Risalendo lungo lo stivale prosegue un viaggio che vede l'umile fagiolo, per certi versi, protagonista inaspettato di millanta storie. Basti pensare a quante varietà accompagnino il percorso tra cucina e dispense, con relativi personaggi e scampoli di cultura materiale a farne contorno. Senza scomodare le dantesche propulsioni a scoppio della sua guida tra gli inferi, tale Barbariccia, riaccendiamo i fornelli a Paganica, nel tribolato Abruzzo aquilano. Qui l'omonimo fagiolo, alimentato dalle risorgive che scendono dal Gran Sasso, è visto come uno dei volani di ripartenza di un territorio che può offrire molto, assieme allo zafferano indigeno, eccellenza meno conosciuta rispetto al cugino di Navelli.
Crescono con le loro «capanne», quattro pali di salice lavorati durante l'inverno a fare da sostegno al loro sviluppo, in un'ottica di equilibrio ambientale ideale. Una volta divenuti adulti le radici sono lasciate nel terreno, concime naturale ricco di azoto per la stagione a venire. Mentre i fagioli vengono «capati», cioè selezionati uno a uno, per dare il meglio di sé ai fornelli, bucce e piante sono utili per integrare la dieta delle mandrie ovine, dal cui latte verranno elaborati i migliori pecorini. Piatto identitario le sagne e fagioli, piccole tagliatelle frutto della macinatura del grano nuovo presso i mulini. Ruvide e integrali. Un tipo di pasta che, nella tradizione matriarcale, favoriva la miglior produzione di latte, ma questa volta delle puerpere ai loro pargoli.
Al di là degli Appennini ci attende la Toscana, per certi versi la patria nobile del fagiuolo da tempi non sospetti, cioè pre colombiani. Fagioli cannellini che rientravano nella cospicua dote che portò con sé, per sposarsi oltralpe, Caterina de' Medici, futura moglie di Enrico II. Li coltivava nei suoi giardini di Versailles, ribattezzandoli toscanelli. Giusto tributo aristocratico a un prodotto che, in patria, il tosco romagnolo Pellegrino Artusi tracciava di basso profilo con un «si dice a ragione che i fagiuoli sono la carne del povero, quando l'operaio frugandosi in tasca vede, con occhio malinconico, che non arriva a comprare un pezzo di carne per fare un buon brodo, trova nei fagiuoli un alimento sano, nutriente e di poca spesa». Legumi profondamente radicati nella cultura locale tanto che una persona poteva «andare a fagiolo», cioè andare bene in certe situazioni, e se «capitava a fagiolo», cioè al momento giusto, era tombola per tutti, posto che i fagioli erano gli invitati principali (magari prima di finire in pentola) nelle giocose rimpatriate di famiglia in coincidenza delle feste comandate.
Un posto nel cuore di molti palati golosi lo trova il fagiolo di Sorana. Quando la cucina toscana furoreggiava nel gran Milan del dopoguerra, un ambasciatore su tutti li fece conoscere, il grande Aimo Moroni, che di Pescia era originario. Sedersi al suo tavolo di via Montecuccoli era un'autentica scoperta di saperi e sapori. Le sue narrazioni un tributo alla miglior tradizione della cultura materiale. Inforcava la sua Seicento multipla, la paziente consorte Nadia di guardia ai fornelli, e con il fiuto di un cercatore d'oro offriva ai suoi commensali il meglio (anche) della sua terra. Uno per tutti la zuppa etrusca «un piatto semplice, ma ci vogliono tre pentole e un po' di tempo per prepararla». Con un fondo di pane a fare da culla, sul piatto, a una jam session di cavolo verza, cipollotti, porri e… i fagioli dei ghiareti, ovvero quei terreni ghiaiosi e sabbiosi che facevano da incubatrice alla crescita di un prodotto coltivato tra castagneti e oliveti. Un microcosmo sviluppatosi attorno al territorio di Pescia grazie alle bonifiche volute dai Medici rinascimentali e i granduchi leopoldini.
Un frutto della terra che ha stregato innumeri palati di talento. Gioacchino Rossini, che correggeva le spartiture del locale Andrea Naldi in cambio di qualche libbra di legume locale, oppure Giuseppe Verdi che li incontrò mentre alleviava le membra e lo spirito alle terme di Montecatini. Tra queste valli ebbe il suo imprinting culinario Giuseppe Giusti che, una volta accasatosi a Firenze, si raccomandava sempre che gli venissero spediti quelli «legittimi». Giacomo Puccini, dopo un soggiorno a Pescia in cui compose alcuni brani de La Bohème, iniziò a inviarli regolarmente al suo editore milanese, Giulio Ricordi. La curia vaticana sollecitava ogni anno il pievano di Sorana ad inviarne qualche sacchetto per le cucine di papa Pio IX.
Ma nonostante tanti quarti di nobiltà storica il fagiolo di Sorana stava per estinguersi. Un grido di dolore lo lanciò un loro tifoso testimonial, Indro Montanelli, dalle colonne del Corriere della Sera. Ultimo resistente l'indomito Mauro Carreri, fondatore, nel 1999, di un piccolo consorzio di produttori, «il ghiareto», dopo che, nel 1998, aveva dato luogo al biennale «Fagiolo d'oro», un premio abbinato al gemello «Partitura di Rossini». Nell'albo d'oro figure che si erano battute per la salvaguadia di questo prodotto, quali appunto Aimo Moroni, Indro Montanelli, Paolo Petroni, attuale presidente dell'Accademia italiana della cucina, o lo avevano valorizzato al piatto, come il re della chianina, il macellaio Dario Cecchini, o Sirio Maccioni, che nel suo Le Cirque, a New York, serviva solo il legume di Sorana.
Altre colline, altra storia, ovvero quella del fagiolo zolfino, di Pratomagno, nell'aretino. Un prodotto molto delicato. Teme l'umidità e le brusche escursioni termiche, tanto che si può coltivare solo in collina. Un prodotto tanto ambito da aver subito diversi tentativi di falsificazione sui mercati, con buona pace dell'Artusi. Se il cugino di Sorana era ricercato dai palati vaticani, lo zolfino ha posto solide radici nei menù del Quirinale fin dai tempi di Carlo Azeglio Ciampi. Tra i custodi di questo piccolo fagiolo giallo, da alcuni definito «un pulcino», Mario Agostinelli. Detto anche fagiolo del cento, perché seminato attorno al centesimo giorno dell'anno. Beppe Bigazzi lo vede partner ideale della ribollita, mentre vi è un'altra storia che lo colloca nella leggenda, ovvero i fagioli al fiasco.
Un tempo, sulle rive dell'Arno, i maestri vetrai avevano iniziato a produrre dei contenitori di vetro simili alle borracce, utili ai viaggiatori lungo i sentieri dell'epoca. Venne naturale rivestirli di una erba palustre, detta stincia. Quando, per un editto del 1388, vennero proibiti i contenitori di metallo per bevande, il fiasco prese piede. Ma mentre nelle cantine era l'ideale per conservare i tesori di Bacco, i maestri vetrai fecero di necessità virtù con la fresca, la pausa intermedia del pranzo. Soffiavano un vetro «spartito bene», cioè di spessore uniforme e quindi resistente alla cottura. All'interno acqua e fagioli, aglio, salvia e magari due salsicce nelle stagioni fredde. Il tutto messo a covare bene tra le camerette del forno. Ed ecco nascere i fagioli al fiasco. Nelle famiglie contadine, invece, si riciclava il vetro che aveva esalato l'ultimo sentor di Chianti e, dopo aver cotto il pane nel forno a legna, si poneva il fiasco tra la cenere, tappato con della stoppa che permetteva l'uscita del vapore. Sembra che l'ispirazione per le melodie di Suor Angelica venne a Giacomo Puccini mentre frequentava la sorella Iginia, madre superiora agostiniana in un convento nella Lucchesia. Arie (liriche) e fagioli nobilitati con rara armonia.
Sui titoli di coda non possono mancare i fagioli all'uccelletto dove l'etimo vuolsi succedaneo a quando, terminati i tempi della caccia, bisognava pur sostituire i piccoli pennuti, al focolare, con qualcos'altro. Alla ricetta 384 arriva la soffiata di Pellegrino Artusi «mettete un tegame al fuoco con l'olio in proporzione, quando questi grilletta forte buttate giù i fagiuoli e conditeli con sale e pepe».
A Parigi, la notte sta per terminare. Fra le tenebre che si diradano e le nuvole soffocanti che coprono il cielo si intuisce qualche sinistro lucore, mentre si apre il 24 agosto 1572, festa di San Bartolomeo. L'aria è afosa, pesante, ferma. Gli spiriti degli uomini, al contrario, sono surriscaldati, eccitati, tesi all'estremo. Nessuno dorme. C'è in giro come un sentimento di attesa, di ansiosa aspettativa. Basterebbe un nonnulla, un piccolo segnale a provocare un'esplosione dalle conseguenze devastanti.
Ed ecco, il segnale arriva. Le campane di Saint-Germain-l'Auxerrois cominciano a suonare. A loro fanno eco quelle di molte altre chiese. Utilizzando una frase della celebre poesia di un autore inglese di fine Cinquecento, John Donne, nonché il titolo di un famoso romanzo di Ernest Hemingway del Novecento, verrebbe da chiedersi: «For whom the bell tolls», «Per chi suona la campana"? La risposta è: per tutti, o meglio per tutti gli appartenenti alla religione riformata.
Quello scampanio - di solito rasserenante, evocatore di pace e concordia, persino garrulo - sancisce infatti l'apertura della caccia all'uomo, la strage degli ugonotti, «il peggiore dei massacri religiosi del secolo», un secolo che pure non è avaro di carneficine. Fiumi di sangue stanno per scorrere, la pagina più sinistra delle guerre di religione è pronta per essere scritta. Fra i molti pittori che la effigieranno c'è il Vasari, che realizzerà anche, per ordine di un entusiasta Gregorio XIII, una medaglia celebrativa. Il suo affresco, raffigurante uomini che si accaniscono, infieriscono su morti e feriti, ne gettano altri dalla finestra, ha una grande potenza evocatoria.
Ancor oggi, tuttavia, di quella strage non si comprendono pienamente le ragioni e soprattutto i mandanti. Chi ha voluto «la notte di San Bartolomeo»? A chi è convenuta, a chi è servita? Ci sono stati uno o più registi, o si è trattato di una serie di coincidenze, umori, eventi che si sono sommati e hanno portato allo straripamento, come succede a un fiume che esonda?
A essere indicata quale principale responsabile è stata a lungo Caterina, l'avvelenatrice, la dark lady delle più fosche leggende. Dozzine, centinaia sono stati i libelli, i pamphlet, i romanzi, i racconti che l'hanno descritta come la vera mandante, «il burattinaio» dell'eccidio. Jean de Serres e altri cronisti del tempo hanno sottolineato l'euforia, la voluttà di quella donna di solito imperturbabile, mentre si bea del carnaio. Secondo de Serres, la Medici sarebbe esplosa «in grandi scoppi di risa» alla vista del cadavere di Monsieur de Soubise, sgozzato nel cortile del Louvre. In seguito, arriveranno le recite teatrali (fra cui, al tempo della Rivoluzione francese, il dramma Charles IX ou la Saint-Barthélemy di Marie-Jospeh Chénier, un vero successo di pubblico), le musiche; nel XX secolo i film e gli sceneggiati televisivi; addirittura i videogiochi e i fumetti.
Non sono mancati neppure i dipinti, gli arazzi, le rappresentazioni visive. Particolarmente impressionante, fra tanti, è un quadro dell'Ottocento di Ėdouard Debat-Ponsan che mostra Caterina appena fuori dal Louvre, con i soliti veli da lutto, seguita da gentildonne e cortigiani azzimati e circondata da soldati deferenti, mentre contempla freddamente, appagata e altera, lo sciame di corpi senza vita. Il pittore deve essersi ispirato al racconto del memorialista Pierre de l'Estoile, il quale ha descritto la Fiorentina fra le sue dame, che guarda i morti in quella afosa giornata di agosto «pour se refraîchir un peu et se donner du plaisir», «per rinfrescarsi e provare piacere». È sempre de l'Estoile a dichiarare: «Era lei che faceva tutto e il re non muoveva paglia senza che lei lo sapesse».
Dietro la Fiorentina, si stagliano sinistre le sagome di Carlo IX ed Enrico d'Angiò, il futuro Enrico III che Pierre Chevallier, nel titolo della sua biografia, chiamerà «un re shakespiriano». Anche loro sono considerati colpevoli senza appello (con qualche distinguo sul grado di responsabilità). Non possono mancare alla conta, in qualità di rei più o meno confessi, i Guisa. Fra costoro ci sono Claudio di Guisa, duca d'Aumale; il cardinale di Lorena, che ha appena celebrato le nozze di Marguerite de Valois ed Enrico di Navarra; e soprattutto Enrico di Guisa (l'amoroso di Margot), orfano del padre Francesco per colpa di Coligny e smanioso di vendetta. Rilevante, inoltre, sarebbe stato il ruolo della madre di Enrico, Anna d'Este. Rimasta vedova, Anna si è rimaritata con Giacomo di Savoia-Nemours, ma l'imeneo non ha stemperato la sua voglia di rivincita.
Il cosiddetto «appoggio esterno» sarebbe venuto dal re di Spagna Filippo II, furioso per i tentativi di Coligny di convincere il sovrano francese a intervenire militarmente nei Paesi Bassi.
La vox populi ha addirittura creduto di riconoscere in Carlo IX l'uomo che si è messo a sparare dalle finestre del Louvre (nemmeno fosse un cecchino) colpendo tutti quelli che fuggivano. Secondo la leggenda, sempre lui, di fronte al corpo di Coligny, mutilato e maleodorante, ha esclamato: «Il cadavere di un nemico sa sempre di buono!».
Dopo Parigi, l'orrido eccidio si estende alle campagne, alle altre città di Francia, aprendo quella che Jules Michelet definisce «la saison de la Saint-Barthélemy», la stagione di San Bartolomeo. Anche in questo caso, l'ordine sarebbe stato impartito dal re.
Ma una parte di questi impressionanti racconti è una leggenda, una favola raccapricciante, un racconto di orchi e streghe per eccitare la fantasia e la paura; tante attribuzioni non reggono a un esame più attento. L'equilibrata, enigmatica, controllata Caterina non fa parte di quelle che una certa cultura - e letteratura - popolare chiama «regine maledette» (ammesso che siano state veramente tali): non è Bloody Mary, Maria la Sanguinaria, né Isabella di Castiglia; Fredegonda dei Franchi o Isabeau di Baviera. I gesti clamorosi, le parole definitive riportate poi dalla cronaca nera sono spesso una serie di fole; in circostanze del genere si cercano dei capri espiatori, uno o più personaggi - meglio se di sesso femminile, così si può aggiungere un pizzico di stregoneria - su cui far convergere la morbosa curiosità dei contemporanei e dei posteri. Basti pensare a un'altra vituperata regina, Maria Antonietta, e alla frase «Il popolo non ha pane, dategli le brioche», che non è stata mai pronunciata.
Nemmeno il pur poco equilibrato Carlo IX è tipo da lasciarsi andare a simili scempi, a ordinare massacri per tutto il Paese. Egli, anzi, ha cercato di fermare gli eccidi.
Di indubbio, in questa faccenda, c'è prima l'attentato, poi l'assassinio di Coligny e la «macelleria» che ne consegue; l'orgia di sangue della populace, il popolino parigino, la racaille, la feccia, che, come succede quando viene scatenata, diviene incontrollabile (lo stesso accadrà negli anni della Rivoluzione e del Terrore, nonché all'epoca della Comune). Quanto ai motivi, alla regia, alle responsabilità iniziali, si possono azzardare delle ipotesi, delle congetture; nulla è provato, nulla è certo.
Non si conosce con esattezza neppure il numero delle vittime effettive. C'è chi dice che in tutta la Francia siano state uccise fra le venti e le 30.000 persone, comprese le donne in stato interessante, i vecchi, i malati, i bambini, i lattanti; chi stima la cifra parecchio inferiore. Saccheggi, incendi, distruzioni, stupri, torture, annegamenti, roghi, mutilazioni: le peggiori efferatezze vengono commesse, le vendette personali, i regolamenti di conti perpetrati senza pietà, coperti dal manto della religione. Perché quel momento di follia collettiva, vertigine truculenta? Qual è la ragione di uno scatenarsi inconsulto di passioni dionisiache, «orgiastiche» e mortifere che non lasciano spazio alla pietà?
L'unica risposta possibile, ancor oggi, è: non si sa, non si capisce fino in fondo. Ha ragione Jean-François Solnon quando afferma: »... le circostanze precise della notte di San Bartolomeo ci sfuggono: è più facile dire cosa non è stata, che sapere ciò che realmente è successo». Quell'incendio, quell'ondata di violenza resta a tutt'oggi un enigma.
«Il giovane leone sbaraglierà il vecchio/ Sul campo di battaglia in singolar tenzone/ Nella gabbia d'oro gli trapasserà gli occhi/ due classi in una, poi morire, morte crudele». Questo vaticinio, alquanto criptico, proviene - come altri, similmente oscuri - da un negromante del Cinquecento di nome Michel de Notre Dame, più noto come Nostradamus.
Nato a Saint-Rémy-de-Provence, passerà alla storia come uno dei più grandi autori di profezie, contenute in un libro di quartine in rima che si intitola, per l'appunto, Profezie. Sembrerebbe, fra l'altro, aver previsto alcuni eventi drammatici, fra cui la Rivoluzione francese. Sua, infatti, è la quartina sulla fuga fallita di Varenne, quella di Maria Antonietta e Luigi XVI, che porterà a sanguinosissime conseguenze.
Purtroppo, le premonizioni di Nostradamus sono fatte in maniera talmente complessa ed enigmatica che possono riferirsi a eventi e persone differenti, nonché a epoche diverse; solo a posteriori sono attribuibili a fatti realmente accaduti. Il Cinquecento, comunque, è un'epoca splendida e superstiziosa - come sarà il razionale secolo dei lumi - per cui molti grandi si servono di astrologi e maghi. Fra loro, c'è una regina di Francia che ha lasciato dietro di sé una cupa leggenda nera, davvero non meritata. È un'italiana, unica discendente legittima di una grande famiglia, e si chiama Caterina de' Medici.
Nata nell'aprile 1519 a Firenze e rimasta subito orfana, Caterina ha affrontato nella prima infanzia prove crudeli, legate alle sorti della sua casata, che è stata prima in auge, poi in disgrazia. Finalmente, grazie agli intrighi dello zio papa Clemente VII, è stata fatta sposare nell'ottobre 1533 con Enrico di Valois, secondogenito del re di Francia, Francesco I.
Gli anni trascorsi accanto a quel suocero, che incarna da solo il Rinascimento francese e ospita presso di sé italiani di genio come Leonardo da Vinci, hanno plasmato Caterina. Anche lei, però, ha rappresentato e rappresenta per lui una chiave di volta, un trait-d'union fra i due paesi. È la Medici, infatti, ad avere in parte esportato dalle corti del Belpaese la cultura, l'arte, la letteratura, l'architettura, lo stile, il lusso, le maniere eleganti e persino la cucina in una terra - l'antica Gallia - ancora molto vicina ai rigori bigotti e ruvidi del Medioevo.
Oltre ai gioielli e alle perle di famiglia, la ragazza ha condotto o fatto arrivare artisti, disegnatori, pittori, scultori, artigiani, scrittori, poeti, cuochi, pasticcieri, sarti, musici, cantori. Va ascritto a Caterina il merito di aver introdotto la forchetta a tavola, imposto le culottes per le dame, inventato un modo di montare a cavallo detto «all'amazzone» ( lei stessa è un'eccellente cavallerizza), diffuso i profumi, ideato i sorbetti e i gelati, modernizzato la cucina d'oltralpe, nonché lanciato molte mode. Inoltre, per compiacere il suocero innamorato dell'Italia, la fanciulla ha mandato a prendere in loco opere d'arte e oggetti di ogni genere. Dalle invasioni del 1494, furoreggia il «lusso all'italiana», che oltre un secolo dopo si tramuterà in «lusso alla francese«.
Pur non essendo bella né affascinante, inoltre, la Medici è talmente abile che riesce a trasformare questo handicap in un vantaggio. La corte è piena di insidie e Caterina preferisce essere sottovalutata, tenuta per quantité négligeable, che divenire il punto di mira degli invidiosi. Per lungo tempo, quindi, la figlia di quelli che vengono chiamati con scherno «venditori di pillole« - con riferimento alle «palle» medicee - opta per il basso profilo. Sa che il suo matrimonio è considerato una mésaillance e cerca di rendersi gradita, parla poco e osserva molto. Ha una profonda cultura e un'immensa biblioteca, conosce i classici e soprattutto Machiavelli (Il Principe è stato dedicato a suo padre, Lorenzo de' Medici, duca di Urbino), da cui ha appreso il valore della dissimulazione. Si fa apprezzare da Francesco I, dalla sorella Margherita di Navarra, dalla regina Eleonora d'Asburgo. Invece non riesce a suscitare l'interesse del marito, l'introverso Enrico, che è innamorato della bella, ambiziosa e fredda Diane de Poitiers, assai più vecchia di lui.
Per anni, Caterina deve sopportare il ménage à trois con l'imperiosa favorita. Costei ha avuto l'astuzia di elevare sé stessa al rango di divinità classica, scegliendo come figura di riferimento la dea della caccia e della luna, la Diana sua omonima. E ha preso come insegna la mezzaluna, l'arco e le frecce, nonché una «divisa» alquanto impudente: «Ho conquistato colui che tutto conquista».
Nel 1536 la Medici è diventata delfina di Francia, perché il primogenito Francesco è morto improvvisamente (si è parlato subito di veleno italiano) ed Enrico è divenuto l'erede al trono. Invece di rafforzarla, questo avvenimento ha reso più precaria la sua posizione, poiché ella non ha ancora dato un erede alla Corona. Temendo di essere ripudiata, ha tentato allora ogni mezzo pur di rimanere in stato interessante, circondandosi di ciarlatani che le hanno prescritto rimedi tanto disgustosi quanto inefficaci. Non è merito loro se, nel gennaio 1544, nasce il sospirato erede Francesco. Di quegli anni di tentativi infruttuosi, rimarrà alla Medici l'etichetta infamante di «regina nera«: che sia una seguace di negromanti come Nostradamus e Cosimo Ruggeri è vero, tuttavia ella dimostrerà di saper decidere e regnare da sola.
Dopo il primo maschio, arriveranno molti figli e figlie, fra cui la celebre Regina Margot. La prolificità della delfina fa felice il marito, il suocero e la corte, ma Enrico continua la storia d'amore con Diana, che decide persino l'educazione dei principini. Quando, nel 1547, muore Francesco I, sono i due sposi a salire al trono: Caterina viene incoronata ufficialmente regina di Francia, però non detiene un vero potere. La corte, in ogni caso, si riempie di italiani e soprattutto fiorentini.
Desideroso di riscattare precedenti sconfitte, Enrico II decide quindi di ricominciare le guerre: il cosiddetto rêve italien, il sogno italiano, è da sempre caro ai Valois, anche se foriero di disastri inauditi. Mentre lui è in battaglia, la moglie viene nominata reggente, anche se nella sostanza la sua posizione non muta, come non viene scalfita l'influenza di Diana. Costei è talmente sicura di sé che in certe notti spedisce il regale amante nel talamo di Caterina, per dare più eredi possibili alla Corona...
Tutto potrebbe continuare così - e la Medici non sarebbe passata alla storia come grande e controversa sovrana - se non fosse che, subito dopo la pace di Cateau-Cambresis del 1559, vengono indette feste e giochi per sancire l'avvenimento. In quei giorni, fra l'altro, si svolge il matrimonio per procura della delfina Elisabetta di Valois con il re di Spagna, Filippo II.
È il 30 giugno 1559 quando Enrico II si cimenta in un torneo cavalleresco che riecheggia quelli medioevali. Caterina, molto inquieta a causa di un sogno e diverse premonizioni degli astrologhi, lo ha scongiurato di lasciare stare, ma lui non ha voluto darle retta. Durante l'ultima giostra, Enrico impone a Gabriel de Montgomery di cimentarsi con lui. Per una fatale e sfortunata coincidenza, la lancia spezzata di Montgomery riesce a passare in una delle fessure dell'elmo e si conficca nell'occhio del sovrano, penetrandogli fino al cervello. Il Valois morirà dopo 10 giorni di atroce agonia, come aveva previsto Nostradamus.
Caterina è disperata, si veste di nero, tuttavia non perde tempo in querimonie. È ormai la Regina madre e lo sarà sempre, anche se sul trono si succederanno tre dei suoi figli. Per lei, è scoccata l'ora della rivincita su tutto e tutti. Tenterà, in una fase travagliata come quella delle guerre di religione fra cattolici e protestanti ( ugonotti), di mantenere un equilibrio, imporre la pace, ma subirà cocenti sconfitte, come nella notte di San Bartolomeo dell'agosto 1572, quando un'infinità di ugonotti saranno massacrati durante le nozze fra sua figlia Margot e il re di Navarra, Enrico. E sconfitta ancor più tremenda sarà la fine dei Valois e la presa di potere di quell'Enrico ex protestante che non a caso pare avesse detto: «Parigi val bene una messa». A Caterina, almeno, la morte risparmierà questo ultimo oltraggio.
Nell'immaginario collettivo sono il turbo che esce dalla scatoletta di latta per dare forza a Braccio di ferro, l'eroe dei cartoons nato, nel 1929, dalla fantasia di Elzie Segar. In realtà gli spinaci sono un prodotto della terra che affonda in radici lontane. Tracce della loro coltivazione rimandano in Persia, nel Duemila avanti Cristo. Poi, da lì, sembra si siano diffusi in Cina. Giunsero attorno all'anno Mille in Spagna. Qualcuno sostiene grazie agli arabi. Secondo altre fonti, invece, per mano dei Crociati. Nel XII secolo un autore arabo, Ibn al-Awwan, li considerava il principe degli ortaggi per le loro virtù nutritive, anche se non godevano di particolari considerazioni alle tavole borghesi e aristocratiche. Spinaci molto utilizzati, invece, dalle classi subalterne per farne zuppe e minestroni. Poco dopo ne scrisse Abul al-Arbuli, valorizzandone le proprietà lassative ed emollienti. Giunsero in Italia attorno al Quattrocento e si diffusero in Toscana grazie alla coltivazione negli orti delle suore benedettine. Loro prima testimonial fu Caterina de' Medici. Quando prese la via di Parigi per sposare il futuro re di Francia, Enrico II, si portò al seguito cuochi capaci di trattare proprio gli spinaci. Da lì la nascita di una preparazione in uso ancora oggi, ovvero gli spinaci «à la florentine». Un letto di spinaci su cui si dispongono uova o filetti di pesce, lessati e poi ricoperti di salsa Mornay (una sorta di besciamella), fiocchetti di burro e parmigiano passati poi al forno.
Il boom arrivò attorno all'Ottocento. Diversi i fattori favorenti. Sono un prodotto che cresce senza grandi pretese. Nelle diverse varietali vengono coltivati in tutte le stagioni, con predilezione per quelle fresche (primavera e autunno). Possono tranquillamente sfruttare la fertilità lasciata da altre coltivazioni (ad esempio intercalati al frumento), e sanno intrattenere rapporti di buon vicinato con diverse altre coltivazioni, dalla cicoria al radicchio. Oltre a essere molto versatili in cucina, il loro consumo si è sviluppato grazie anche alla notevole capacità, una volta surgelati, di essere cucinati senza perdere il sapore. Un tempo, nella farmacopea rurale, venivano utilizzati come impacco in caso di scottature o per stimolare la cicatrizzazione di piccole ferite cutanee.
È vero che Braccio di ferro ha fatto bucare loro lo schermo per le proprietà legate al ferro e quindi alla potenza muscolare anche se, in realtà, la storia è un po' diversa. Correvano i tempi della grande depressione e, in qualche modo, bisognava trovare un escamotage per dare vigore all'alimentazione delle tavole sempre più impoverite degli americani. Complice un errore di trascrizione verificatosi alcuni decenni prima, si immaginò che gli spinaci fossero una miniera di ferro, addirittura 35 milligrammi per 100 grammi. Nel 1870, infatti, un chimico tedesco, Erik von Volf, sbagliò a porre una virgola trascrivendo i suoi dati, e così 3.5 divenne 35. La verità venne ristabilita nel 1937, ma oramai le performance di Braccio di ferro avevano fatto schizzare le vendite degli spinaci alle stelle anche se, in realtà, vi erano altri prodotti che, da sempre, di ferro ne contenevano dosi ben maggiori, come ad esempio le lenticchie, 9 milligrammi, o i ceci, 6.7 milligrammi. Ferro utile sotto diversi aspetti, principalmente quello di favorire il trasporto di ossigeno nel sangue. Sono a bassissimo tasso calorico. Contengono molte vitamine, in particolare la C che aiuta il fegato a ripulire l'organismo dalle sostanze tossiche. L'acido folico stimola la produzione di globuli rossi ed è utile nella prevenzione di alcune forme neoplastiche, in particolar modo a livello di seno e prostata, oltre a essere una barriera contro i processi ossidativi legati all'invecchiamento. Consigliatissimi nella dieta delle puerpere e poi in corso di allattamento. Spinaci dalle mille virtù anche per il loro contenuto di luteina, protettiva verso cataratta e degenerazione maculare, oltre al fatto che, come tutti i vegetali, essendo ricchi di fibre favoriscono il defluire di sostanze potenzialmente tossiche per l'intestino.
In cucina gli spinaci sono molto versatili. Le loro proprietà si possono assimilare al meglio se mangiati crudi, le piccole foglie in insalate che, con succo di limone, permettono di assorbire in maniera ottimale le varie componenti. Un grande classico sono le fettuccine paglia e fieno con piselli e prosciutto. Possono rientrare nella composizione di molte preparazioni, con le relative varianti regionali. Ecco i malfatti, in Lombardia, sorta di gnocchetti con ricotta, uova e parmigiano cugini, per certi versi, dei canederli in uso nel Trentino. Oppure gli spätzle, gnocchetti più piccoli, altoatesini, la cui «morte» è con panna e speck. Spinaci pronti a entrare in impasti diversi, come ad esempio i friulani cialzons, sorta di ravioli con cioccolato, uvetta e cedro, o i veneti tortelli di spinaci e ricotta. Un impasto «nature», cioè non rivestito da alcuna sfoglia, abbinato a ricotta, quello degli gnudi toscani, diffusi tra Maremma e Mugello e ancora i culurgiones, intriganti ravioli sardi. Come contorno possiamo incontrare gli spinaci alla genovese così come alla romana o alla partenopea, con abbinamenti diversi.
Nella letteratura gastronomica di loro si sono occupati Nino Bergese e Pellegrino Artusi. Il primo con gli spinaci alla viroflay, sorta di involtini a base di spinaci e parmigiano, e l'altro che ne ha codificato la preparazione classica entrata in ogni casa, spadellati con burro e accompagnati poi in vario modo. Protagonisti di torte salate, dallo strudel alla genovesissima torta pasqualina, le cui prime tracce affondano nel Cinquecento, testimone Ortensio Lando, quando era chiamata ancora gattafura. Oppure l'erbazzone, detto così perché un tempo la sfoglia veniva farcita con quello che offriva il campo, dalle erbe selvatiche alle biete e, infine, dai più disponibili spinaci. Spinaci eclettici, quindi, tanto da trovare cucine d'autore che li hanno saputi valorizzare, come ad esempio nel circuito dei ristoranti del Buon Ricordo. A Cortina d'Ampezzo, da Beppe Sello, si preparano le sfogliatine ai funghi porcini e spinaci, un tributo alla storia locale. Qui sono presenti nella variante detta del buon Enrico, spinaci di montagna quindi, che crescono fino a 2.000 metri. Hanno contribuito a salvare i valligiani dalle devastanti carestie dei secoli passati, anche se il loro uso, un tempo, era più domestico che alimentare, venendo usati come tinture per capelli o per lucidare i paioli di rame. Altro piatto del Buon ricordo guadagnato sul campo dagli spinaci alla Gostilna (Trattoria) Devetak, nel Carso goriziano, con lo strudel di spinaci.
Ma anche i mestoli stellati hanno posto gli spinaci nella loro hall of fame. Pietro Leeman che nel suo Joia, a Milano, si è inventato «anima mundi», un omaggio alla terra ispirato da un passaggio di Platone, «Oh, mio caro pianeta», tradotto al piatto con un tortino di patate, spinaci, cialde croccanti farcite di insalata e formaggio. E poi il «divin» Gualtiero Marchesi, pioniere della nuova cucina italiana. Il suo raviolo aperto ha fatto l'epoca, icona fotografica ancor oggi. Due sfoglie di pasta, di cui una verde agli spinaci, a racchiudere, in forma aperta, delle capesante. Da ultimo, al dessert di questa spinaceide golosa, Massimiliano Alajmo, tristellato delle Calandre, nel Padovano, che ha pensato bene di collocare gli spinaci al dessert con il suo After six. Una preparazione a base di crema verde di spinaci, menta e crema di fragole rosse. Una piccola madeleine della memoria di quando, al momento di soffiare la sua sesta candelina, mamma Rita Chimetto (una delle prime cuoche stellate italiane) gli presentò una specie di Topo Gigio con gli stessi ingredienti che lui ha poi rielaborato in forma diversa. Ne han fatta di strada, quindi, gli spinaci da quando sono saltati fuori dai barattoli scolati a man bassa da Braccio di ferro...






