Ma Matteo Salvini ha la vista lunga, o corta? Marcello Veneziani, nel suo bell'articolo di ieri, sembra pensare che la debba allungare. E certo, di questi tempi, devi sempre sforzarti di vedere più in là, il domani è subito ieri. Però, a vederlo non solo dal palcoscenico governativo, ma da Milano, il territorio antropologico cui sia pure con grande libertà organicamente appartiene, Salvini mi sembra uno che la vista lunga ce l'ha sempre avuta. Fin da ragazzo.
La prima volta che l'ho incrociato, alla Lega Nord (o era ancora: Lombarda?) una trentina d'anni fa, si stava dando un gran daffare per organizzare un incontro e contrastare il progetto di una moschea a Lodi. Praticamente un sacrilegio in mezzo alla «pianura bianca», cattolica, dove nacquero - tra gli altri - i padri Barnabiti, presso i quali studiarono Alessandro Manzoni, Marco Bellocchio (che si vendicò crudelmente) e anche io (e molti altri). Quel (forse non ancora) ventenne, impegnato in pieno e distratto edonismo reaganiano a radunare vecchie cariatidi (come me e altri), per contrastare l'arrembaggio islamico, mi stupì non poco. Di sicuro non era un prodotto del consumismo politico che Veneziani perfettamente descrive e giustamente deplora, con i suoi facili e insulsi obiettivi. Certo avrebbe sempre potuto diventarlo dopo, naturalmente. Non potevo escluderlo.
Anche se dalle poche volte che lo intravidi sotto casa (abito a fianco del Palazzo di giustizia, occhio di ogni ciclone), impegnato in mezzo alla strada in sacrosante e movimentate proteste, non mi diede l'impressione di stare imbolsendo in vaniloqui di maniera. Era un giovane attivista appassionato. Certamente non un burocrate, virus che ha contagiato legioni di giovani in questi anni; ma neppure uno che recita. A vederlo, dava l'impressione di uno che il copione ce l'ha nel sangue, non in testa. E non ce ne sono stati tanti così in giro. Un altro con la parte nel sangue era l'Umberto, il Senatùr. Ma quello, che all'inizio ci aveva visto lontanissimo, poi si innamorò della Padania, terra pure a me molto cara, ma anche rischiosa, come tutte le pianure ex paludi. Facile infognarcisi.
Salvini invece questa capacità di alzare lo sguardo ce l'ha di natura, almeno finora. Io, che pure il cambiamento ce l'ho di default (e sono riconoscente alla neuroscienze che hanno scoperto che va bene così), rimasi di stucco quando lui buttò tutto il padanismo all'aria per il Sud, e lo convinse a dire: Io sto con Salvini. Però, con mia grande sorpresa, aveva ragione. Aveva colto la possibilità di un cambiamento positivo del Sud, invisibile per gli osservatori di professione, più o meno tutti malati di cinismo.
Per verificare meglio, chiesi ai giovani: mi ero accorto che moltissimi, fra loro, erano compagni di avventure del Capitano. Cercai di capire se era un virus internettistico, una suggestione o cosa. Era altro, e imprevedibile. Gli volevano bene, e lui a loro. Era, dicevano, «vero», aggettivo che un giovane dice oggi a voce bassa e come con pudore, dato che i politici sono quasi tutti falsissimi. Ed era -altra cosa quasi inesistente tra i politici attuali - corretto, non una carogna. Non che non si battesse per le sue idee. Malgrado i bacioni che manda a questo e quello, è chiaro che attaccare briga a Salvini non dispiace affatto. Ma è leale. Così pare sia stato coi suoi due grossi avversari nella Lega, il Senatùr e Roberto Maroni. E un Capitano leale, in tempi in cui tutto è falso, non lo si trova tutti i giorni.
Oltre a qualità personali tuttavia, oggi servono, come chiede Veneziani, idee e programmi. Ma qui Salvini, sa da sempre, (non saprei se per intuizione o per sudata conoscenza) cose e informazioni che altri non hanno. Per lui (come a dire la verità anche Bossi e altri nella Lega) il sovranismo non è affatto uno slogan vuoto, ma il fenomeno che li collega con gli altri movimenti autonomisti e sovranisti che dagli anni Ottanta in poi hanno gradualmente cambiato la carta geografica del mondo, e ora anche quella elettorale. Che i grandi giornali e strumenti informativi ne parlino il meno possibile (in parte per ignoranza, in parte per paura), si limita a rallentare il fenomeno. Su cui molti (me compreso) fin da allora scrivevano libri e tenevano corsi universitari nelle facoltà di scienze diplomatiche e politiche di mezzo mondo. Sovranismo e populismo, infatti, non sono due slogan di corto respiro che occorrerà cambiare da qui all'autunno per trovarne altri che tirino per qualche mese, ma i fenomeni (antichi) che cambieranno il mondo nei prossimi anni. Certo, bisognerà studiarseli bene nelle loro trasformazioni. I fenomeni politici sono aggregazioni di energie in continuo sviluppo, e per continuare a farne parte e guidarli occorre non farsi buttar fuori dalle pesantezze personali, o storiche, del contesto in cui ci si muove. Né a Roma, né a Bruxelles si respira aria buona (da tempo), e intossicarsi rimane il rischio principale del Capo (come già dimostrato dall'attuale Presidente dell'Unione europea, e altri). Su questo però, Milano ha una tradizione forte, borromaico-catara che Salvini pare avere già nel sangue. Deve solo averne cura, e difenderla.
«La follia dei capitani in Italia», titolava l'altro ieri la Bild, diffusissimo quotidiano tedesco, in merito alla polemica sulle fasce di capitano delle squadre di serie A, aggiungendo la solita filastrocca benaltrista: «Come se il calcio italiano non avesse altre preoccupazioni».
Verrebbe da rispondere ai tedeschi che ciascuno dovrebbe badare ai propri, di problemi calcistici, soprattutto se si è reduci da una figuraccia leggendaria come quella rimediata dalla Germania ai mondiali in Russia: l'eliminazione al primo turno, per la prima volta nella storia, imporrebbe un sano sovranismo sportivo, ciascuno pensi prima ai guai di casa propria.
Però la faccenda impone qualche considerazione impopolare ma doverosa, partendo da un riassunto di quanto sta accadendo. La Lega di serie A, a partire dalla stagione in corso, ha imposto a tutte le squadre di far indossare ai capitani la stessa fascia, con la scritta «capitano». Una decisione che può piacere o non piacere, ma che è una regola, e come tale va rispettata. Chi desidera una fascia di capitano diversa, personalizzata, deve chiedere alla Lega l'apposita deroga. Già tre capitani, nelle prime tre giornate di campionato, hanno violato la norma. Il primo «ribelle» è stato Daniele De Rossi, eterno capitan futuro della Roma, che contro il Torino ha indossato la sua solita fascia, quella con la scritta che richiama i cori della curva Sud: «Sei tu l'unica mia sposa, sei tu l'unico mio Amor»; poi è toccato al Papu Gomez, alfiere dell'Atalanta, vero e proprio fanatico delle fasce da capitano personalizzate (ne disegna lui stesso una diversa per ogni partita) che ha trasgredito la regola e sui social ha pure sfottuto: «Quella che mi ha mandato la Lega», ha scritto, «era troppo grande». Infine, il caso più clamoroso, più spinoso, quello di German Pezzella, capitano della Fiorentina, che indossa e continuerà a indossare, con il pieno sostegno della società, la fascia dedicata alla memoria di Davide Astori, l'ex capitano viola tragicamente scomparso lo scorso 4 marzo.
È la stessa fascia che i gruppi del tifo organizzato avevano regalato ad Astori, con gli stemmi dei quartieri storici di Firenze, ai quali è stata aggiunta la scritta «DA13»: le iniziali e il numero di maglia del povero Davide.
Regola violata dai viola, che annunciano che continueranno a violarla. Cristiano Biraghi, difensore della Fiorentina convocato in nazionale da Roberto Mancini, lo ha detto chiaro e tondo: «La fascia che porta German», ha spiegato Biraghi da Coverciano (raddoppiando gli imbarazzi, perché quella è la casa della federazione), «non serve descriverla, non va messa in discussione. Non abbiamo problemi a pagare di tasca nostra la multa perché quella fascia ricorda un grande uomo, un nostro grande compagno e, soprattutto, una nostra guida». Il giudice sportivo, che avrebbe dovuto sanzionare i trasgressori, ha deciso di chiudere un occhio e ha «assolto» De Rossi, Gomez e Pezzella per le prime giornate di campionato: «Essendosi verificate disomogeneità informative», ha scritto, «le eventuali determinazioni conseguenti alla violazione delle sopra riportate prescrizioni verranno assunte dallo scrivente organo, a partire dal prossimo turno del campionato di serie A Tim». A Firenze però non hanno alcuna intenzione di fare marcia indietro. Il presidente esecutivo della Fiorentina, Mario Cognigni, ha telefonato al presidente della Lega di serie A, Gaetano Miccichè per affrontare la questione della fascia da capitano dedicata a Davide Astori, invocando «buon senso».
Anche il presidente dell'associazione italiana calciatori, Damiano Tommasi, si è espresso sulla questione: «Una deroga solo per la Fiorentina? La norma», ha detto Tommasi, «non dice che bisogna utilizzare quella fascia, ma che qualunque fascia deve essere autorizzata dalla Lega. Non so a questo punto se la Fiorentina ha già fatto il passaggio in Lega di chiedere di poter usare la fascia di Astori, in questo caso dipenderà dalla Lega dare l'eventuale via libera».
Da alcune indiscrezioni, la Lega starebbe pensando di concedere la deroga. Ora, fermo restando che la volontà della Fiorentina di onorare la memoria di Astori è non solo comprensibile, ma sacrosanta, tutta la vicenda suscita alcuni interrogativi. È possibile che in questa sventurata nazione non ci sia un modo per coniugare il desiderio di ricordare Davide Astori con il rispetto delle regole? Il messaggio che il mondo del calcio trasmette agli italiani, deve necessariamente essere quello che le norme in questo Paese sono semplici consigli, che poi ciascuno decide se seguire o meno? Per quanto ci riguarda, è solare che sarebbe possibile mantenere viva la memoria di Astori anche senza la fascia di capitano dedicata: ricami sulle maglie, striscioni, dediche. La norma è chiara: «Vietate le fasce personalizzate», non «vietato onorare Astori». Il quale era un grande capitano, uno di quelli che le regole le rispettano, punto e basta.






Salvini e Trump sempre nel mirino perché hanno capito come comunicare sui social