L’Atac pagherà un extra ai suoi dipendenti per fare il loro lavoro. Per guidare fino alla fermata e, incredibile, persino per fermarsi al rosso. Sembra che si sia arrivati a questo: un’azienda pubblica che ricompensa chi fa il minimo indispensabile, ciò che dovrebbe essere scontato e da contratto. Questa non è solo un’immagine grottesca della gestione del trasporto pubblico a Roma, ma è la cartina di tornasole di un’intera amministrazione che ha perso il senso del dovere, quella del dem Roberto Gualtieri. Da anni si assiste a una deriva che ha trasformato la Capitale in un teatro dell’assurdo. E ora, con un misto di amarezza e incredulità, stando a quanto ha pubblicato ieri il Foglio, si apprende che il Comune di Roma, invece di punire chi diserta il proprio lavoro, di incrementare i controlli e di far sentire il fiato sul collo ai lavativi, avrebbe deciso di premiarli. L’anno scorso, oltre il 13 per cento dei dipendenti dell’Atac ha trovato scuse per non presentarsi al lavoro. In qualsiasi altra città si sarebbero presi provvedimenti seri. Ma non a Roma, dove la risposta sembra essere questa: «Istituiamo un premio per chi si presenta». Ovvero per chi fa ciò che è pagato per fare. Il nuovo accordo con i sindacati, parte di un piano industriale che per come lo raccontano sembra più una barzelletta che un documento serio, introduce la distinzione tra «presenza effettiva/operativa» e, si può solo immaginare, una «presenza ineffettiva». E per la presenza effettiva, via col bonus. Per quella ineffettiva, lo stipendio normale. Sembra una presa in giro. L’Atac ha prontamente provato a smentire le notizie sui premi agli assenteisti. Ma da un lato, l’azienda afferma che non ci sarà alcun premio per chi non si presenta al lavoro, dall’altro si annuncia l’adozione di strategie per ridurre l’assenteismo e aumentare la produttività. Un pezzo di retribuzione, però, è legato alla presenza in servizio «alla guida». Non è forse un modo indiretto per riconoscere un bonus a chi semplicemente fa il suo dovere? In una nota, infatti, l’azienda ribadisce che un livello retributivo aziendale verrà aggiunto a quello previsto dal contratto nazionale, ma solo per chi garantirà livelli di presenza adeguati. Ma non è proprio questo il punto critico? Premiare la normalità, ciò che dovrebbe essere scontato, è una contraddizione in termini, specialmente in un contesto dove la produttività dovrebbe essere la norma, non l’eccezione. «Ma per poter concorrere alla retribuzione aziendale il personale operativo di condotta (essenzialmente autisti) deve garantire adeguati livelli di presenza alla guida», ribadisce l’Atac. Stando all’esegesi dell’accordo fornita dall’azienda non si tratta di premiare gli assenteisti, ma di non permettere loro di accedere a questa quota di retribuzione. Sarà, ma viene da chiedersi: se si tratta di un normale sistema di retribuzione variabile, come in altre aziende di trasporto, perché presentarlo come una grande innovazione? Inoltre l’azienda ammette che il contratto nazionale non può tenere conto delle specificità locali, come le dimensioni della rete o la variabilità del servizio. E si insinua un’altra criticità: non è forse compito dell’azienda, in quanto gestore pubblico, garantire un servizio efficace e puntuale senza dover ricorrere a premi per la presenza?
In attesa di capire cosa succederà dal 15 ottobre, quando scatterà l'estensione del green pass a tutto il mondo del lavoro pubblico e privato, ogni giorno resta fitto il bollettino di disagi e proteste sul fronte della scuola, dell'università e dei trasporti pubblici. Perché ci sono le risposte ciclostilate alle Faq (le «domande frequenti») sul sito del governo e poi c'è la realtà.
Qualche esempio? Solo ieri, in Piemonte, leggendo il dorso locale della Stampa, ne sono spuntati due. Il primo riguarda l'università: nelle aule di UniTo e Politecnico, infatti, si entra solo con la prenotazione via app e la capienza è ridotta al 50%, con molti ragazzi costretti a sedersi per terra. A Palazzo Nuovo già dalla mattina di lunedì una serpentina ha dovuto attendere fuori dallo stabile in attesa che gli addetti al controllo del green pass - un paio di persone a fronte di centinaia di studenti - effettuassero i controlli a campione. Sempre in Piemonte, a Cuneo, un insegnante di topografia dell'istituto per geometri Virgilio si è presentato davanti scuola e, non potendo entrare in classe, si è messo a fare lezione all'aperto intrecciando un cesto di vimini. Il docente, tra i primi della provincia di Cuneo a essere stato sospeso perché per cinque giorni si è presentato a scuola senza green pass e senza risultato del tampone, dopo 33 anni di servizio resterà fino a fine anno senza stipendio e senza la possibilità di insegnare o entrare a scuola.
Nel frattempo, ieri, il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, ha annunciato in tv che il ministero sta riflettendo sull'ipotesi di una riduzione della quarantena per la positività al Covid da 7 a 5 giorni, «o anche a meno» perché «non possiamo non tenere conto che oggi l'80% dei cittadini italiani sono vaccinati. D'altronde se veicoliamo il messaggio che il vaccino è la via d'uscita, ma sappiamo che pure da vaccinati si può essere contagiati, dobbiamo dare prospettive ai cittadini».
Continuano i disagi anche sul fronte dei trasporti pubblici. Nella Marca trevigiana le quarantene scolastiche aumentano giorno dopo giorno, e nell'ultima settimana in provincia di Treviso un contagiato su quattro ha meno di 12 anni. Le famiglie mettono sul banco degli imputati il trasporto scolastico e nelle chat delle mamme si segnalano «navette e autobus di linea stipati con ragazzi spinti a forza per entrare». Più a Sud, a Roma, nei prossimi giorni i circa 250 controllori Atac saranno affiancati da guardie giurate. Nel caso un passeggero si rifiuti di indossare la mascherina a bordo del mezzo pubblico, i controllori non possono elevare sanzioni, ma sono tenuti ad avvisare le forze dell'ordine. Negli ultimi mesi, però, proprio queste verifiche sono stata fonte di risposte violente. Il vero stress test per i trasporti romani ci sarà comunque il 15 ottobre, con il ritorno in ufficio dei lavoratori del pubblico impiego.
L'«armiamoci e partite» rischia di ripetersi anche sul fronte del lavoro. Ieri il sito del Sole24Ore ha messo in fila i punti critici sollevati dalle aziende che si stanno preparando ad applicare le nuove regole introdotte dal dl 127/2021: dall'impossibilità di registrare dei dipendenti, alle verifiche per chi svolge attività fuori sede (come i fattorini del food delivery), passando per le sostituzioni dei lavoratori assenti e il monitoraggio degli autonomi.
In Italia? Macché. È all'estero che saranno realizzate le divise dell'Atac. L'azienda del trasporto pubblico romano ha dato in appalto la produzione delle proprie uniformi («servizio di fornitura e consegna del vestiario uniforme al personale aziendale») a una società lombarda tramite un contratto dal valore di quasi 12 milioni di euro, seguendo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Secondo quanto risulta, l'Atac avrebbe ricevuto in tutto quattro offerte. E, in particolare, in Gazzetta ufficiale viene precisato che il «Paese di origine del prodotto o del servizio» è di «origine extracomunitaria: Cina, Bangladesh, Tunisia».
Del resto, non è la prima volta che l'azienda romana si appoggia ad altri Paesi. Non dimentichiamo infatti che l'anno scorso sono arrivati a Roma degli autobus prodotti in Turchia. Con l'obiettivo di svecchiare la propria flotta, l'Atac aveva infatti appaltato - tramite la Consip - la fornitura di 227 mezzi all' Industria italiana autobus (Iia): un'azienda che, a seguito di forti difficoltà economiche, fu salvata nel 2018 anche grazie all'intervento del produttore turco di autoveicoli Karsan, il quale acquisì considerevoli quote azionarie. Si riscontrarono tuttavia difficoltà e lungaggini nella consegna dei mezzi. Senza poi trascurare i guasti. Il 18 agosto del 2019, il sito de Il Mattino riportò che «in poco più di due settimane di servizio - col record di tre tagli del nastro della sindaca per la stessa fornitura - si contano oltre 50 interventi per aggiustare i difetti della flotta appena acquistata. “Interventi che hanno riguardato 20 navette diverse", spiega la ditta della manutenzione. Un bus su quattro, in sostanza, ha già avuto problemi ed è dovuto finire sotto gli attrezzi degli operai». Nella fattispecie, l'articolo parlava di «sensori sballati, specchietti e braccioli montati male, fili scollegati, porte con i bulloni che si staccano, un climatizzatore che perdeva gas, un pistone dei sedili da cambiare». Insomma, i problemi si rivelarono parecchi. Tanto che dovette intervenire una squadra di «tecnici esterni, stipendiati dalla fabbrica turca che [aveva] prodotto i mezzi, col compito di aggiustare la fornitura in garanzia».
È chiaro come, al di là dei problemi e degli inconvenienti di natura tecnica, faccia capolino anche una questione di carattere politico. È infatti vagamente paradossale che l'Atac tenda ad appaltare la produzione delle proprie forniture (dagli autobus alle divise) ad aziende straniere, quando il Comune di Roma è guidato - dal 2016 - da un'amministrazione grillina. Il Movimento 5 stelle ha sempre dichiarato di battersi a tutela dei lavoratori e delle imprese italiane. In particolare, un'antica battaglia grillina era quella contro la delocalizzazione della produzione industriale. Nel programma del Movimento per le elezioni europee del 2019, si parlava non a caso di «tutela del made in Italy, lotta alla contraffazione e alle delocalizzazioni». Tutto questo per l'Atac non vale?
- L'amministratore delegato della società dei trasporti di Roma cerca una via d'uscita. Anas e Rfi sono state commissariate dal ministro dei Trasporti, Paola De Micheli. L'unico spazio disponibile è l'azienda di assistenza di volo dove c'è Roberta Neri, renziana al secondo mandato.
- Nella riunione di sabato tra Roberto Gualtieri e Giuseppe Conte c'era anche il sottosegretario Lorenzo Fraccaro. Non si è parlato solo di misure per aiutare le aziende in emergenza coronavirus ma anche di nomine nelle partecipate. Si stanno formando le liste da presentare nelle assemblee di Eni, Leonardo, Poste e molte altre.
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C'è un rompicapo di nome Simioni, nel senso di Paolo Simioni, presidente e amministratore delegato di Anac in quota 5 stelle, pupillo del sindaco di Roma, Virginia Raggi. Simioni è uno dei pochi manager grillini in questo momento spendibile per la prossima tornata di nomine pubbliche. Lo sanno bene nel partito di Beppe Grillo, come lo sa bene lo stesso Simioni che vorrebbe sfilarsi al più presto da un'azienda come l'Atac, sempre più in difficoltà economiche e con una possibile bancarotta alle porte. Del resto come anticipato anche dal Messaggero la settimana scorsa, per risanare l'azienda di trasporto pubblico della capitale servono almeno 200 milioni di euro. Su 11.000 dipendenti quasi 4.000 sono in solidarietà. L'emergenza coronavirus non farà che peggiorare le cose.
Il nome di Simioni circola da tempo negli ambienti delle partecipate. I grillini avevano persino provato a piazzarlo in Fincantieri, senza successo. Negli ultimi mesi si era parlato di lui per un possibile posto in Anas, al posto di Massimo Simonini oppure in Rfi, al posto di Maurizio Gentile. Ma anche questi due posti sono sbarrati. Il 31 marzo scorso il ministro dei Trasporti, Paola De Micheli, ha chiamato entrambi gli amministratori delegati e ha annunciato che per decreto diventeranno commissari per l'emergenza per altri tre anni. In sostanza niente da fare per Simioni, che però sta provando in tutti i modi a uscire da Atac.
Cresciuto nel gruppo Ferrovie dello Stato, come amministratore delegato di Centostazioni, poi è stato nel gruppo Save che si occupa della gestione aeroportuale sistema Venezia-Treviso che, con oltre 12,3 milioni di passeggeri nel 2016, si posiziona al terzo posto in Italia dopo i sistemi di Roma e Milano. Nel 2016 c'è stato il grande salto a Roma, prima come managing director del gruppo Acea, poi con un ruolo in Atac.
Nel frattempo Simioni è anche consigliere del gruppo Maltauro e consigliere di Sias del gruppo Gavio. A quale poltrona potrebbe aspirare delle circa 400 che andranno in scadenza tra maggio e luglio? Di sicuro quella di Enav con cui ha lavorato ai tempi di Save. La società di assistenza ai voli ha in calendario un'assemblea per 5 il maggio. L'amministratore delegato Roberta Neri e il presidente Nicola Maione potrebbero essere entrambi sostituiti.
Del resto Neri è al suo secondo mandato, fu nominata dal governo di Matteo Renzi. È quindi considerata una renziana, di sicuro vicina al Pd. Simioni potrebbe essere un profilo giusto, anche se avrebbe un'inchiesta in corso scoppiata alla fine del 2018, quando fu indagato dalla Procura di Roma per violazioni sulla normativa anti infortunistica. È stato l'effetto dell'incidente del 23 ottobre di quell'anno, quando una scala mobile della fermata Metro A di Repubblica crollò provocando diversi feriti. La procura all'epoca guidata da Giuseppe Pignatone aprì un'indagine per disastro colposo a cui si aggiunsero rilevazioni da parte dei Vigili del fuoco sulla mancanza di manutenzione nelle metropolitane di Roma.
Anche Fraccaro alla riunione con Gualtieri e Palermo
Non si è parlato solo delle misure per aiutare le imprese durante l'emergenza coronavirus durante l'incontro di sabato tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, il segretario generale del Mef Alessandro Rivera e l'amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti Fabrizio Palermo. Si è parlato anche di nomine nelle aziende partecipate in scadenza. A quel tavolo, infatti, sedeva anche Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e l'uomo che sta gestendo i dossier in vista dei rinnovi dei consiglio di amministrazione di aziende come Eni, Leonardo, Poste, Terna, Enav e molte altre.
Sotto l'emergenza che ha bloccato l'Italia, infatti, continuano a muoversi i protagonisti della stagione delle nomine 2020. Nelle prossime due settimane si svolgeranno i consigli di amministrazione di diverse partecipate, poi saranno fissate le assemblee. Ma queste giornate sono tra le più delicate perché bisogna formare le liste dei nomi da indicare per i consigli di amministrazione. Il problema è che le tensioni di questi ultimi giorni tra Partito democratico e 5 stelle sugli aiuti agli italiani stanno creando non pochi problemi anche sul fronte delle nomine. Da un lato si parla di un aiuto di Cdp, dall'altro di Sace, controllata di Cdp ma che finirebbe sotto il Mef.
Quest'ultima è l'idea portata avanti da Gualtieri e dal Pd. C'è poi chi propone che Sace venga coinvolta ma rimanendo comunque dentro l'ombrello di via Goito. Rafforzare il Mef in questo momento spaventa i grillini. Soprattutto in vista degli accordi che saranno presi a livello europeo. Lo aveva detto il leader politico dei 5 Stelle Vito Crimi a inizio emergenza che gli annunci di Gualtieri sui giornali non gli erano piaciuti. Di fondo il problema è proprio quello, il timore di uno strapotere del Pd sia in questa fase emergenziale sia dopo. A lato del tavolo tecnico istituito da Cdp per le nomine, infatti, ce n'è un altro, parallelo, sempre di impronta dem. E' quello composto da Antonio Rizzo, un ex testimone chiave dell'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena, attuale consigliere economico di Conte a palazzo Chigi.
Molto vicino a Fraccaro, è tra i più influenti in questa fase. Poi c'è ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini che rappresenta l'area storica della Margherita, quella più vicina al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A questo si aggiunge un altro pezzo da novanta del Pd, ovvero Massimo D'Alema, l'ex ministro degli Esteri e presidente del Consiglio, molto attivo in questa fase. Si segnala poi l'attivismo di Ignazio Vacca, capo segreteria di Gualtieri. Nelle ultime settimane, però, i rapporti sono diventati sempre più difficili. La riunione di sabato, quella ufficiale, sarebbe stata la prima di una lunga serie sul fronte partecipate.
Quelle parallele vanno avanti da settimane. E i partiti politici stanno già mandando curriculum di possibili consiglieri di amministrazione. Ma poi chi prenderà la decisione finale? La battaglia sugli aiuti alle imprese e ai cittadini italiani dirà molto sui pesi e contrappesi all'interno della maggioranza. E chi ne uscirà vincente potrà di sicuro pesare di più anche nelle trattative per le aziende statali. Sui pronostici nessuno si sbilancia. Da tempo al Mef si sostiene che gli amministratori delegati non saranno cambiati. Che forse qualche modifica si avrà a livello di presidenza. Ma è ancora troppo presto per dirlo. E dal momento che ci sono troppe persone ai tavoli potrebbero esserci diverse sorprese.
Qualche malalingua attribuisce l'attivismo del presidente dell'Autorità di sistema portuale del Mar Tirreno Centrale, Pietro Spirito, nel cannoneggiare il governo sulla Sea Watch e sulla gestione dei migranti, alla acclarata incompatibilità politica coi gialloblù e quindi al rischio molto concreto, anzi quasi scontato, di terminare al primo mandato l'esperienza di manager di uno dei più grandi porti del Mediterraneo. Quello di Napoli, per intenderci. Lo scalo da cui dovrebbero partire, dando per buone le promesse del sindaco partenopeo Luigi de Magistris, la ventina di imbarcazioni raccattate dal primo cittadino sul Web per andare a recuperare i 49 ospiti africani della nave della Ong olandese, fluttuante al largo di Malta, e trasferirli all'ombra del Vesuvio. Non si sa dove né con quali risorse, essendo l'amministrazione comunale a un passo dal dissesto finanziario. Ma con Giggino de Magistris questi sono dettagli.
Spirito è stato il primo presidente di un'Autorità portuale in Italia a criticare apertamente il ministro Matteo Salvini e a sollevare il tema degli atti posti a fondamento della chiusura degli scali: «Non si parla più per decisioni amministrative, ma per slogan o, peggio ancora, per tweet», ha scritto Spirito in un articolo su Repubblica Napoli. «Da diversi mesi, e in modo carsico, si sente dire - e si legge - che i porti italiani sono chiusi. Non è così. Nessuno controlla, tutti ripetono parole vuote di senso», ha attaccato ancora.
Spirito è un abile navigatore dei mari della politica. È considerato vicino al Pd e all'ex ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, che lo scelse personalmente due anni fa per affidargli la guida dell'area portuale che, oltre a Napoli, raggruppa anche Salerno e Castellammare di Stabia.
Da direttore investimenti dell'Atac, l'azienda dei trasporti pubblici del comune di Roma, con Ignazio Marino sindaco, Spirito finì nel mirino dell'assessore alla Mobilità Stefano Esposito per il contratto part time da 100.000 euro che gli permetteva di essere in azienda appena due volte alla settimana.
Alla guida dell'ente di Piazzale Pisacane, invece, il manager di origine casertana ha raddoppiato gli emolumenti: oggi guadagna 230.000 euro l'anno ai quali bisogna aggiungere le spese sostenute per le «missioni relative all'assolvimento dei compiti istituzionali», secondo la delibera del comitato di gestione. Per dire: il presidente russo Vladimir Putin ne guadagna 145.000.
Oltre a ribadire che non esiste una ordinanza del ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli che impedisca l'attracco nei porti italiani alle imbarcazioni delle Ong, Spirito ha fatto risuonare anche le sirene dei «profili penali» per l'«omissione di soccorso in mare», evidentemente riferendosi a chi, come Salvini, ha tutta l'intenzione di non autorizzare gli ancoraggi. «L'Italia sinora si è meritatamente e meritoriamente distinta in questi anni per il costante impegno della guardia costiera e della flotta mercantile, che hanno svolto un ruolo decisivo a salvaguardia delle vite umane», è stato l'accorato appello del presidente dell'Autorità portuale del Mar Tirreno Centrale che ha richiamato le parole di papa Francesco e il «problema di coscienza» legato alla sofferenza altrui. Bocciando, senza tentennamenti, i «furbeschi effetti annuncio che possono magari farci passare la nottata delle divisioni che ci dilaniano», ma non essere risolutivi. A cominciare dai cinguettii del titolare del Viminale.
Dunque, per Spirito, i porti sono aperti e così resteranno in mancanza di decisioni motivate da parte delle autorità che, per lui, sono del tutto insussistenti. Anzi, vanno nel senso opposto. «Peraltro, emergono con chiarezza i profili per poter invocare i motivi di sicurezza e di preservazione della vita umana, sia a norma delle convenzioni internazionali (sottoscritte dall'Italia) sia che, in senso lato, a norma della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (articoli 2 e 3) e della nostra Costituzione», ha aggiunto.
All'affondo di Pietro Spirito (che negli ultimi mesi è stato bersagliato da sei interrogazioni parlamentari firmate dai grillini campani sulle inefficienze e la disorganizzazione del porto di Napoli, ma questo evidentemente ha poco influito sulla sua vis polemica) sono seguiti quelli di due colleghi del nord Italia: Carla Roncallo (presidente dei porti della Spezia e Marina di Carrara) e Pino Musolino (numero uno dell'Autorità portuale di Venezia). Scali, comunque, che sono fuori dalle possibili rotte degli scafisti. Una contrapposizione frontale che ha costretto il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, a minacciare azioni disciplinari in un post su Facebook. «Nessuna Autorità di sistema portuale italiana può arrogarsi prerogative che travalicano le sue funzioni amministrative», ha ammonito. «Darò mandato alle strutture del mio ministero di valutare eventuali accertamenti di natura disciplinare». «Non ho emanato alcun decreto di chiusura dei porti», ha spiegato, «perché non serve, non essendo alcun porto italiano interessato alle operazioni e non avendo il Mrcc (Maritime rescue coordination centre) italiano coordinato i soccorsi».







