemente preso atto. I finanziamenti di fatto erano ancora «congelati», dal momento che erano legati a un impegno di spesa da 11 milioni da parte della Silk-Faw, che, però, non ha mai sborsato quel denaro. Infatti la società guidata dal discusso finanziere Usa Jonathan Krane, nonostante nel 2021 avesse promesso investimenti per un miliardo e 5.000 assunzioni, indotto compreso, non è neanche riuscita a completare l’acquisto del terreno reggiano opzionato per la costruzione dello stabilimento. Diversi top manager e una quarantina di dipendenti si erano già licenziati chiedendo la messa in mora della ditta che ora sta facendo fronte a una quindicina di decreti ingiuntivi con la dilazione degli stipendi arretrati.
Certo Silk-Faw potrà ricorrere contro il provvedimento della Regione, ma risulta difficile immaginare che lo farà vista la rinuncia all’accordo con la Regione.
Ma perché allora è stato messo in piedi questo carrozzone? Il sospetto degli inquirenti di Reggio Emilia e della Guardia di finanza è che qualcuno volesse incassare fondi pubblici e magari scappare con il malloppo. L’indagine nasce da un esposto presentato l’estate scorsa dall’avvocato Gianluca Vinci, parlamentare di Fratelli d’Italia, e segue la pista dei soldi. Del resto la Silk-Faw non ha bussato a denari solo con la Regione, ma anche con Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, all’epoca guidata dal commissario Domenico Arcuri.
Il fascicolo d’inchiesta nei giorni scorsi è passato da modello 45 (senza ipotesi di reato, né indagati) a modello 44, ovvero il registro riservato a contestazioni precise: infatti i magistrati adesso ipotizzano la tentata truffa aggravata ai danni dello Stato e, tra le possibili accuse, ancora non formalizzate, c’è anche il riciclaggio.
La scorsa settimana le Fiamme gialle hanno fatto visita agli uffici romani di Invitalia proprio nell’ottica di questo presunto tentativo di accedere a finanziamenti non dovuti.
La storia l’aveva raccontata questo giornale in esclusiva ad agosto. La sedicente casa automobilistica Silk sports car (questa l’ultima denominazione), scommettendo sui cordoni larghi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, aveva chiesto 38 milioni di fondi a Invitalia, prospettando investimenti da 380 milioni di euro.
La domanda di agevolazione era stata inoltrata nell’ambito della convenzione quadro per i contratti territoriali riguardanti progetti con finalità di ricerca, sviluppo e innovazione. Un settore in cui rientra la mobilità elettrica. Invitalia aveva il compito di svolgere le istruttorie sulle domande e di gestire la «misura agevolativa».
Per ottenere il contributo la Silk-Faw ha dovuto presentare un piano industriale e finanziario alla direzione competente di Invitalia. Ma, a quanto risulta alla Verità, il dossier con dentro l’istanza, visti i continui intoppi alla partenza del progetto, sarebbe finito in un cassetto. Che adesso qualcuno ha dovuto riaprire, dal momento che quei documenti sono diventati d’interesse per i magistrati. Ecco spiegata la visita al quartier generale dell’agenzia da parte delle Fiamme gialle.
Nonostante questo quadro sconfortante, Lamorte, appena tre giorni fa, dopo aver spiegato che i trenta lavoratori superstiti erano tutelati da contratti di solidarietà, aveva provato a rilanciare il progetto sulle pagine del Sole24ore: «L’accordo di programma con il Comune di Reggio Emilia è tuttora attivo e c’è un gentleman agreement con la proprietà del terreno di Gavassa su cui costruire lo stabilimento. Mancano le risorse finanziarie, perché la guerra ha ostacolato lo smobilizzo degli investimenti da parte dei fondi coinvolti, ma ci saranno presto novità. Tra una decina di giorni saremo pronti a diffonderle». E aveva fatto sapere che, dopo due anni di pandemia e videoconferenze, entro fine marzo sarebbe dovuta sbarcare dalla Cina «una delegazione in carne e ossa di rappresentanti del governo di Xi Jinping che controlla Faw, il più antico e grande gruppo automobilistico». «I cinesi stanno pianificando una visita in Italia» aveva confermato.
Ma dopo la notizia della svolta giudiziaria e della revoca del contributo regionale, siamo abbastanza certi che gli emissari di Pechino preferiranno girare alla larga.
E pensare che meno di un anno fa, l’ex premier Prodi ci aveva messo la faccia pubblicamente: «Quasi certamente in questa Regione saranno realizzate quelle che vengono chiamate supercar, un modello unico al mondo» erano state le sue, poco profetiche, parole.
Ogni giorno, nella vicenda dei bolidi «Bandiera rossa» (questo il nome) che dovrebbero essere costruiti a Reggio Emilia da una società sino-statunitense, emerge qualche nuova magagna. Anche se la politica non sembra curarsene troppo. Persino il nome è un piccolo mistero. Per esempio, la Silk-Faw automotive group Italy Srl, quella che, a partire dal 2023, dovrebbe costruire le supercar elettriche, il 23 maggio 2022, è stata ribattezzata Silk sports car company Srl. Stesso destino per la controllante irlandese. Il tutto nel giro di cinque giorni. Insomma da tre mesi il marchio cinese Faw è sparito dalle ragioni sociali. Dentro all’azienda la scusa è che Faw era un brand troppo cheap, ma il timore è che ci sia un disimpegno della componente asiatica della joint venture. Tanto che qualcuno è arrivato a pensare che la lettera che ., supposto rappresentante cinese del gruppo, inviata a luglio ai vertici dalla Regione e redatta su carta non intestata, possa essere un clamoroso apocrifo. Anche perché Chongtian Li viene indicato come «board member» di una non meglio indentificata azienda. Resterebbe in pista solo il chiacchierato finanziere Jonathan Adam Krane, cinquantatreenne originario del Connecticut, che si affaccia per la prima volta nel mondo della auto di lusso. Siamo di fronte a un vero progetto internazionale da 1 miliardo di euro o a una riedizione dei Soliti ignoti? Quello che sappiamo è che da quando ha lanciato la sua impresa non è ancora riuscito a formalizzare l’acquisto dei terreni su cui dovrebbe sorgere la fabbrica. Ma non mancano solo quei 30 milioni di euro all’appello.
Le grane arrivano anche dagli Stati uniti d’America. Qui la Securities and exchange commission (Sec), l’equivalente della nostra Consob, ha avviato una sorta di procedura di infrazione contro un’azienda produttrice di veicoli elettrici, la Ideanomics, per la mancata conformità di una parte della documentazione societaria, che la ditta si è impegnata a sanare entro settembre. In una nota della Sec si legge che la Ideanomics avrebbe prestato 15 milioni di dollari alla Silk Ev Cayman, una delle scatole cinesi collegate alla Silk italiana. Tale denaro sarebbe dovuto servire «alla costituzione e alle operazioni commerciali di Silk-Faw automotive group limited e/o di alcune delle sue affiliate». In un altro documento si fa espresso riferimento al nostro paese: «Silk Ev è una società di servizi di progettazione e ingegneria automobilistica statunitense/italiana, impegnata principalmente nella progettazione, sviluppo e servizi di produzione per auto premium, di lusso e hypercar completamente elettriche. Ideanomics ha ricevuto le consuete dichiarazioni e garanzie da Silk Ev». Si tratterebbe di una sorta di cambiale che Silk Faw avrebbe dovuto onorare dopo un anno, il 28 gennaio 2022, pagando il 6 per cento di interessi. Sui siti statunitensi che monitorano le società quotate si trova traccia di un’azione legale intrapresa nell’aprile scorso da Ideanomics contro Silk Ev Cayman Lp davanti alla Corte suprema dello Stato di New York. La società americana chiedeva alla Silk Ev 16 milioni di dollari, poco di più del capitale prestato e degli interessi concordati.
Va detto che, negli Stati Uniti, anche la reputazione di Ideanomics è controversa. Fondata nel 2004 come China Broadband Inc, dall’ex lottatore di wrestling Shane McMahon, prende l’attuale denominazione nel 2017, quando nella compagine entra il cinese Wu Zheng, detto Bruno Wu. Questi è citato su Internet per aver provato a lanciare un hub tecnologico da 400 milioni di dollari, mai inaugurato, nella città natale di Krane. A sua volta il manager a stelle e strisce ha fondato in Cina una società attiva nel settore dei media, lo stesso da cui proveniva Wu. Solo coincidenze o tracce di un sodalizio finito in tribunale? Oggi Krane è presidente della Silk sports car, fondata nel dicembre 2020. Nel primo e unico bilancio depositato, dichiarava un capitale sociale di 10.000 euro, dato confermato anche dal verbale dell’assemblea dei soci del 30 settembre 2021. Ma dallo statuto della società depositato alla Camera di commercio l’8 ottobre emerge una cifra totalmente diversa: 18,5 milioni di euro. Dalla visura digitale il capitale oggi risulta ancora più alto: 26,66 milioni di euro. Ci sono dentro anche i soldi che il wrestler ha chiesto indietro alla Silk caraibica un mese prima del cambio di nome della Silk italiana e di quella irlandese? Chissà.
I problemi comunque non mancano neanche in Italia. Nei giorni scorsi 17 impiegati hanno chiesto la messa in mora della società per il mancato pagamento di tre mensilità di stipendi. Persino uno dei top manager, Carlo Della Casa, a quanto ci risulta si sarebbe rivolto anche a uno studio legale per ricevere i propri emolumenti arretrati. L’amministratore delegato Giovanni Lamorte ha lanciato un grido disperato, spiegando ai creditori che un’azione giudiziaria porterebbe al «fallimento della società». L’ad ha fatto riferimento ad altri «debiti prioritari rispetto agli stipendi». Un dipendente ci ha parlato di 30 milioni di buffi nei confronti dei fornitori. Sarebbe in ritardo anche il bonifico da 10.000 euro, con scadenza il 10 agosto, per la locazione degli uffici di rappresentanza subaffittati da una società comunale.
Dunque la Silk, dopo aver annunciato un investimento miliardario non sarebbe in grado di affrontare le spese correnti. La Procura ha aperto un fascicolo esplorativo, delegando le indagini alla Guardia di finanza, dopo aver ricevuto un esposto da parte del deputato di Fratelli d’Italia Gianluca Vinci. Quel che sappiamo è che la società sta cercando investitori ovunque. Ha ricevuto la promessa dalla parte della Regione Emilia Romagna di un finanziamento di 4,5 milioni di euro. Poi ha presentato un’istanza di accordo di sviluppo nell’ambito dello sportello M1C2 del Pnrr (contratti di sviluppo per la competitività e resilienza delle filiere). La domanda è in fase istruttoria presso l’ufficio startup di Invitalia. A quanto risulta alla Verità i dirigenti avrebbero avuto importanti interlocuzioni istituzionali e avrebbero usato come leva di promozione le prospettive occupazionali nell’area di Reggio Emilia e gli impegni presi nell’ambito della ricerca con alcune università italiane. E in questa spasmodica caccia all’accreditamento hanno potuto contare su uno sponsor d’eccezione come l’ex premier di Romano Prodi. Nel frattempo anche il Comune di Reggio Emilia si è molto esposto cancellando con un accordo di programma gli oneri milionari di urbanizzazione normalmente dovuti da chi realizza uno stabilimento del genere. I rappresentanti locali del Movimento 5 stelle Paola Soragni e Giancarlo Setti hanno anche scoperto che la partecipata Società per la trasformazione urbana Reggiane Spa, il 9 giugno 2021, ha siglato un contratto di locazione del valore di 20.000 euro più Iva per un ufficio di 200 metri quadrati con la Ghg holding presieduta dall’ex assessore Graziano Grasselli, locali che il giorno dopo sono stati subaffittati alla Silk-Faw.
L’azienda automobilistica paga 34.000 euro l’anno più Iva per 413 metri quadrati (i 200 della Ghg più 213 della Stu), in pratica 17 mila euro ogni 200 metri. «Dunque la Stu Reggiane Spa incassa in proporzione un canone inferiore rispetto a quello che la stessa versa a Ghg» rilevano i grillini che hanno chiesto chiarimenti nelle commissioni comunali interessate alla questione. Ma se le istituzioni, forse persuase dall’entusiasmo del reggiano Prodi, hanno srotolato tappeti rossi, i top manager della Silk-Faw sono quasi tutti scappati.
Chi è rimasto nella governance sta cercando disperatamente soldi in giro. Magari sfruttando l’endorsement delle autorità italiane. Aperture di credito potenzialmente utili, per esempio, per convincere, qualche capiente fondo straniero a partecipare all’impresa. A maggio avevamo anticipato che Krane aveva individuato come nuovo socio il Fondo sovrano Kia (Kuwait investment authority) che avrebbe dovuto versare circa 60 milioni di euro (a cui sarebbero dovuti seguire altri 50) per consentire a Krane di onorare gli impegni finanziari presi.
Kia avrebbe dovuto inviare il bonifico a fine aprile alla controllante irlandese della Silk e da lì i denari avrebbero dovuto giungere ai primi di maggio sui conti correnti della controllata italiana. Quei soldi sarebbero dovuti servire all’acquisto dei terreni della frazione Gavassa, ma il rogito non è ancora stato firmato. A maggio nostre fonti avevano saputo che alcuni manager della Silk sostenevano che il fondo Kia fosse disponibile a inviare una lettera alle istituzioni locali per formalizzare il proprio impegno finanziario oltre a confermare che il versamento sarebbe dovuto avvenire entro fine maggio.
Sull’esistenza di questa missiva non abbiamo ottenuto conferme.
- Viaggio nella fabbrica (sponsorizzata da Romano Prodi) che dovrebbe costruire supercar. La lettera dell’ad ai dipendenti senza stipendio: non fateci fallire, siamo al verde.
- Uno dei dipendenti dell’azienda fantasma: «I top manager sono scappati quasi subito e noi non prendiamo soldi da maggio. I piani di investimento? Una “supercazzola”».
Lo speciale contiene due articoli.
«Un tocco di classe». Lo slogan è efficace. La foto vintage è una via di mezzo tra il Quarto stato e la celebre immagine dei carpentieri di New York sospesi per aria su una trave. Il capannone delle vecchie Officine meccaniche reggiane è un monumento all’orgoglio operaio. La vecchia fabbrica di treni, proiettili di artiglieria e caccia militari, nel secondo Dopoguerra venne riconvertita. Qui, tra il 1950 e il 1951, i lavoratori, a fronte di 2.100 licenziamenti, hanno dato inizio alla più lunga occupazione mai avvenuta in Italia, conclusa con la liquidazione coatta dell’azienda. L’area, dopo un lungo abbandono, è stata recuperata dal Comune e trasformata in un Tecnopòlo destinato all’innovazione. Ed è qui che, tra pannelli informativi e gigantografie che glorificano le lotte operaie hanno trovato la loro sede gli uffici della Silk-Faw, l’azienda sino-statunitense che a partire dal 2023 dovrebbe produrre ogni anno 100 auto sportive ibride ed elettriche extralusso (prezzo di listino intorno ai 2 milioni l’una). Un progetto di investimento da circa 1 miliardo di euro, fortemente sponsorizzato dall’ex premier Romano Prodi che, a pieno regime, dovrebbe dare lavoro a un migliaio di persone. Per questo la Regione e il Comune inizialmente hanno applaudito il progetto, promettendo 4,5 milioni di finanziamenti e agevolazioni burocratiche. Ma per ora di tutto questo non si è visto nulla. Se non una sessantina di ingegneri spalmati tra le Reggiane e Campovolo (quello famoso per i concerti di Ligabue), a buttare giù modellini e a progettare software. Attività per cui però sembrano essere finiti gli euro. «Siamo bloccati. L’azienda ha 30 milioni di euro di debiti con i fornitori» ha confessato un ingegnere al Resto del Carlino. E così nel tempio dell’orgoglio operaio oggi scaldano le sedie una sessantina di dipendenti che non percepiscono lo stipendio da maggio.
Nel frattempo la Procura di Reggio, in seguito a un esposto del deputato di Fratelli di Italia Gianluca Vinci, ha deciso di aprire un’inchiesta (per ora senza indagati) e ha delegato la Guardia di finanza a effettuare le prime investigazioni. La situazione descritta dalle qualificate maestranze è sconfortante. Si tratta soprattutto di ingegneri meccanici, elettronici e informatici. Ci sono anche esperti di marketing e di economia. Una ventina di dirigenti e circa quaranta impiegati. Alcuni hanno già dato le dimissioni. Diciassette di loro hanno trovato il coraggio di chiedere la messa in mora dell’azienda per i mancati pagamenti degli stipendi. «I problemi con l’invio dei bonifici sono iniziati quasi subito. Ma due settimane di ritardo per una startup potevano essere fisiologiche. A maggio, però, si è passati a un mese. E da giugno non abbiamo più ricevuto nulla», racconta uno dei firmatari. Lo studio legale Miraglia di Modena ha inviato all’azienda una lettera di intimazione per ottenere gli arretrati dei loro assistiti e il bonus 2021. I legali della Gianni & Origoni hanno risposto, per conto della Silk-Faw, di impegnarsi al pagamento delle retribuzioni che rappresentano «un credito privilegiato», mentre per quanto riguarda i premi l’azienda si riservava di verificarne la sussistenza.
Ma a stupire è soprattutto la risposta dell’amministratore delegato Gianni Lamorte all’avvocato Pasqualino Miraglia: «Comprendo benissimo il malessere dei suoi assistiti, tanto è vero che, come le avranno già detto loro, tutti i dirigenti della società hanno rinunciato al pagamento delle loro ultime quattro mensilità a favore di tutti gli impiegati per favorirli e cercare di diminuire tale malessere». L’autodifesa prosegue: «La società è una startup e quindi gli unici finanziamenti provengono da una ricerca fondi sul mercato che ha tempi che in certi casi mal si sposano con dei progetti aziendali ambiziosi come il nostro». L’ad spiega pure che «gli attivi della società non sono abbastanza capienti per coprire debiti prioritari rispetto agli stipendi» e avverte che il ricorso all’autorità giudiziaria per il recupero dei crediti avrà come unica conseguenza «il fallimento della società senza alcun beneficio» per i dipendenti. A questo punto Lamorte, con velato sarcasmo, conclude: «Immagino che certo questo non sia l’obiettivo dei suoi assistiti, ossia di creare un danno non solo a sé stessi, ma anche a tutti i colleghi». In pratica secondo Lamorte la legittima richiesta di vedere saldati tre mesi di retribuzione da parte di 17 impiegati manderebbe all’aria un progetto da 1 miliardo di euro. Sulla cui solidità, di fronte a una simile affermazione, sorge più di un dubbio.
Infine l’ad invita il legale a «non procedere ad alcuna azione […], in quanto sarà cura dell’azienda in via prioritaria saldare quanto dovuto a tutti i dipendenti appena arriveranno i fondi necessari». Il 10 agosto, nella querelle, interviene direttamente il presidente Jonathan Krane con una mail dal tono empatico: «So che la situazione è stata molto difficile e voglio esprimere il mio profondo apprezzamento per il supporto, il duro lavoro e la fiducia di tutti in questo periodo. So quanto deve essere difficile per voi e le vostre famiglie. Grazie mille per aver creduto nel nostro progetto. Non avremmo mai potuto prevedere la situazione attuale, ma stiamo lavorando giorno e notte per fornire una soluzione completa all’azienda nel breve termine. Mentre stiamo parlando con i partner, sono orgoglioso di dire loro che squadra eccezionale e di talento abbiamo messo insieme. Combattiamo ogni giorno per far sì che la nostra azienda abbia successo e so che con il vostro continuo supporto ciò accadrà. Avremo una soluzione a tutti i problemi entro un paio di settimane».
Di giorni ne sono passati quasi venti e, nel frattempo, gli avvocati dell’azienda hanno chiesto ai lavoratori di pazientare almeno sino a metà settembre. Ma a mandare in bestia i dipendenti, molti dei quali di grande esperienza e provenienti da aziende di primissimo piano come McLaren e Ferrari, è stata la lettera sbandierata dai dirigenti come prova dell’avanzamento dei lavori, ovvero la missiva che il rappresentante cinese della società, Chongtian Li, avrebbe inviato ai vertici della Regione Emilia Romagna. Un documento su carta semplice, senza loghi, indirizzi o contatti mail e telefonici. Un foglietto volante che il dirigente cinese avrebbe spedito al governatore Stefano Bonaccini e all’assessore Vincenzo Colla per ribadire il proprio impegno nell’impresa. Con dichiarazioni d’intenti pompose come questa: «Crediamo che questo investimento progetto possa diventare un modello di cooperazione tra la Cina, gli Stati Uniti e l’Italia, e che possa apportare nuovi contributi allo sviluppo economico del mondo». Nel documento si legge anche: «Faw China lavorerà a stretto contatto con Silk, la Regione Emilia Romagna e la città di Reggio Emilia per promuovere lo sviluppo del sito produttivo italiano di auto sportive HongQi e contribuire al rafforzamento del marchio HongQi». Curiosamente Chongtian Li spiega anche che «in qualità di azionista, Faw China adempirà ai suoi impegni per supportare la joint venture affinché operi in conformità con leggi e regolamenti locali». Quasi un’excusatio non petita. L’assessore Colla non ricorda se la lettera sia arrivata sulla sua scrivania: «Verificherò lunedì al mio rientro. Voglio comunque precisare che la Regione non ha mai erogato un euro alla società e non lo farà senza fatti e certezze rispetto ai loro impegni sanciti in un progetto, che, è sempre bene ricordarlo, è stato avviato tra privati internazionali».
Intanto l’azienda ha chiesto ad Invitalia, l’agenzia nazionale per lo sviluppo di impresa, di accedere alle agevolazioni a sostegno di progetti innovativi di grandi dimensioni, come quelli legati alla mobilità elettrica. Un settore su cui sono state stanziate risorse attraverso il Pnrr. Dal Mise ci fanno sapere che l’istanza è stata presentata ed è in fase istruttoria. L’importo richiesto? «In questa fase lo può comunicare solo l’azienda», ribattono dal dicastero di via Veneto. Ma mentre da Silk-Faw bussano a denari, nella zona dove dovrebbe sorgere la fabbrica non si muove nulla, se non i fili d’erba. Ci troviamo in frazione Gavassa, tra i binari dell’alta velocità, la tangenziale e l’autostrada. Nel vicino cantiere Forsu sta crescendo velocemente l’imponente impianto per il biogas autorizzato negli anni scorsi. Nell’area in cui dovrebbe essere prodotto il nuovo bolide sino-statunitense ci sono solo alcune bandiere blu con il nome dell’azienda lungo una stradina di cemento. Un piccolo prefabbricato blu è l’unico manufatto destinato all’uomo presente sui 360.000 metri quadrati di campi per cui non è stato ancora firmato il rogito. Il cartello di cantiere giace obliquo senza essere stato compilato. Una telecamera ci ricorda che «è severamente vietato l’ingresso». Ma dentro non c’è nulla da proteggere salvo qualche tubo di cemento probabilmente destinato a fognature mai iniziate e un blocco rettangolare che dovrebbe essere un pozzetto. Per ora è questo ciò che resta di un sogno chiamato HongQi, in cinese Bandiera rossa. Come quelle impugnate dagli operai delle Reggiane. Oggi più prosaicamente i dipendenti della Silk-Faw sventolano carte bollate.
«Temo sia solo un maxi riciclaggio»
Paolo, lo chiameremo così, è un tecnico con una grande esperienza nel settore delle automobili sportive e di lusso. Fa parte del gruppo di specialisti di Silk-Faw arrivati dalla McLaren al seguito dell’ex direttore tecnico Carlo Della Casa. Al progetto in molti avevano creduto anche per quella presenza autorevole, ma alla fine i top manager sono scappati e sulla barca, oltre a 18 dirigenti, sono rimasti una quarantina di impiegati, da maggio senza stipendio.
I grandi capi come hanno giustificato il loro addio?
«Roberto Fedeli, storico direttore tecnico della Ferrari, sino al giorno prima ci incitava a pianificare in vista dell’arrivo dei soldi, poi all’improvviso ci ha detto che lasciava perché il suo lavoro, quello di avviare la baracca, era finito e che aveva bisogno di nuovi stimoli. Della Casa, invece, ci ha confessato di non fidarsi più del principale finanziatore, Jonathan Krane, ma ci ha invitato a stare tranquilli perché gli investitori c’erano per davvero. infine Davide Montosi, ex manager sia di Ferrari che di McLaren, nel settore elettronico, ci ha spiegato di non credere più nel progetto».
Beh, se hanno smesso di crederci coloro che avevano messo la faccia sull’impresa, rendendola appetibile…
«Io e altri siamo andati lì per Della Casa, con cui avevamo lavorato in McLaren. Da quando ha lasciato per me non c’è più nessuno di cui fidarsi. Anche altri che lo hanno seguito sono rimasti fregati».
Non ritiene credibile Krane?
«Ci ha detto che dovevamo sentirci una famiglia, ma io l’ho visto una sola volta. E quel primo e unico incontro è stato una specie di barzelletta. È avvenuto in occasione della presentazione del progetto a febbraio. È stata convocata una riunione nella grande sala conferenze al Tecnopolo di Reggio Emilia. Krane si è presentato con un altro investitore. Ingenuamente mi aspettavo le slide con i piani investimento e di crescita, invece, non hanno acceso neanche il proiettore, si sono seduti là e hanno iniziato a farci la “supercazzola” annunciando la quotazione in borsa a New York e promettendoci le stock option. Infine si sono fatti un selfie con tutti noi. Io vengo dall’automotive e so che cosa voglia dire fare un prodotto automobilistico. Per questo ho pensato: “Questi non hanno una presentazione, non hanno una road map per realizzare il prodotto. A questi interessa solo speculare con i soldi”. Ho iniziato a sentire puzza di bruciato».
Che cosa l’ha persuasa a rimanere inizialmente?
«Mi sono detto: “Se hanno convito dei top manager come Della Casa significa che qui ci sono le fondamenta”. Ma mi sbagliavo, Infatti, poi, Carlo e gli altri se ne sono andati. Senza di loro non avrei dato credito a questo progetto. In principio per me anche Faw era una garanzia: è il marchio più antico di automobili in Cina ed è di proprietà del governo di Pechino. Inizio a pensare che lo stiano usando abusivamente».
Con i soci cinesi ha mai parlato?
«No. So che a inizio agosto, quando le proteste per il mancato pagamento degli stipendi stavano montando, ai dirigenti è stata mostrata una lettera firmata dal referente cinese, Chongtian Li, e inviata al presidente della Regione Stefano Bonaccini e all’assessore Vincenzo Colla. Qualcuno di noi ha potuto darci una sbirciata. A me è venuto da piangere. Sembrava scritta da un bambino, senza data, senza oggetto, senza loghi. Chongtian Li era indicato come “board member”, ma non era specificato di quale azienda. Una cosa da far cadere le braccia».
Alcuni quotidiani hanno scritto che a un certo punto è stato oscurato anche il vostro sito…
«Voci interne sostengono che sarebbe saltato perché l’azienda non avrebbe pagato il manutentore. A quel punto sembra che Krane abbia chiamato subito l’ad Gianni Lamorte per dirgli di tirare fuori 5-10.000 euro per ripristinare il sito ed evitare di alimentare le speculazioni giornalistiche».
Voi dipendenti che non ricevete lo stipendio da mesi che cosa farete, oltre a rivolgervi alla magistratura?
«Questi signori hanno segato le gambe a parecchie persone che arrivavano da Ferrari, Lamborghini McLaren, Maserati. Ingegneri elettronici, meccanici, aerodinamici. Alcuni di noi sono riusciti a riciclarsi all’estero, altri aspettano, me compreso, una buona occasione».
Che cosa pensa che ci sia dietro a tutta questa storia?
«Le mie sono solo supposizioni e spero che l’indagine penale che è stata avviata le smentisca. Però temo che dietro possa esserci persino il riciclaggio e che la Silk-Faw possa essere usata come lavatrice. Soldi qui non se ne vedono e, come ho detto, so quante risorse e quanto tempo ci voglia per fare delle automobili di lusso, magari ibride. La Ferrari ci ha impiegato cinque anni. Questi, invece, hanno promesso di realizzarle in pochi mesi, sebbene non siano ancora stati acquistati i terreni dove dovrebbe sorgere la fabbrica. Inoltre l’assetto societario è piuttosto articolato. La Srl italiana è di proprietà di una ditta irlandese che fa capo a una delle Cayman che è controllata da una cinese che, a sua volta, fa riferimento a una statunitense. Lei sa che non è facile far uscire soldi sporchi dalla Cina… ma se c’è da finanziare un progetto serio all’estero in cui sono impiegati 60-70 ingegneri la cosa cambia. Poi magari di 100 euro che sposto 3 li mando a quei ragazzi di Reggio Emilia per pagargli gli stipendi e far vedere che dietro c’è qualcuno; gli altri, magari, belli puliti, restano in Irlanda o alle Cayman. Ovviamente spero di sbagliarmi. Vorrei però fare un’ultima considerazione».
Prego...
«Ma la Regione, la Provincia e il Comune, come hanno permesso a questi signori di venire qui, di farsi tutta questa pubblicità, dicendo che avrebbero creato mille posti di lavoro, garantito affari per le aziende locali e dato visibilità alla Motor valley? Ad oggi che cosa hanno fatto? Trenta milioni di debiti con le aziende dell’indotto e una sessantina di futuri disoccupati (che dovranno usufruire degli ammortizzatori sociali) o, nella migliore delle ipotesi, sessanta tecnici che dovranno rivendersi all’estero. Anche la politica dovrebbe rispondere di tutto ciò. Invece di fare da garanti sono stati delle casse di risonanza per questi signori».






