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Il team gli preferisce il baby Quartararo dal 2021: «Pianifichiamo il futuro». Il 46 non ci sta: «Il mio obiettivo è continuare in Moto Gp». Per lui si apre lo scenario della squadra satellite. Che sa di triste viale del tramonto.
Meglio il mito o la moto? Per noi pedoni dell'esistenza è un'alternativa «quattro verticale» della Settimana enigmistica, per Valentino Rossi è la domanda della vita. Il 16 febbraio il leggendario pilota compie 41 anni, età in cui o impari ad annodarti una cravatta o sembri un nonno dei fiori. Essere ancora lì alla sua età a lottare per una qualifica e per vedere i glutei in piega di ventenni feroci gli fa onore, è la dolce sindrome del vecchio e il mare. Ma ha senso? Incanutire su una MotoGP non è come farlo in un campo di calcio; l'ultimo Francesco Totti il giovedi a Trigoria qualche imbucata la inventava ancora, Zlatan Ibrahimovic , a 38 anni, è in grado da fermo di far girare l'anima del Milan. Valentino no, lui è solo con il cronometro su una spiaggia al tramonto.
Dopo avere rinnovato il contratto a Maverick Vinales e avere prenotato il poulain nizzardo Fabio Quartararo, glielo ha fatto capire con ferma gentilezza britannica l'amministratore delegato della Yamaha, Lin Jarvis, misurando le pause e le parole per evitare gaffe. Ancora un anno di corride, poi nel 2021 il tempo scade. «È comprensibile e rispettabile da parte di Yamaha che Valentino Rossi voglia valutare la sua competitività nel 2020 prima di prendere qualsiasi decisione. Abbiamo totale rispetto e fiducia nelle capacità e nella velocità di Valentino per il campionato 2020, ma allo stesso tempo la Yamaha deve anche pianificare il futuro». Il patron del marchio toccato 17 anni fa dal divino soffio di Rossi la prende larga, sembra il nipote premuroso mentre comunica al nonno che non ci sarà più rinnovo della patente. Infatti continua così. «Con sei costruttori di Moto GP, i talenti giovani e veloci sono molto richiesti e quindi il loro mercato inizia prima. È una strana sensazione cominciare una stagione sapendo che Vale non farà parte del team nel 2021, ma Yamaha sarà con lui fornendogli una moto satellite se continuerà. Se decide di ritirarsi continueremo a espandere le nostre collaborazioni extra pista con programmi di formazione dei giovani piloti della Riders Academy e del Yamaha VR46 Master Camp, e con lui come ambasciatore del marchio Yamaha». Gli sta dicendo che lo spazio si è ristretto, che i giovani premono e chiedono spazio anche nel budget, che lui sarà indispensabile nell'Academy (parola tremenda perché prefigura ufficio e targhetta). Insomma la clessidra sta finendo la sabbia e quella cornice appesa al muro attende la sua foto più cool.
Moto satellite. Un Rossi di serie non si è mai visto. C'è qualcosa di terribile e malinconico in queste frasi perché il Sunset Boulevard è lunghissimo e a senso unico, in fondo a Los Angeles c'è qualcuno che non riceve mai la posta. Nove volte campione del mondo ma l'ultima 11 anni fa, 115 volte primo in gara; 400 milioni di guadagno dal 2000 (calcolo di Forbes); icona pop di un mondo con le basette, il mito di Easy Rider e la bambola gonfiabile sul sedile posteriore. Soprattutto geniale, inarrivabile, gentile simbolo dello sport italiano nel mondo, il numero 46 si trova davanti alla porta d'uscita del Truman Show. Non vuole aprirla, è refrattario, chiede una deroga. Ed è giusto così perché il crepuscolo va assaporato fino a quando non è scesa la notte.
Eccolo il Valentino Rossi in difesa, ruolo che non gli è mai piaciuto perché lui ha sempre vinto ruggendo in prima linea o in rimonta. «Per motivi dettati dal mercato dei piloti, Yamaha mi ha chiesto all'inizio dell'anno di prendere una decisione in merito al mio futuro. Coerentemente con quello che ho detto durante l'ultima stagione ho confermato che non volevo affrettare alcuna decisione e avevo bisogno di più tempo. Yamaha ha agito di conseguenza e ha concluso i negoziati in corso. È chiaro che con gli ultimi cambiamenti tecnici e con l'arrivo del mio nuovo capo equipaggio, il mio primo obiettivo è essere competitivo quest'anno e continuare la mia carriera come pilota di Moto GP anche nel 2021».
Non si arrende. È pronto a duellare con la mandria di bufali là fuori e a testare in casa la solidità di Vinales. Poi si vedrà. Potrebbe esserci un posto nella scuderia Petronas (con supporto e ingaggio dalla casa madre), ma oggi il vecchio re non vuole pensare al domani. E allora si aggrappa alla pista, alla malinconia delle traiettorie e all'odore di olio bruciato sotto il naso. «Prima di decidere devo avere risposte che solo la pista e le prime gare possono darmi. Sono contento. Se dovessi decidere di continuare, Yamaha è pronta a supportarmi sotto tutti gli aspetti, dandomi una moto di serie e un contratto. Nei primi test farò del mio meglio per fare un buon lavoro insieme col mio team ed essere pronto per l'inizio della stagione».
Il profilo è quello di chi mette su famiglia, il sorriso è vissuto, tutto scorre, tutto sembra così lontano. Anche il sorpasso con minacce di Marc Marquez nel 2015, doveva essere una sentenza e lo è stata. Storie di un tempo scaduto e di un altro mondo, c'era ancora Beppe Grillo con il Movimento 5 stelle. Oggi Rossi può pensare di farsi largo con il genio e il rispetto che si deve ai grandi vecchi, di trovare in una domenica di sole il ruggito potente di Simba. Ma il futuro è di Vinales e Quartararo, i giapponesi glielo hanno detto chiaro. Un tempo Fergus Anderson vinse un mondiale a 45 anni (1954) e Arthur Wheeler un gran premio a 46 (1962). Juan Manuel Fangio portò a casa l'ultimo mondiale di Formula 1 a 46 anni suonati. Ma erano altre ere geologiche, niente a che vedere con la competitività e l'usura nervosa di oggi.
Eppure. Perché c'è anche qualcosa di beffardo nei dubbi di Rossi e nelle vellutate parole di Jarvis. Il Venerando è ancora oggi l'uomo che fa la differenza nei contratti e nell'appeal degli sponsor del circo a due ruote. «Vende più moto, più merchandising, più biglietti, più contratti tv lui rispetto a tutti gli altri», ha messo le mani avanti Simon Patterson, guru mediatico delle corse, firma di Motorcycle News. «È nell'interesse di tutti che rimanga». Sport Illustrated ha calcolato che scendendo dal sellino farebbe perdere al mondo della Moto GP un terzo del fatturato. Quando Valentino se ne andrà dai box con il casco in mano piangeranno tutti. E non saranno solo lacrime di nostalgia.
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Polemiche a non finire e censura per i cartelloni di Pro vita contro l'utero in affitto (vietato dalla legge). Ma gli atei dell'Uaar sono liberi di condurre una campagna feroce e offensiva contro i professionisti che, avendone diritto, si oppongono all'aborto. Secondo il ministero della Salute i ginecologi obiettori ammontavano al 71,5% del totale nel 2008, sono poi calati a 70,7% nel 2014, per decrescere ancora al 70,5% nel 2015. Nel 2016, infine, c'è stato sì un aumento del 70,9%.
Altro che liste d'attesa, altro che disservizi, altro che malasanità: il vero problema degli ospedali italiani sono loro, i medici obiettori di coscienza. A sostenerlo è l'Uaar, l'Unione degli atei e agnostici razionalisti che in questi giorni, per sensibilizzare gli italiani sul tema, ha avviato una campagna con tanto di affissioni pubbliche di manifesti sui quali si legge: «Testa o croce? Non affidarti al caso! Chiedi subito al tuo medico se pratica qualche forma di obiezione di coscienza». L'esortazione a darsi da fare per scovare gli obiettori di coscienza in camice bianco è mossa dalla convinzione che, senza di loro, le corsie ospedaliere cambierebbero. In meglio, ovviamente.
«Gli ospedali sono purtroppo pieni di ginecologi obiettori, spesso assunti e promossi proprio per la loro adesione alla dottrina cattolica», fanno sapere dall'Uaar, spiegando che come questi medici, a detta loro, renderebbero assai difficoltoso il ricorso all'aborto: «Non sono infrequenti i casi in cui ostacolano l'intenzione di interrompere una gravidanza, o decidono di non sottoporre la gestante alle diagnosi che evitino la nascita di un bimbo già condannato per tutta la vita a una malattia invalidante». Di qui le poc'anzi citate affissioni, comparse qua e là in alcune città italiane, con l'approvazione di alcuni e le perplessità di altri.
Più di qualcuno, infatti, si è chiesto come mai, nel loro tronfio razionalismo, all'Uaar si siano scordati di dire come, almeno in Italia, gli obiettori di coscienza siano professionisti che esercitano una facoltà non solo ben incardinata nell'ordinamento, ma che trova un esplicito richiamo proprio nella legge 194 sull'aborto procurato, che all'articolo 9 recita: «Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure […] e agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione […] L'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza».
Chiaro? È la stessa norma che ha introdotto la possibilità di abortire a prevedere l'obiezione di coscienza, che quindi non è una sorta di capriccio né uno «scudo di Capitan America contro le coscienze altrui», come affermato dalla bioeticista Chiara Lalli nel libro C'è chi dice no (Il Saggiatore), bensì una possibilità del tutto legittima. Un diritto, appunto. Che oltretutto, per venire alle preoccupazioni dell'Uaar, nulla toglie a nessuno. È infatti una clamorosa fake news quella secondo cui, siccome «gli ospedali sono pieni di ginecologi obiettori», i medici non obiettori sarebbero costretti a praticare solo aborti e, dall'altro, le donne intenzionate ad abortire sarebbero ostacolate.
La bufala emerge nel momento in cui si considera, tanto per cominciare, che la tesi del medico non obiettore impegnato in soli aborti è demolita dai numeri: considerando 44 settimane lavorative in un anno, nel nostro Paese, ogni ginecologo che non obietta è chiamato in media ogni settimana a eseguire, a livello nazionale, 1,6 aborti con una procedura che, secondo l'Oms, ha una durata media che non supera i dieci minuti. Difficile, insomma, parlare di carichi di lavoro eccessivi. Tanto più che, spulciando i dati regionali, si osserva come in Italia 137 Asl su 140 registrino in media meno di 5 aborti settimanali, che crescono a 7 in un solo caso, con appena tre Asl oltre la media, con la soglia massima di 15 aborti ogni sette giorni.
Secondo le relazioni ufficiali del ministero della Salute i ginecologi obiettori ammontavano al 71,5 per cento del totale nel 2008, sono poi calati a 70,7 per cento nel 2014, per decrescere ancora al 70,5 per cento nel 2015. Nel 2016, infine, c'è stato sì un aumento, ma non certo un'impennata (70,9 per cento). Dunque è vero che i professionisti che si oppongono all'interruzione di gravidanza sono tanti (e forse bisognerebbe chiedersi il perché...) ma è falso che in Italia sia assolutamente impossibile abortire.
A questo punto viene però da chiedersi come mai all'Uaar sia concesso d'inaugurare una caccia ai medici obiettori di coscienza - peraltro gratuita e infondata, come si è visto - mentre invece i manifesti di Pro vita e Generazione famiglia contro l'utero in affitto siano stati censurati dalle Chiara Appendino e Virginia Raggi di turno, dal momento che non solo non offendevano nessuno, come stabilito dal Gran Giurì dell'Istituto di autodisciplina pubblicitaria, ma risultavano in linea con la legge 40, che punisce severamente la surrogazione di maternità e la sua pubblicizzazione. Il sospetto è quello di un doppiopesismo tale per cui chi promuove campagne in linea con la cultura dominante ha il vento in poppa, mentre chi osa pensarla altrimenti - e manifestarlo - si trova la strada sbarrata. A prescindere. Con tanti saluti alla libertà di pensiero.
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La denuncia di una dottoressa su un lavoro svilito dal carico di burocrazia, che impedisce di dedicarsi alla cura dei malati. «Non è un Paese per medici un Paese che consente che questo accada, che permette che chi va al lavoro possa essere aggredito, violentato, financo ucciso facendo semplicemente il proprio lavoro».
Una volta tanto voglio approfittare di questo spazio per riprendere quanto una mia collega, la dottoressa Ornella Mancin, di Cavarzene in Veneto, ha scritto al Quotidiano Sanità di Cesare Fassari, un ottimo giornale telematico, dal titolo L'Italia non è un Paese per medici.
Questo è quanto ha scritto:
«Gentile direttore, c'è un senso di frustrazione che accompagna oggi il nostro essere medico ed è legato alla percezione che il lavoro che ci siamo scelti e che amiamo è considerato sempre meno, trasformato in lavoro impiegatizio con l'intento non troppo nascosto di renderlo facilmente sostituibile. Così che una delle professioni più ambite di sempre sta entrando in crisi e si cominciano a vederne i segni. Reggere a dei carichi lavorativi abnormi, lavorando in continua emergenza per far fronte alle carenze di organico, si sta rivelando talmente sfibrante da far sì che molti colleghi decidano di abbandonare anzitempo il lavoro per dedicarsi ad altro. È il fenomeno che il vicepresidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), nonché presidente dell'Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Omceo) della Provincia di Venezia, Giovanni Leoni , definisce come «l'autodimissione dei medici dagli ospedali», descritto egregiamente in una sua lettera inviata a questo quotidiano, che nel giro di pochi giorni ha raggiunto quasi 10.000 condivisioni, segno di un problema decisamente molto sentito.
Si chiede Leoni: “Fino a quando si reggerà a questa vita, fino a quando le personali motivazioni etiche e morali ti fanno reggere il ritmo? La tua coscienza, il senso del dovere? E quanto valgono di fronte al fatto che nessuno di quelli che dovrebbero ti apprezza per quello che fai ma anzi ti sfrutta senza remore, ti ridicolizza con lo stipendio bloccato da 10 anni, con la reperibilità notturna e festiva pagata un euro netto all'ora?".
Alla percezione di non essere apprezzati, si aggiunge infatti una retribuzione ferma da anni con prospettive di guadagno sempre minori per cui viene meno anche un altro dei motivi che rendevano attraente la nostra professione. Così, oltre all'autodimissione, si assiste ai concorsi che vanno vuoti, soprattutto per le specialità dove il rischio medico legale si fa più pressante.
Il medico è un mestiere in crisi. Eppure, se vantiamo uno dei sistemi sanitari migliori, è proprio grazie a chi ci lavora, in primis i medici: «Senza i medici e senza i professionisti della sanità non c'è servizio sanitario nazionale», ha affermato il presidente Fnomceo, Filippo Anelli. Eppure chi dirige e amministra la sanità ritiene di poterne fare a meno, o comunque di poter disporre dei medici come meglio crede, senza l'ascolto che si dovrebbe riservare a chi opera sul campo e fa un lavoro intellettuale complesso.
Parafrasando il titolo di un famoso film, si potrebbe dire che l'Italia «non è un Paese per medici», non più e non ora, perché è un Paese che non sa valorizzare chi costituisce il cuore di tutto il sistema sanità. Il problema non sembra essere percepito completamente dai giovani, che in massa provano il test di medicina ancora attratti da un'idea di professione affascinante. Il problema viene colto appena uno si affaccia alla professione. Spesso i giovani medici lavorano per molti anni, ricoprendo mansioni anche molto impegnative per compensi miseri. Ci sono giovani colleghi che lavorano per 10 euro lordi all'ora. Basta pensare a quei giovani medici assunti da «cooperative» che vengono mandati a lavorare a «gettone» nei Pronto soccorso o nelle ambulanze, con un rischio medico legale enorme sulle loro spalle, data la loro scarsa esperienza ed enorme responsabilità.
Chi può scappa all'estero, dove i compensi sono 2-3 volte quelli italiani. Chi resta è destinato a peregrinare da un posto all'altro, con contratti molto flessibili e limitati (da 6 mesi a qualche anno).
E poi se il medico è donna (e lo è ormai il 70% degli iscritti a Medicina) il futuro è ancora meno allettante e la possibilità di mettere su famiglia e fare un figlio richiede una determinazione notevole (basti pensare, per esempio, che le giovani colleghe in gravidanza non vengono sostituite negli ospedali, lasciando tutto il carico lavorativo sulle spalle di chi resta).
No, l'Italia non è un Paese per medici. A questo si aggiunge il grave problema delle aggressioni ai medici, fenomeno in costante aumento e di difficile eradicazione nonostante la lodevole campagna di sensibilizzazione partita dall'Omceo di Bari e fatta propria dalla Fnomceo con il titolo Chi aggredisce un medico, aggredisce sé stesso e il recente appello del segretario nazionale della Federazione italiana dei medici di famiglia (Fimmg), Silvestro Scotti, che ha scritto una lettera aperta ai cittadini con l'hastag#picchiateMe (solo nell'ultimo anno il 50% dei medici e degli operatori sanitari sono stati oggetto di aggressioni e il 4% è stato vittima di violenza fisica, secondo un'indagine della Fnomceo, ndr).
Non è un Paese per medici un Paese che consente che questo accada, che permette che chi va al lavoro possa essere aggredito, violentato, financo ucciso facendo semplicemente il proprio lavoro».
Se le aggressioni che avvengono ai medici fossero a carico di magistrati o di giornalisti, cosa succederebbe? Vedremmo le più alte cariche dello Stato intervenire con severi moniti e ammonizioni per l'attacco alle libertà della Repubblica. E poi, come dice giustamente Alberto Scanni su Facebook: cosa fa un medico oggi in ospedale? Stende continuamente relazioni per la Regione e le amministrazioni su cose che nulla hanno a che fare con quello per cui ha studiato, deve dare informazioni al ministero sull'uso di farmaci particolari, compilare i moduli della privacy, fare impegnative per l'esonero dei ticket, stendere certificati Inps, occuparsi dell'antincendio, partecipare ai vari comitati e comitatini che organizza l'amministrazione per il raggiungimento dei suoi obiettivi. Poca attività clinica e molta attività burocratica e il tempo da dedicare ai malati diventa sempre meno. Basta ridursi a fare gli impiegati, che lo faccia l'amministrazione introducendo delle figure intermedie che si occupino di tutti quei problemi che nulla hanno a che fare con il lavoro del medico, impedendogli di fare la cosa principale: curare i malati. E ovviamente, concludo ancora io, mai consultati in maniera seria nelle strategie mediche e scientifiche di sviluppo dell'ospedale, e nelle carenze insostenibili di medici e del restante personale sanitario. E ci si meraviglia dello sciopero generale dello scorso venerdì 23 novembre?
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L'Ordine dell'Emilia Romagna silura Sergio Venturi, camice bianco titolare della Sanità alla Regione. È accusato d'aver anteposto ragioni politiche alla deontologia. Roberto Burioni lo difende, pronto un ricorso.
Deontologia batte politica. Per la prima volta nella storia italiana un Ordine dei medici decide di radiare un medico assessore alla Sanità per aver preso provvedimenti gravemente lesivi della deontologia medica. Una radiazione che ha un grande significato politico: usare la deontologia come arma di protesta per difendere l'identità e il ruolo della propria professione ma anche per contestare le politiche economiche regionali. Sino ad ora, cioè dal 1911 anno del primo codice deontologico, nessun ordine ha pensato di usare la disciplina contro la politica. Un modo nuovo ed originale dunque: niente piazza ma etica dei camici bianchi, stanchi di subire le priorità economiche di chi governa la sanità, che vanno contro la loro stessa professione e poco a favore dei cittadini. Oggi siamo nell'epoca di quella che qualcuno ha chiamato «la medicina amministrata». I medici ormai sono ridotti a impiegati, condizionati in ogni modo, non sono più in grado di svolgere in modo corretto la loro professione. E ci sono quelli che evidentemente si sono stufati di essere amministrati.
È accaduto a Bologna dove venerdì sera il consiglio dell'Ordine, presieduto dall'immunologo Giancarlo Pizza, ha firmato la radiazione di Sergio Venturi, assessore alla Salute dell'Emilia Romagna nonché medico. Il motivo del provvedimento verso l'esponente dem - che non potrà più indossare il camice bianco se questa sentenza verrà confermata anche nei gradi successivi - la sua delibera, datata maggio 2016, con la quale la giunta regionale decideva di mettere sulle autoambulanze solo infermieri, senza medici. È vero che oggi gli infermieri hanno specifiche competenze ma è altrettanto vero che - nell'urgenza - se non c'è il medico si rischia la vita. La decisione peraltro risponde a un'unica priorità: far quadrare i conti. Attualmente per il 118 si spende l'1,7% di tutta la spesa sanitaria nazionale e negli ultimi anni è stato chiuso il 50% delle centrali operative. E anche l'Emilia Romagna, seppur virtuosa nel campo sanitario, in questi anni ha grattato il fondo del barile pur di far quadrare i bilanci. «È una decisione inconcepibile», ha detto ieri sera Venturi, convocato quindi presente davanti alla commissione «non tanto per me, ma perché manca di rispetto alla giunta dell'Emilia-Romagna, istituzione che rappresento e di cui, di fatto, viene bocciata in maniera politica una delibera».
Chiede invece le dimissioni dell'assessore il gruppo della Lega in Regione: «Più di una volta abbiamo messo in guardia la giunta regionale circa l'inopportunità di uno scontro tra istituzioni e medici. L'incapacità di dialogare della giunta invece non ha fatto altro che esasperare il dibattito e oggi ne raccogliamo i frutti con questo epilogo paradossale. Ora l'assessore Venturi deve fare un passo indietro e dimettersi».
Per il M5s è giusta la radiazione: «È lo stesso assessore che per risparmiare ha chiuso tre punti nascite fondamentali in Emilia Romagna».
Una sonora sconfitta dunque per le politiche sanitarie di una regione e una seconda sconfitta per Venturi, che mesi fa al momento di rieleggere il presidente dell'Ordine di Bologna aveva ispirato una lista contraria al professor Pizza. Puntuale - a testimonianza che il dibattito è tutt'altro che scientifico e disinteressato - è arrivata la bordata di Roberto Burioni: «All'ordine dei medici di Bologna ci sono dei problemi. Anzi c'è un problema, il presidente Pizza».
Venturi nonostante tutto non si dà per vinto e annuncia che farà appello. La battaglia continuerà anche perché, nell'ambito della stessa vicenda, erano stati sospesi altri 10 medici. Quando venne aperto il procedimento disciplinare l'assessore regionale accusò Pizza, numero 1 dei medici bolognesi al quinto mandato, di agire con «infondatezza», «illegittimità» e «strumentalità» e soprattutto di «aver passato il segno», non tenendo conto che l'Ordine non è soltanto il suo presidente ma un organo collegiale. Venerdì al momento del voto - peraltro - Pizza non era presente proprio per evitare ogni accusa di personalismo. Invece in aiuto di Venturi erano scese le truppe cammellate del Pd, i deputati Vito De Filippo e Luigi Rizzo Nervo, membri della commissione Affari sociali della Camera, che avevano scritto una lettera al ministro della Salute, Giulia Grillo, affinché intervenisse con il commissariamento dello stesso Ordine di Bologna, per mettere fine «a tale atteggiamento vessatorio e persecutorio». Peraltro i due dem avevano definito Pizza, senza tanti complimenti, un «paranoico». Un mese fa, sempre contro Pizza, aveva chiesto di prendere provvedimenti disciplinari il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Walter Ricciardi, per la prefazione fatta al libro sui vaccini del Pedante, firma della Verità. Irraggiungibile ieri il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli, che proprio recentemente ha siglato un protocollo d'intesa con le Regioni per favorire il confronto su una serie di questioni tra le quali «i medici che svolgono ruoli pubblici nelle pubbliche istituzioni».
L'obiettivo evidente del protocollo era sventare il rischio di radiazione per l'assessore Sergio Venturi. Tentativo andato a vuoto, che apre un altro fronte con ripercussioni sugli equilibri interni della Fnomceo: lo scontro tra Ordini provinciali e Federazione nazionale.
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