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Elon Musk (Ansa)
Controllo sulle opinioni «sgradite» utilizzato contro Twitter, accusato di favorire Vladimir Putin.
L’Unione Europea continua la sua battaglia contro il numero un di Tesla e X, Elon Musk. Lo accusa di aver favorito la propaganda della Russia di Vladimir Putin, ma soprattutto, in vista delle elezioni europee del prossimo anno, prova a legittimare ancora una volta il Dsa (Digital services act), da poco entrato in vigore, che permetterà un controllo da parte di Bruxelles sulle opinioni sgradite e soprattutto comporterà una penalizzazione economica dei cosiddetti siti non allineati. In pratica, per combattere la guerra contro Mosca si rischiano di mettere a repentaglio le libertà fondamentali di espressione. Del resto, da quando l’imprenditore sudafricano ha preso in mano Twitter, la commissione europea non gli ha lasciato scampo. Già Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno, lo aveva più volte intimidito lo scorso anno, sul fatto che dovesse rispettare le regole dell’Ue. Ma ora c’è stato un ulteriore passo in avanti nella guerra a Musk. In un report pubblicato dalla Commissione Europa emergerebbe che, nonostante i principali colossi del web abbiano tentato di frenare la disinformazione russa, il Cremlino avrebbe comunque fatto circolare in particolare sui social network fake news contro Kiev. Secondo l’analisi del report, infatti, dopo gli allarmi di gennaio e dopo aver già introdotto lo scorso anno un codice di condotta sui social, quanto fatto in questi mesi non sarebbe stato sufficiente per bloccare la propaganda russa. La commissione calcola che gli account pro-Cremlino sarebbero aumentati tra gennaio e maggio 2023, con un coinvolgimento medio in aumento del 22% su tutte le piattaforme online. Tuttavia, l’aumento sarebbe stato soprattutto determinato da Twitter, dove le interazioni con account russi sarebbero cresciuti del 36 % «dopo che il ceo Elon Musk ha deciso di revocare le misure di mitigazione sugli account sostenuti dal Cremlino, sostenendo che «tutte le notizie sono in una certa misura propaganda» si legge nel report. Al contrario, l’engagement medio con gli account pro-Cremlino è diminuito del 20% su Facebook, ed è rimasto sostanzialmente invariato sulle restanti piattaforme. Non solo. La commissione evidenzia che «per quanto riguarda l’attività di pubblicazione degli account pro-Cremlino, abbiamo osservato un notevole aumento del 34% su TikTok, mentre l’attività su Telegram è diminuita del 22%». Secondo Bruxelles insomma, l’aumento degli account allineati al Cremlino solleva seri interrogativi sulle difese dell’Ue nella guerra di disinformazione della Russia, ma soprattutto la questione potrebbe minare «l’integrità delle elezioni europee del giugno 2024». Eppure, se il nuovo Twitter sembra rappresentare il male assoluto, anche sugli altri social network il report solleva dubbi. Youtube, per esempio, avrebbe vietato tutti gli account dei media statali russi a livello globale, ma - ammette la commissione - stato impossibile verificare la reale portata della politica di Youtube poiché la piattaforma non ha rivelato […] gli account a cui ha applicato il divieto». Infine, il report parla appunto del Digital Services Act (DSA), «una nuova regolamentazione fondamentale per le piattaforme online che entrerà in vigore nel 2023». E appunto evidenzia, «come le norme dei Dsa possano essere utilizzate per difendersi dalle campagne di disinformazione del Cremlino e proteggere la dignità, la sicurezza e la libera espressione dei cittadini dell’Ue». Ma il rischio è che per combattere la strategia militare russa di disinformazione, a scomparire siano in primis i nostri diritti fondamentali, come appunto la libertà di parola e di espressione.
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L'ex Ceo di Twitter Jack Dorsey
I file resi pubblici da Elon Musk svelano il controllo sistematico operato dal social. Tra le vittime l’epidemiologo di Harvard che contestava le autorità Usa. E chi smentiva l’allarmismo sulla letalità del virus nei bambini.
«Oggi Donald Trump ha scritto su Twitter la frase “non abbiate paura del Covid”: non dovremmo considerarla una violazione delle nostre regole sulla pandemia?». A indirizzare questa surreale istanza di censura a Joel Roth, ex responsabile sicurezza e integrità di Twitter, è nientemeno che Jim Baker, ex vice consigliere generale e responsabile legale della piattaforma social. La mail di Baker è una delle tante prove della pesante e sistematica censura sul Covid scatenata, per oltre due anni, dalle alte sfere di Twitter, prima che l’azienda fosse rilevata da Elon Musk: fa parte dei cosiddetti «Twitter files», i documenti che Musk ha concesso in visione ad alcuni giornalisti indipendenti per testimoniare il regime di censura esistente prima del suo arrivo. Dei files sul Covid se ne sta occupando il giornalista David Zweig. Ma torniamo alla mail di Baker: è il 5 ottobre 2020 e Trump sta per uscire dal Bethesda Hospital, l’ospedale federale dei presidenti Usa, dove gli è stato somministrato un trattamento di monoclonali anti Covid. Il funzionario che vuole censurare la sua ottimistica dichiarazione, Baker, non è una persona qualsiasi: è l’ex avvocato generale dell’Fbi, ed è stato indagato due volte con l’accusa di aver fatto trapelare alla stampa informazioni classificate. Pur non essendo stato condannato, si è dimesso dall’Fbi nel 2018, subito dopo l’indagine, ed è stato nuovamente indagato dal dipartimento di Giustizia nel gennaio 2019, con la stessa accusa (e lo stesso esito). A maggio 2019 è stato assunto dalla Cnn come analista legale, per poi approdare ai vertici di Twitter un anno dopo, a giugno 2020, occupandosi in prima persona delle notizie «scomode». Baker era «uno degli uomini più potenti dell’intelligence americana», dicono gli autori dei «Twitter files», ma la sua solerte attività è stata interrotta dallo stesso Musk, che lo ha licenziato accusandolo di aver tentato di oscurare il ruolo dell’Fbi dentro Twitter. Sembra sia di Baker, ad esempio, la censura dell’articolo del New York Post e di tutti i tweet sugli affari del figlio del presidente, Hunter Biden, in Ucraina e con la Cina. «Baker aveva fatto credere ai dirigenti Twitter che il contenuto del computer di Hunter Biden non fosse autentico e che fosse il risultato di una “interferenza elettorale russa”, scrive il New York Post: fatto sta che, grazie anche a questa soppressione di notizie scottanti sul figlio di Joe Biden, avvenuta poco prima delle presidenziali del 2020, Trump non riuscì a ottenere la rielezione.
Cosa c’entra l’Fbi con il Covid? Dai «Twitter files» pubblicati in questi giorni, è emerso che il social si sia di fatto trasformato in succursale dell’Fbi, introducendo o addirittura assumendo al suo interno moltissimi ex agenti dell’Fbi e di altre agenzie federali di intelligence (gli autori dei «Twitter files» menzionano anche la National security agency e il Dipartimento di sicurezza nazionale - Dhs). Ed è ormai chiaro che la «manina» dell’intelligence americana ha coperto e gestito anche le notizie riguardanti il Covid.
Una delle più autorevoli vittime della censura è stato il professor Martin Kulldorff, epidemiologo ad Harvard. Kulldorff twittava spesso contro le decisioni delle autorità sanitarie Usa e del governo di sinistra («affiliazione politica di quasi tutto lo staff di Twitter»). La sua colpa è stata di aver parlato del più grande tabù dei vaccini anti Covid, dopo gli eventi avversi: l’inopportunità di vaccinare i guariti e i bambini. In un tweet del 15 marzo 2021 Kulldorff scriveva che «i vaccini sono importanti per gli anziani e i fragili. Le persone cha hanno avuto infezione naturale (i guariti, appunto, ndr) non dovrebbero vaccinarsi, e neanche i bambini». Il suo tweet è stato etichettato come «fuorviante», e il professore è stato oscurato e poi sospeso per mesi. Motivo: «Kulldorff contraddice il Cdc, dunque le sue informazioni sono false». Poco importa se l’evidenza scientifica sulla quale Kulldorff basava le sue affermazioni, quella della «focused protection» da opporre alla vaccinazione di massa, sia stata adottata in numerosi Paesi con risultati decisamente migliori di quelli americani (e italiani). A volte non bastava neanche citare gli stessi dati del Cdc, come è accaduto a una fact checker oscurata per aver smontato alcune false teorie che sostenevano che il Covid fosse «una delle principali causa di morte dei bambini». Curiosamente, la stessa «informazione» era stata diffusa anche da Giorgio Palù, presidente Aifa, che a fine 2021 aveva dichiarato: «Il Covid ora è una malattia pediatrica, tra le prime cause di morte a quest’età». Nessun giornalista italiano lo ha mai contraddetto. Purtroppo, le fake news su Covid e bambini continuano impunemente a circolare: ancora due giorni fa il deputato Usa - dem, ça va sans dire - Ted Lieu ribadiva che «il Covid è una delle principali cause di morte nei bambini», ma ha dovuto rimuovere il suo tweet dopo che gli è stato fatto notare che lo studio che linkava era «fake».
«I casi di tweet rimossi soltanto perché in contrasto con il Cdc», secondo Zweig, «non si possono contare da quanti sono». Molti account che testimoniavano, studi alla mano, i casi di arresti cardiaci nella fascia 16-39 anni dopo la vaccinazione a mRna sono stati sospesi. Così com’è stato immediatamente cancellato il tweet del medico Andrew Bostom, che aveva postato uno studio peer reviewed sulla temporanea riduzione di spermatozoi negli uomini dopo la vaccinazione.
Sbaglia chi pensa che la censura sul Covid sia stata operata soltanto su Twitter: da numerosi «Twitter files», documentati da uno dei giornalisti che ci lavorano, Matt Taibbi, è ormai chiaro che il governo Usa era (è?) in contatto non solo con Twitter ma con tutte le maggiori aziende tech come Facebook, Youtube, Apple, Google, Microsoft, Verizon, Reddit, perfino Pinterest. Tutte le informazioni corrette, pubblicate su queste piattaforme, sono state e sono tuttora censurate di default, se in contrasto con le linee guida delle autorità sanitarie pubbliche americane.
I prossimi «Twitter files» sul Covid arriveranno nei prossimi giorni, e a Washington l’aria comincia a farsi molto tesa.
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- La lotta alle (presunte) fake news è un’industria legata a gruppi di potere che orientano il pubblico: magnati Usa e Unione Europea. Ecco tutti i nomi e le cifre.
- I conflitti d’interessi nascosti di chi deve verificare le notizie. Le maggiori lobby sono quelle Lgbt, Facebook e Big Pharma.
- Nella piattaforma di Mark Zuckerberg una commissione interviene solo per vagliare i ricorsi.
Lo speciale contiene tre articoli.
«Al servizio della democrazia»: è commovente la presentazione del Poynter Institute for Media Studies, scuola di giornalismo non profit americana per «la difesa del giornalismo etico e indipendente», nata nel 1975, che nel 2015 ha lanciato l’International Fact-Checking Network. L’Ifcn sta al fact-checking americano come l’Edmo (European Digital Media Observatory) cerca di stare a quello europeo. Queste due strutture sono dichiaratamente «senza scopo di lucro», ma il contrasto alle cosiddette «fake-news», a livello operativo, non vive di aria. Al contrario, quella del fact-checking è un’industria che nella maggior parte dei casi risponde economicamente a gruppi di potere i quali, attraverso la promozione di alcune notizie e la censura su altre, orientano l’opinione pubblica e i legislatori in maniera spesso confacente ai propri interessi. Non è una novità: l’attività di lobbying è sempre esistita. Sono cambiate però le modalità, perché oggi il target non è più soltanto l’imprenditoria e la politica, ma direttamente l’opinione pubblica. Il successo della figura degli «influencer» nei settori della moda e del lifestyle ha contaminato anche il giornalismo, agevolando la nascita di legioni di «influencer dell’informazione», chiareferragni delle news che, sulla gestione delle notizie, hanno messo in piedi un business estremamente redditizio.
Per quanto riguarda il fact-checking di matrice americana, lo schema che lo governa ricalca quello dei fondi contro i cambiamenti climatici: una «casa madre» negli States, che raccoglie donazioni (esentasse) dai filantropi (indovinate quali) e, come in un sistema di matrioske, riunisce tante strutture medio-piccole collegate all’interno di un network mondiale: in Italia, ad esempio, c’è Open di Enrico Mentana. Il flusso di denaro gestito dal fact-checking europeo, invece, viene dalla Commissione Ue.
Il cliente più importante dell’Ifcn è Meta, cioè Facebook (e Instagram). Tra i vari finanziatori del Poynter nel corso degli ultimi anni troviamo Google, Bill Gates e la Open Society Foundations di George Soros, ma anche il filantropo Craig Newmark, imprenditore «nerd» con un patrimonio di circa 3 miliardi di dollari, la Fondazione Gannett, holding di mass media, la Gill Foundation, impegnata nella difesa dei diritti Lgbtq e la MacArthur Foundation, dodicesima fondazione privata degli Usa. I soldi che provengono da questi munifici donatori sono tutti esentasse perché, come la Bill & Melissa Gates Foundation, anche la galassia Poynter, che comprende Ifcn, PolitiFact e MediaWise, gode delle esenzioni dalle Imposte federali sul reddito concesse alle organizzazioni definite «501(c)». Secondo l’ultimo «State of the fact-checkers», la maggioranza delle organizzazioni di fact-checking «verificate» aderenti all’Ifcn è però a scopo di lucro.
Tra i membri Ifcn c’è Open (G.o.l. Srl), impresa sociale fondata da Enrico Mentana. Open non ha finalità di guadagno e dichiara di ricevere «un contributo» da parte di Facebook, del quale non è specificata l’entità, all’interno del Third-Party Fact-checking Program di Meta. Nessun dettaglio sulle altre fonti di finanziamento che rappresentano il 5% o più delle entrate totali, requisito di idoneità richiesto nel famoso Code of Principles dell’Ifcn, alla voce «Trasparenza».
Il sistema europeo è strutturato in maniera simile per quanto riguarda l’organizzazione piramidale, ma diverso rispetto alla fonte delle sovvenzioni. L’Unione europea ha istituito uno strumento di finanziamento che si chiama CEF, Connecting Europe Facility. Il fondo Cef sostiene lo sviluppo delle reti digitali, e ha una dotazione di 33,7 miliardi di euro. Sono tutti fondi provenienti dalle cosiddette «risorse proprie» Ue, dunque denaro dei contribuenti europei. Nel settore dei servizi digitali, il 1 ottobre 2019 la Commissione Ue ha lanciato una gara d’appalto per istituire Edmo (European Digital Media Observatory), incaricato di monitorare le fonti di disinformazione. Il primo stanziamento è stato di 2,5 milioni di euro: se l’è aggiudicato, nel maggio 2020, un consorzio guidato dall’Istituto universitario europeo di Firenze, che comprende anche l’organizzazione di fact-checking italiana Pagella Politica che, insieme con Facta news, fa parte della società The Fact-Checking Factory (Tfcf) che annovera Meta (Facebook) e TikTok tra i suoi principali finanziatori. Pagella Politica è anche membro Ifcn.
Il 30 giugno 2020 la Commissione europea ha pubblicato un secondo bando stanziando 11 milioni di euro (provenienti sempre dal programma europeo Cef Digital) destinati a creare in tutta Europa diversi «centri di ricerca» sui media digitali nazionali e multinazionali: in Italia l’hub è Idmo (Italian Digital Media Observatory), coordinato da Gianni Riotta e da Livia De Giovanni. Luiss funge da coordinatore del progetto, il cui partenariato è costituito da 8 enti a livello internazionale tra i quali la Rai, l’Università di Tor Vergata, il Gruppo Gedi (La Repubblica), Pagella Politica e Tim come partner tecnico.
Altri 900.000 euro di fondi europei sono stati stanziati per elaborare il Codice di condotta rafforzato contro la disinformazione nell’Ue, presentato ad agosto 2022; ulteriori fondi sui servizi digitali Ue sono disponibili anche alla voce trasporti del Cef (dotata di un budget di circa 25 miliardi di euro).
E’ importante sottolineare che, nonostante sia stata istituita dall’Unione europea, Edmo dichiara di avere una governance del tutto indipendente dalle autorità pubbliche. Ciò conduce a diverse riflessioni su questa sorta di rapporto di «subappalto»: di fatto, il controllo sulle fake news in Europa è finanziato con fondi pubblici ma è affidato ad agenzie ed enti privati, che autocertificano l’assenza di conflitti d’interesse. Non solo: il Codice di condotta, che ha coinvolto 34 firmatari (tra cui Meta, Google, Twitter, TikTok e Microsoft), prevede la «demonetizzazione», ossia la riduzione degli incentivi finanziari per chi, in Europa, diffonde presunta «disinformazione», così che i responsabili non possano beneficiare di introiti pubblicitari. Sono dunque soggetti privati a stabilire se altri privati possano accedere alla pubblicità, fonte primaria di sostentamento per le testate giornalistiche realmente indipendenti: quantomeno curioso. Ha fatto altrettanto scalpore l’appello del colosso non profit Media Matters, attivo sostenitore di Hillary Clinton, che ha scritto una lettera ai più importanti brand americani (Coca Cola, Disney, Apple, Kraft, ecc) diffidandoli dal rinnovare i contratti pubblicitari a Twitter se l’azienda allenterà il fact-check. Elon Musk ha risposto chiedendo di indagare su chi finanzia queste associazioni «non lucrative»: già.
Ad affiancare Ifcn ed Edmo nella «lotta alla disinformazione», c’è inoltre la Google News Initiative, organizzazione europea creata per «sostenere il giornalismo di alta qualità». Google ha sovvenzionato oltre 6.250 testate in 118 paesi mettendo a disposizione 189 milioni di dollari. E lo stesso Fondo Straordinario per l’Editoria italiana destinerà parte dei 140 milioni previsti per il 2023 alla lotta alle fake-news.
Ricapitolando, il business del fact-checking è florido, ma il valore totale degli accordi stipulati tra donatori, «casa madre» e fact-checkers è difficilmente reperibile, così come è impossibile trovare nei siti dei controllori i bilanci, gli stipendi e la rendicontazione in dettaglio di come questi flussi di denaro siano ripartiti e spesi dai singoli aderenti. Con buona pace della «trasparenza» cui dicono di ispirarsi.
Fanno le pulci a chi scrive di vaccini e poi prendono soldi da pubblicità Pfizer
Chi controlla il controllore? Chi certifica che il fact-checking operi realmente «sulla base di rigorosi standard etici» e sia davvero «editorialmente libero e politicamente indipendente»? Chi verifica che le persone che ci lavorano «non ricoprano posizioni di rilievo in partiti politici»? Questi sono i requisiti richiesti dallo «European Code of Standards for Independent Fact-Checking», presentato quest’anno dalla Commissione europea. Il Codice è rivolto alle società aderenti al network Edmo (European Digital Media Observatory) e dovrebbe essere la bibbia dei fact-checkers. Ma i «Twitter Files» di Elon Musk sulla storia di Hunter Biden, sulle pressioni dei Democratici per insabbiarla e su Facts First USA confermano ciò che sappiamo da tempo: fact-checking e indipendenza politica viaggiano su binari diversi.
Il sistema di controllo delle notizie stabilito dall’Ifcn, sancta sanctorum del fact-checking globale, cui aderisce Open di Enrico Mentana, è strutturato sul «Code of Principles» che richiede anche di «non pubblicizzare le proprie opinioni su questioni politiche» (in Italia, ampiamente inascoltato) e «utilizzare le migliori fonti disponibili». Questi criteri, ritenuti ancor più importanti della trasparenza sui finanziamenti, spesso non sono soddisfatti. Se nella lista dei filantropi Usa che sovvenzionano Poynter Institute e IFCN figurano soprattutto gli amici del Partito Democratico, qualche domanda è giusto porsela.
Ad esempio, il miliardario Craig Newmark, una delle 100 persone più influenti al mondo, è dichiaratamente un Obama-man: ha sostenuto le campagne elettorali di Barack Obama, per poi appoggiare quella di Joe Biden. Anche la filantropica Gill Foundation, che ha foraggiato le casse del Poynter, è apertamente schierata con Biden. Il Presidente ha ricambiato, nominando ambasciatore in Svizzera uno dei quattro membri del board, Scott Miller. Miller a sua volta è il compagno di un altro membro del board, Tim Gill, figura preminente del mondo LGBTQ (ha donato ben 500 milioni di dollari alla causa) e sponsor della vittoria Dem in Colorado.
Un altro grande benefattore del Poynter è la MacArthur Foundation, anch’essa palesemente pro-dem. Kathy Im, Direttrice Media in MacArthur con un portfolio di 25 milioni di dollari l’anno, è stata chiamata da Joe Biden a dirigere la Società per la Radiodiffusione Pubblica CPB. E una delle più attive negazioniste dell’esistenza del computer di Hunter Biden, la giornalista Nina Jankowicz, fu promossa da Biden a capo del lugubre «Ministero della Verità», dipendente dall’Homeland Security americana. Di Bill Gates e George Soros già sappiamo. Ancora stupiti della storia di Hunter Biden su Twitter?
Fronte europeo, le interferenze tra politica, affari & fact-checking sono altrettanto lampanti. Finanziato dall’Ue, EDMO è l’organismo incaricato dell’analisi sulla disinformazione in Europa «con indipendenza e imparzialità». Davvero? Eppure, a capo della Governance EDMO c’è quel Miguel Poiares Maduro che è stato deputato in Portogallo e ministro nel governo del socialdemocratico Pedro Coelho. Un chairman non proprio «libero e indipendente».
Nel Board EDMO c’è anche il britannico Richard Allan, ex lobbista Cisco, deputato laburista e già direttore della campagna elettorale dell’ex vicepremier Nick Clegg, a sua volta assunto in Facebook dal 2018. Testimoniando a un processo, Allan ha ammesso che «le fake news di una persona effettivamente possono essere il discorso politico di un’altra».
Ancora più marcata l’impronta politica della IDMO di Gianni Riotta, derivazione italiana di EDMO, che vigila sulla disinformazione nel nostro Paese. All’interno del progetto c’è il Gruppo Gedi, stakeholder non esattamente super partes. La Repubblica, maggiore quotidiano del gruppo, ad esempio, ha ospitato pubblicità a nove colonne di Pfizer: tutto legittimo, se non fosse che lo stesso giornale decide se ciò che scrivono le altre testate sui prodotti Pfizer sia «vero» o «falso».
Nel concreto, all’interno di queste strutture presuntivamente «indipendenti» passa tutta l’informazione su Covid, guerra, clima e gas. Open, ad esempio, fa parte della Coronavirus Alliance, gruppo di lavoro che nel corso della pandemia ha svolto più di 9.000 fact-checking. E’ grazie a questi «debunker» che alcune evidenze scientifiche dirimenti, ma non allineate alle politiche sanitarie dei governi, non hanno raggiunto il grande pubblico, e son state bollate come «false». Alcuni si sono ribellati: i professori Carl Heneghan e Tom Jefferson dell’Università di Oxford, censurati da Facebook per aver postato uno degli studi più autorevoli sulle mascherine, che ne dimostrava la scarsa efficacia in comunità, hanno portato la questione al Parlamento inglese. Martin Kulldorff, professore ad Harvard, è stato bannato da Twitter per aver scritto che i guariti non devono vaccinarsi. Ormai, si pretende che la parola dei fact-checkers valga di più di quella di scienziati internazionali…ma solo quando questi ultimi «disobbediscono».
La stessa dinamica si è innescata sulla guerra: una settimana dopo l’inizio delle ostilità, Ursula von der Leyen ha deciso che i cittadini Ue non erano in grado di discernere se l’informazione russa era falsa o no, e così, per tagliare la testa al toro, ha chiuso Sputnik e Russia Today. Ciò non ha impedito a gran parte della popolazione Ue di schierarsi, comunque, contro l’invio delle armi: inascoltata. Qualche segno di risveglio c’è: Facebook ha dichiarato che, dato che Trump si è ricandidato, non lo sottoporranno più a fact-check perché «non è nostro ruolo intervenire quando i politici parlano». Il punto di caduta, alla fine, sembra racchiuso in una massima di Confucio: niente è più visibile di ciò che è nascosto.
Mark «mani di forbice» si affida all’algoritmo
Non è facile districarsi nel labirinto delle regole di Facebook, e capire perché la piattaforma di Mark Zuckerberg censuri come «pornografiche» le foto del suggestivo quadro della Scuola di Fontainebleau Gabrielle d’Estrées e sua sorella, che raffigura una donna che tocca il seno di un’altra donna, o rimuova un post che riporta slide e dichiarazioni pubbliche di esponenti Fda perché «incitano alla violenza fisica». Spesso gli utilizzatori di Facebook (2,9 miliardi di utenti attivi) faticano a capire la ratio dei provvedimenti imposti da Zuckerberg, né è chiara la differenza tra la «moderazione dei contenuti» e il «fact checking», che sono due attività diverse, gestite da team diversi e con processi diversi.
Per semplificare, la moderazione dei contenuti è gestita da Facebook sulla base delle proprie linee guida, sottoscritte dall’utente al momento dell’iscrizione. Queste vietano l’incitamento all’odio o alla violenza fisica e la diffusione di contenuti violenti, razzisti e discriminatori. Le «fake news», per intenderci, non sono citate. Buona parte del lavoro di moderazione è fatta dall’algoritmo, perché l’intervento umano non è economicamente sostenibile. Per fare un esempio pratico, se un utente pubblica contenuti pedopornografici o violenti, il contenuto viene rimosso subito dall’algoritmo. Una commissione di sorveglianza esterna, l’Oversight board, valuta comunque i ricorsi contro le rimozioni dei post.
La valutazione sull’attendibilità delle notizie, invece, è esternalizzata all’Ifcn (International fact checking network), organismo che ha stipulato un contratto con Meta gestendo per conto di Zuckerberg il fact checking in tutto il mondo. Il progetto si chiama Third-party fact checking program (controllo delle notizie eseguito da terze parti). In Italia, Facebook ha affidato questo incarico a Open di Enrico Mentana e a Pagella politica.
Chi trova nel feed le notizie «false» e decide di confutarle e/o farle rimuovere? Il protagonista del flow è l’Ifcn che fa la review delle notizie e, attraverso i suoi fact checker, individua la presunta fake news, effettua il cosiddetto «debunking» (ovvero tenta di smontarne l’attendibilità) e la segnala a Facebook. Un altro flow sono le segnalazioni stesse degli altri utenti, che però possono criticare solo la violazione delle linee guida. Alla rimozione delle notizie contribuisce lo stesso algoritmo che, quando intercetta attraverso i tag (le parole chiave) un contenuto già «debunkato» più di una volta, lo classifica in automatico.
Il fact checking di Facebook viene effettuato «in feed», ossia avviene dentro la piattaforma. Se un fact checker rileva una notizia falsa o fuorviante, non può tecnicamente rimuoverla. Il suo lavoro è di segnalarla a Facebook, che inserisce nel post un disclaimer in cui scrive che la notizia è stata esaminata e risulta, appunto, alterata, parzialmente falsa o falsa. A seconda della gravità della violazione, Facebook inserisce il disclaimer mantenendo visibile il post, o limita alcune funzioni all’account, oppure può «punirlo» riducendo la visibilità delle sue notizie nella timeline (e ciò danneggia gli «advertiser» che fanno pubblicità su Facebook).
La rimozione del post è effettuata da Facebook soltanto se, contestualmente, il post vìola anche i famosi Standard della community, che ufficialmente «prescindono dal programma di fact checking». È davvero così? Negli ultimi anni, sono stati rimossi contenuti postati da politici, scienziati e giornalisti per presunte violazioni delle linee guida poco credibili: è davvero difficile immaginare che un resoconto su una riunione Fda «inciti alla violenza fisica». Questo tipo di rimozioni andrebbero contestate, perché a volte Facebook ritorna sui suoi passi.
Il principio che guida Facebook nella decisione di rimuovere o no un contenuto «falso» è ufficialmente legato alla monetizzazione dei contenuti: il business di Facebook è la pubblicità, e le notizie false sul feed allontanano gli advertiser. È con questa scusa che diversi investitori (come ad esempio Pfizer) hanno deciso di sospendere la pubblicità su Twitter dopo che Elon Musk ha annunciato di non voler più censurare le presunte «fake news» sul Covid, e ha fatto rientrare nella piattaforma l’ex presidente Usa Donald Trump.
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Ansa
Nel 2020, il social oscurò le notizie sugli affari sporchi del figlio del leader dem usando la scusa (priva di prove) che arrivassero da pirati informatici. Erano i politici liberal a chiedere di controllare e cancellare i cinguettii.
Ricordate quando Twitter censurò lo scoop del New York Post, che provava come Joe Biden fosse a conoscenza dei controversi affari di suo figlio all’estero? Era l’ottobre 2020 e, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, quell’articolo avrebbe potuto seriamente danneggiare l’allora candidato dem. Eppure, il social di San Francisco decise di bloccare la possibilità di condividerlo. Una scelta controversa, su cui ha finalmente gettato luce il giornalista Matt Taibbi.
In un thread su Twitter, costui ha infatti chiarito alcuni aspetti della vicenda, basandosi su documentazione interna recentemente resa pubblica. Taibbi ha iniziato col sottolineare come la piattaforma ricevesse spesso richieste dal mondo politico per bloccare tweet considerati sgraditi: da quanto sostiene, tali richieste sarebbero pervenute sia dall’amministrazione Trump sia dal comitato elettorale di Joe Biden. Il punto è che, prosegue Taibbi, «questo sistema non era bilanciato. Era basato sui contatti. Poiché Twitter era ed è composto in modo schiacciante da persone con un dato orientamento politico, c’erano più canali, più modi per lamentarsi, aperti a sinistra (cioè ai democratici) che a destra».
E qui veniamo al primo nodo. La piattaforma poteva infatti vantare legami assai più solidi con il Partito democratico che con il Partito repubblicano. E attenzione: non si trattava solo di simpatia a livello ideologico. Come emerge dal sito Open Secrets, nei cicli elettorali del 2018 e del 2020 i dipendenti di Twitter versarono cospicui finanziamenti all’asinello, riservando invece briciole all’elefantino. In tutto questo, il Washington Examiner ha riferito che la maggior parte dei tweet, segnalati dalla campagna di Biden o dal Comitato nazionale del Partito democratico, non sono più disponibili.
Sia chiaro: i finanziamenti elettorali in sé stessi erano legali. Il punto è politico. Secondo Taibbi, Twitter si arrogò il diritto di censurare lo scoop del New York Post, facendo ricorso a strumenti fino ad allora utilizzati soltanto per casi oggettivamente gravissimi. «Twitter ha adottato misure straordinarie per sopprimere l’articolo, rimuovendo collegamenti e pubblicando avvisi che avrebbe potuto essere “non sicuro”. Ne hanno addirittura bloccato la trasmissione tramite messaggio diretto: uno strumento finora riservato a casi estremi, per esempio la pedopornografia», ha scritto il giornalista. Fu addirittura bloccato l’account dell’allora portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany, colpevole di aver postato lo scoop. Ora, la gravità non sta solo nel fatto che sul social cinguettavano allegramente figure a dir poco controverse, come Ali Khamenei e Nicolas Maduro. Ma che si trattasse di una circostanza potenzialmente lesiva del Primo emendamento fu sottolineato ai vertici di Twitter anche da Ro Khanna: deputato dem che, per la cronaca, risulta notevolmente spostato a sinistra e che non è quindi tacciabile di simpatie trumpiste.
Ma gli aspetti inquietanti non si fermano qui. Una delle ragioni addotte per la censura fu che i materiali contenuti nello scoop fossero stati hackerati. Peccato che non ci fosse alcuna prova ufficiale della cosa. Non a caso, la questione suscitò dibattito anche tra le alte sfere di Twitter. In particolare, la decisione ultima di censurare fu presa dalla responsabile dell’ufficio legale dell’azienda, Vijaya Gadde (che è stata, anche per questo, licenziata dal nuovo Ceo, Elon Musk). Al contrario, Jack Dorsey non sarebbe stato coinvolto nell’affossamento dell’articolo né lo sarebbero stati apparati governativi. Non solo. Secondo Taibbi un ex dipendente di Twitter avrebbe riferito che «l’hacking era la scusa, ma nel giro di poche ore praticamente tutti si sono resi conto che non avrebbe retto. Tuttavia, nessuno ha avuto il coraggio di invertire la rotta».
Che la base legale fosse fragile era quindi chiaro a tutti i dirigenti: d’altronde, in uno scambio di messaggi, il Deputy general counsel della società, Jim Baker, ammise che servivano «più fatti» per capire se il materiale provenisse da un hacking, ma aggiunse anche che, nel mentre, la «cautela era giustificata». Della serie: prove non ce ne sono, ma intanto blocchiamo tutto. Ricordiamo sempre che mancava meno di un mese alle elezioni presidenziali di allora e che Baker era stato assunto in Twitter a giugno 2020, dopo aver prestato servizio nell’Fbi e aver partecipato all’inchiesta federale sulla presunta collusione tra Donald Trump e la Russia. Non sentite anche voi puzza di cortocircuito? In tal senso, il deputato repubblicano, James Comer, ha annunciato che a gennaio chiamerà in audizione alla Camera i responsabili della censura.
Lo scoop del New York Post conteneva un’email di aprile 2015 rinvenuta nel laptop di Hunter Biden: un’email in cui un alto funzionario della controversa azienda ucraina Burisma ringraziava lo stesso Hunter per avergli presentato suo padre, che all’epoca era vicepresidente degli Stati Uniti. Pochi mesi dopo quella email, l’allora numero due della Casa Bianca fece pressioni sul presidente ucraino, Petro Poroshenko, per silurare il procuratore generale Viktor Shokin: una figura chiacchierata ma che aveva indagato proprio su Burisma. Ora, non sapremo mai se, senza questo atto di censura, l’esito delle ultime presidenziali americane sarebbe stato differente. Tuttavia, la gravità di quanto accaduto dovrebbe far riflettere sulla pericolosità insita in alcuni tanto decantati «meccanismi di moderazione» vigenti nei social. Ci sarebbe infine piaciuto che la Commissione europea, oggi tanto severa e occhiuta verso il Twitter di Musk, avesse detto qualcosa anche nel 2020. E comunque nuovi documenti potrebbero essere presto resi pubblici.
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