In uno «Sberleffo» pubblicato ieri a pagina 2, il Fatto quotidiano ironizzava sul cambio di linea del Foglio, contrario al sorteggio dei membri del Csm nel 2018 e favorevole a quello previsto dall’attuale riforma. E si dava anche una spiegazione: «Sette anni fa, a ipotizzare il sorteggio - temperato, cioè dei candidati da eleggere - era Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia del Movimento 5 stelle. E tanto bastava per affilare le penne». Può essere che le cose stiano in effetti così. Ma c’è ovviamente il rovescio della medaglia: com’è che il mondo grillino, di cui il Fatto è autorevole espressione, è passato nel giro di pochi anni dal proporre il sorteggio per i membri del Csm al gridare al golpe di fronte alla stessa misura? E lo stesso correntismo all’interno della magistratura ha forse cessato di essere il problema dei problemi in Italia, come esplicitamente veniva detto nei discorsi grillini dell’epoca, prima che Giuseppe Conte venisse folgorato sulla via del campo largo? Basti ricordare che nello stesso Contratto di governo siglato da M5s e Lega all’inizio dell’avventura gialloverde, si leggeva: «Il Consiglio superiore della magistratura deve operare in maniera quanto più indipendente da influenze politiche di potere interne o esterne. Sarà pertanto opportuno operare una revisione del sistema di elezione, sia per quanto attiene i componenti laici che quelli togati, tale da rimuovere le attuali logiche spartitorie e correntizie in seno all’organo di autogoverno della magistratura». E quali erano queste revisioni del sistema di elezione auspicato? Nel Programma nazionale del Movimento 5 stelle, risalente al 2018, si prevedeva che sia i consiglieri laici che quelli togati proponessero un’autocandidatura singola, fuori, quindi, da logiche di corrente, e che all’interno di questa rosa venisse estratto a sorte un elenco di papabili da sottoporre al voto (del Parlamento, per i primi, e dei colleghi, per i secondi). «Per combattere il fenomeno del correntismo, c’è l’ipotesi di una fase di sorteggio, non integrale», spiegava Bonafede in quegli stessi mesi. Può bastare il cavillo del sorteggio «non integrale», a differenza di quanto previsto dalla riforma attuale, per attestare una impossibile coerenza? Difficile sostenerlo, anche perché Pd e Anm fecero il diavolo a quattro anche contro la versione temperata. La posta in gioco, allora come oggi, era la stessa. Quanto al Fatto, giova ricordare che il 24 luglio 2019, sia pur nella sezione dei blog, ospitava un contributo di Francesco Carraro che per difendere l’idea del sorteggio si rifaceva niente di meno che alle origini della democrazia greca: «Si può ben dire», argomentava il collaboratore del Fatto, «che un metodo siffatto di scrematura (tra soggetti qualificati, s’intende) non rappresenta un vulnus al legittimo “senso di rappresentanza” tipico di ogni sensibilità “democratica”, ma semmai un ritorno alle origini stesse di quella sensibilità. E offre una garanzia straordinaria contro ogni degenerazione della politica applicata alla giustizia in cui il membro del Csm rischia di essere scelto non in ragione dei meriti, ma in base alla logica dell’appartenenza a un clan o dell’aderenza a una ideologia». Impossibile non notare la differenza con i toni da emergenza democratica usati oggi contro Nordio. Il sorteggio, scoprono ora i pentastellati, «non è certo il metodo migliore per scegliere i più bravi e motivati, e con buona pace anche per la parità di genere» (il deputato Alfonso Colucci alla Camera, il 16 settembre scorso) e inoltre «non può essere né imparziale, né risolutivo, in quanto non garantisce né efficienza, né trasparenza» (la senatrice Felicia Gaudiano, l’8 luglio). Come si cambia.
Alla fine, delle 5 stelle che dovevano brillare nel firmamento della politica non ne è rimasta nemmeno una. Non parlo dei leader o aspiranti tali spazzati via nell’arco di una o due legislature. Di quelli si è perso il conto, a cominciare da Roberta Lombardi e Vito Crimi, i due capigruppo che umiliarono Pier Luigi Bersani in uno streaming che doveva aprire la nuova fase al servizio del popolo, e sui quali da tempo è sceso il buio. La prima ha aperto uno studio di consulenza per la transizione energetica, il secondo si accontenta di un impiego dietro le quinte del Movimento piuttosto che tornare al lavoro di impiegato in tribunale. E anche la stella di Luigi Di Maio, rappresentante speciale della Ue nel Golfo dopo aver fatto il ministro di Draghi, con la nuova Commissione europea rischia di spegnersi, mentre la sola luce che ancora brilla per Alessandro Di Battista è quella delle telecamere di qualche trasmissione tv che gli concede cinque minuti di notorietà. Sì, le stelle cadenti del Movimento sono davvero tante, perché ai già citati si aggiungono Virginia Raggi, Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Lucia Azzolina, Barbara Lezzi, Elisabetta Trenta, eccetera. Tutti con la speranza che per loro, dopo il tramonto, cominci una nuova alba grazie al conflitto tra Conte e Grillo.
No, quando dico che delle 5 stelle non ne è rimasta neppure una non penso ai volti della primissima ondata pentastellata e nemmeno ho in testa le facce dei ministri dei governi Conte. Il mio pensiero semmai va alle promesse e agli slogan della stagione politica che vide il Movimento fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio sfiorare il 33 per cento. Ve li ricordate? Non c’era solo il dogma dei due mandati, dopo i quali qualsiasi eletto avrebbe dovuto farsi da parte per tornare alle precedenti attività (per chi ne aveva una, mentre gli altri avrebbero dovuto cercarsi un impiego), ma addirittura per distinguersi dall’odiata casta dei politici di professione i 5 stelle si facevano chiamare «cittadini», sottolineando il loro essere gente del popolo, destinata prima o poi a tornare fra il popolo. Cittadino ormai è un titolo caduto in disuso, proprio come le stelle. Se prima, a ogni domanda preceduta da onorevole, l’eletto rettificava rifiutando sdegnosamente di essere etichettato come tale, ora nessuno si indigna più se viene chiamato senatore o deputato. Anzi, alcuni di loro ci tengono a sottolinearlo. Tramontato anche l’impegno a versare una frazione dello stipendio a favore delle casse del partito per finanziare le piccole imprese in difficoltà. Dopo aver escogitato ogni genere di escamotage per sottrarsi all’obbligo di aprire il portafogli e restituire parte dei soldi ricevuti, ora non c’è parlamentare che si ricordi del dogma. Via anche il proposito di ignorare le trasmissioni televisive, che pure all’inizio era stato rispettato rigorosamente, in ossequio al Vaffaday con cui Grillo aveva mandato all’inferno i servi di regime, vale a dire i giornalisti. Oggi ogni grillino (ma possono essere ancora chiamati così?) supplica di avere un invito in tv e, messo da parte Rocco Casalino, ognuno prova a ingraziarsi il conduttore o gli autori del programma.
Eh, sì, le stelle comete hanno abbandonato gran parte delle loro intenzioni, ma soprattutto fanno i conti con i fallimenti delle loro iniziative. Non parlo, per carità, della misura che avrebbe abolito la povertà. Come è a tutti noto, il Reddito di cittadinanza ha moltiplicato i poveri, o quanto meno li ha fatti crescere per incassare richiedenti il sussidio, con il risultato che la sola povertà che è stata abolita è quella dei pentastellati che prima di essere eletti o non avevano un reddito o ne avevano uno minimo.
Tuttavia, il principale fallimento delle velleitarie battaglie grilline restano i tagli alla Casta. Dopo aver cancellato i vitalizi si scopre che il Parlamento piano piano li ha reintrodotti, ma il peggio è che dopo aver dimezzato o quasi i senatori, con la promessa di ridurre i costi della politica, Palazzo Madama costa esattamente come prima, né più né meno. Altro che mettersi a dieta. Gli onorevoli dopo la epocale riforma (così la definirono i cittadini a 5 stelle) sono tornati a mangiare e spendere come prima e forse addirittura più di prima. Insomma, anche l’ultima battaglia grillina è finita nel nulla. E nel firmamento del Movimento non brilla altro che Giuseppe Conte, un democristiano dall’ego espanso che è pronto a qualsiasi giravolta pur di non fare la fine di Toninelli. Grillo permettendo.
«Una cosa ci tengo a evidenziarla, anche rispetto alle notizie che sono state riportate in questi giorni, io non sono un evasore. Nel senso che non ho cercato di frodare il Fisco, ho sempre presentato regolarmente le mie dichiarazioni dei redditi, ma a un certo punto non sono riuscito a pagare le tasse. Negli anni il capitale si è moltiplicato, insieme con sanzioni e interessi, per cui la cifra è lievitata. Adesso mi prendo qualche giorno per fare tutte le verifiche del caso. Ma prometto che pagherò tutto quello che devo all’Erario». A parlare con La Verità è Giorgio Fiorenza, membro laico in quota Lega del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, che secondo la richiesta di pignoramento arrivata allo stesso Consiglio dovrebbe al Fisco più di 830.000 euro.
Inquadriamo il tema. Il Consiglio di presidenza è una sorta di Csm, l’organo di autogoverno dei giudici tributari. E la giustizia tributaria, pur rappresentando la quinta magistratura del Paese, non è certo di interesse minore. Dirime i contenziosi per il pagamento delle imposte che contrappongono imprese e cittadini alle varie articolazioni dello Stato, un tesoretto di 36 miliardi di euro sul quale la politica non ha mai nascosto i suoi appetiti. E infatti i partiti si sono mossi per tempo, mesi fa, portando nel Consiglio di 15 membri i quattro membri laici espressi dalle due ali del Parlamento: l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, l’ex deputata del Carroccio Carolina Lussana, e poi Giorgio Fiorenza e Alessio Lanzi, ex componente laico del Csm. Alla fine il ruolo più ambito, quello di presidente, è andato alla Lussana che un po’ a sorpresa ha vinto la sfida con Fiorenza, il favorito della vigilia, che dal Consiglio ha ricevuto anche un’altra brutta sorpresa, l’avviso di pignoramento presso terzi dell’Agenzia delle entrate. Semplificando: l’ente per la riscossione si è rivolto al Csm tributario per «bloccare» i guadagni ai quali avrebbe avrebbe avuto diritto Fiorenza a parziale compensazione di quanto non pagato negli anni precedenti. Le prime cartelle sarebbe infatti arrivate nel 2010. E adesso? Cosa succede?
Fiorenza chiarisce di avere avuto notizia della richiesta di pignoramento non direttamente, ma solo dagli atti arrivati al Consiglio e in riferimento al procedimento di decadenza avviato dallo stesso Csm della giustizia tributaria evidenzia: «Ho 60 giorni di tempo per presentare le memorie, ma conto di chiarire molto prima, ho tutto l’interesse a chiudere nel più breve tempo possibile questa partita perché voglio tutelare innanzitutto il mio nome e poi quello della mia famiglia che sta soffrendo per tutto quello che sta venendo fuori. Non posso certo dire tutto adesso e spiegare le mie ragioni sui giornali, quello che chiedo è di avere un po’ di tempo per dimostrare la fondatezza della mia posizione». Una volta ricevuti tutti gli atti (entro 60 giorni) sarà la presidenza del Consiglio dei ministri a decidere se Fiorenza può o meno proseguire nel suo incarico.
Poi certo c’è una questione di opportunità. La domanda viene spontanea: avendo la consapevolezza di dovere centinaia di migliaia di euro al Fisco, ha trovato corretto accettare un incarico così importante (Fiorenza è stato fino alla fine il candidato più accreditato alla presidenza) nell’organo di autogoverno della magistratura del Fisco? «Ripeto quanto detto prima», si giustifica Fiorenza, «Non ho omesso di dichiarare dei redditi, non ho cercato di non pagare il dovuto e non ho presentato dei ricorsi contro l’Agenzia delle entrate. Semplicemente a un certo punto non sono riuscito a regolare quanto dovevo. Ma in questi anni non solo ho continuato a pagare le tasse, ma parzialmente sono riuscito a ripagare anche le precedenti pendenze».
Si è parlato anche di un contenzioso in corso con lo stesso Consiglio. «Su questo mi scusi, ma preferisco non parlare e mi riprometto di spiegare tutto nelle sedi opportune», spiega Fiorenza che in attesa della definizione della vertenza non parteciperà all’attività delle varie commissioni (quindi resta consigliere semplice) .
La palla, adesso, è a Palazzo Chigi. Sarà la presidenza del Consiglio che valuterà le carte e la memoria difensiva presentata dal consigliere e deciderà cosa fare. Ma se dovesse passare la sua tesi, lei resterebbe al suo posto? «Guardi, adesso tutti i miei sforzi sono tesi a chiarire questa situazione, poi sicuramente farò dei ragionamenti anche su quello che nelle ultime settimane mi è piovuto addosso».
- Non solo Luigi Di Maio. L’ex sottosegretario Manlio Di Stefano sparato nello spazio a 17.000 euro al mese: un’azienda visitata quando era al governo ora lo paga dal Delaware.
- Alfonso Bonafede si è fatto nominare nel Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dopo l’esperienza in Via Arenula: incasserà un «gettone» di 1.500 euro a seduta.
Lo speciale contiene due articoli.
Dalle 5 stelle allo spazio infinito. La parabola del grillino di tendenza dimaiana Manlio Di Stefano potrebbe ispirare una qualche saga hollywoodiana di fantascienza tanto è surreale. Per chi non ricordasse questo campione del grillismo duro e puro vale la pena di fare un piccolo ripasso: classe 1981, partito dalla natia Palermo nel 2006 con una laurea di ingegneria informatica in tasca, partecipa ai primi due Vaffa-day. Nel 2013 entra in Parlamento e nel 2018 toglie l’elmetto e indossa la feluca diventando sottosegretario agli Esteri, ruolo in cui viene confermato al fianco di Luigi Di Maio nei governi Conte2 e Draghi. Nel 2022 manda a quel paese Beppe Grillo e Giuseppe Conte e segue l’inventore dei navigator nel buco nero di Insieme per il futuro (il loro). Ma dopo l’implosione della neonata formazione, Di Maio e Di Stefano trovano subito un nuovo lavoro. L’ingegnere, da buon ex pentastellato, addirittura è stato ingaggiato da una compagnia aerospaziale americana. Il fu sottosegretario oggi percepisce decine di migliaia di euro come consulente di Axiom space inc., azienda co-fondata nel 2016 da Michael Suffredini, ex program manager della Stazione spaziale internazionale (Iss), una «Delaware corporation» (lo staterello Usa che non tassa i guadagni realizzati fuori da esso) con quartier generale a Houston, in Texas. Axiom è l’unica società privata ad aver siglato un accordo con la Nasa per lo sviluppo di una stazione spaziale commerciale che potrà agganciarsi alla Iss.
Il 21 ottobre scorso Di Stefano ha chiuso la sua esperienza governativa, pochi giorni prima quella da parlamentare. Neanche il tempo di svuotare gli scatoloni e ha firmato un contratto di consulenza a stelle (ovviamente) e strisce. L’accordo, a quanto risulta alla Verità, ha la durata di un anno (1 novembre 2022- 31 ottobre 2023), è, con ogni probabilità, rinnovabile e da gennaio a marzo ha fatto incassare a Di Stefano, spalmati in cinque bonifici (ordinati dalla Axiom space operating, con sede a Wilmington, Delaware), circa 85.000 euro. Se si trattasse, come possibile, dei primi mesi di «stipendio» significherebbe che il Di Stefano consulente guadagna circa 17.000 euro al mese, più di quanto prendesse il Di Stefano sottosegretario.
Sembra preistoria il tempo in cui l’ingegnere siciliano strepitava contro la Casta o l’Alleanza atlantica, come un filorusso qualsiasi. «Nel voler forzare l’ingresso di Kiev nella Nato gli Stati Uniti stanno giocando con scenari da Terza guerra mondiale», diceva nel 2017. Ma adesso è diventato uomo di provata fede atlantista e ha sposato (ben retribuito) il progetto Axiom.
Il Foglio, il 22 aprile, ha raccontato, citando l’agenzia Vietnam news, che Di Stefano, a febbraio, avrebbe partecipato a Roma a una riunione del Comitato dei Paesi dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico) in qualità di consulente senior della Axiom. Ma su Internet non si trovano altre notizie. Forse perché, secondo la legge Frattini del 2004, che regola i possibili conflitti di interesse di coloro che hanno ricoperto incarichi di governo, per un anno dalla fine dell’impegno istituzionale non si potrebbero «esercitare attività professionali o di lavoro autonomo in materie connesse con la carica di governo, di qualunque natura, anche se gratuite, a favore di soggetti pubblici o privati».
E qui il conflitto sembra esserci tutto. Anche perché, come si può verificare sulla Gazzetta ufficiale, il tre volte parlamentare nel governo Draghi aveva le deleghe alle «questioni relative allo spazio e all’aerospazio».
Con l’ex presidente della Bce a Palazzo Chigi e Di Stefano alla Farnesina, nel luglio del 2021, la società americana ha scelto Thales Alenia space per la costruzione, a Torino, dei primi due moduli pressurizzati della propria stazione spaziale privata, il cui lancio è previsto per il 2024 e il 2025. Un affare da 110 milioni di euro.
Nell’aprile del 2022 la Farnesina dirama un comunicato ufficiale sulla missione negli Stati Uniti del sottosegretario tra il 25 e il 28 aprile 2022 (all’epoca andare all’estero per la Festa della Liberazione non era considerato peccato mortale), in cui si leggeva: «L’Onorevole Di Stefano ha avuto a Washington e a Houston fruttuose riunioni con le maggiori imprese americane del settore aerospaziale, tra cui Axiom, Blue origin e Voyager space, per “discutere di nuove collaborazioni in materia di lancio, ricerca e stazioni spaziali del futuro”».
Su un secondo, ravvicinatissimo, incontro (risalente al 3 maggio 2022) non abbiamo trovato dispacci del dicastero, ma una notizia sul sito dell’azienda americana: «Il Sottosegretario agli Affari esteri italiano Manlio Di Stefano ha visitato la sede di Axiom space insieme al colonnello dell’Aeronautica militare italiana e apprendista astronauta governativo di Axiom Walter Villadei per discutere dei progressi compiuti verso la costruzione della Stazione Axiom, la prima stazione spaziale commerciale al mondo».
In quel momento Villadei aveva iniziato il suo addestramento presso il centro e Di Stefano veniva immortalato con indosso un visore di quelli che si usano nella realtà aumentata. Forse anche lui un pensierino a un viaggio nello spazio lo avrà fatto. Nella nota si dava conto dell’incontro tra Di Stefano e il ceo Suffradini con un certo entusiasmo: «Attraverso questa importante partnership e la continua collaborazione con l’industria italiana, le aziende stanno lavorando insieme per costruire Axiom station e addestrare una nuova classe di astronauti governativi. Questi sforzi combinati forniranno l’accesso globale allo spazio e faranno avanzare l’economia dell’orbita terrestre bassa».
Dopo un paio di settimane, il 19 maggio, il ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao firma un memorandum con Axiom che approfondiva «la cooperazione tra il Governo italiano e l’azienda statunitense per lo sviluppo e l’attuazione di progetti aerospaziali». Lo stesso giorno l’Intergruppo parlamentare dedicato allo Spazio della Camera dei deputati incontra Suffredini.
Il mese successivo Di Stefano lascia il Movimento per seguire Di Maio. Passano pochi mesi e il politico palermitano diventa senior advisor di Axiom. La trasmutazione da pentastellato a interstellare è completata.
In questi giorni abbiamo chiesto più volte delucidazioni a Di Stefano, il quale, però, particolarmente loquace e aggressivo durante il suo percorso di militante grillino (l’elenco degli insulti contro i politici «delinquenti» sarebbe lungo, ma ve li risparmiamo per carità di Patria), ha improvvisamente perso il dono della favella e non è riuscito a rispondere a legittime domande come queste: è possibile sapere che tipo di accordo la leghi alla Axiom e quale tipo di incarico è stato chiamato a svolgere? La Axiom la ha ingaggiata per la sua formazione di ingegnere informatico o come responsabile dei rapporti istituzionali nel nostro Paese per il suo vecchio incarico politico? Lei, in veste di sottosegretario, ha curato il memorandum di intesa con il governo italiano: c’è un nesso tra quell’operazione e l’attuale collaborazione? Tramite chi le è arrivata l’offerta lavorativa? Abbiamo anche inviato qualche quesito sulla durata del mandato e sugli emolumenti percepiti. Oltre che, ovviamente, sulla legge Frattini e il possibile conflitto di interessi.
Di Stefano è rimasto ostinatamente in silenzio. Forse era già in orbita con Axiom o dentro a un simulatore antigravità a sperimentare la sensazione di vagolare libero nel cielo infinito. Magari sparato nello spazio da un bel Vaffa dei grillini che gli avevano creduto.
Poltroncina dorata pure a «Fofò dj»
Anche l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, iscritto all’ordine degli avvocati dal 2006, tiene famiglia. E si è fatto regalare dal Parlamento uno strapuntino da 3.000 euro al mese dentro al Consiglio di presidenza della giustizia tributaria (Cpgt) e in cambio di questo gettone dovrà unicamente presenziare a due plenum mensili. Insomma 1.500 euro a seduta: non male. L’organo di autogoverno dei giudici tributari è composto da 16 membri: 11 eletti dai giudici tributari (come i togati del Csm) fra colleghi in servizio, e 4 dal Parlamento: 2 dalla Camera e 2 dal Senato.
Il compenso, come detto, oltre ai rimborsi di vitto, alloggio e trasferte, è di 3.000 euro netti al mese.
Però, a differenza del Csm, i componenti del Cpgt possono tranquillamente continuare a fare le proprie attività. Ad esempio, l’attuale consigliere Giacinto Della Cananea (noto per aver partecipato alla stesura del programma del primo governo Conte) ha continuato a svolgere durante questi 4 anni l’incarico di professore di diritto amministrativo alla Bocconi. In altre parole, i 3000 euro si cumulano.
I 4 laici eletti dal Parlamento devono essere professori di diritto o «difensori» (non solo avvocati) presso le commissioni tributarie da almeno 12 anni.
Bonafede è entrato per il rotto della cuffia: lui ha racimolato l’esperienza richiesta nel 2022 (il conteggio si è interrotto nei quasi tre anni al ministero). Negli altri organi di autogoverno, come il Csm, gli anni richiesti erano 15.
Per Bonafede c’è chi intravede un possibile conflitto di interessi. Il Cpgt tutela «l’autonomia e l’indipendenza» dei giudici tributari dagli altri poteri dello Stato. Bonafede ha fatto il ministro della Giustizia (potere esecutivo), scrivendo decreti e regole sui giudici ed ora si trova dall’altra parte della barricata. In pratica, potrebbe dover prendere decisioni su provvedimenti presi quando era Guardasigilli. Le norme non vietano questo corto circuito (non esistono precedenti nella storia della Repubblica forse perché nessuno aveva mai immaginato che un ex ministro potesse un giorno andare in un organo di autogoverno), ma per qualcuno ci troveremmo di fronte alla classica «sgrammaticatura istituzionale».
È anche vero che la giustizia tributaria nella fase del merito, quindi presso le corti tributarie di primo e secondo grado, risponde al ministero dell’Economia e delle finanze, ma nella fase di legittimità, quindi davanti alla Cassazione, finisce sotto l’influenza del ministero della Giustizia. Presso la Suprema corte esiste la «sezione tributaria» dove è attualmente pendente la metà del contenzioso civile del Paese: circa 50.000 ricorsi. Ed infatti la riforma prevista dal Pnrr prevede espressamente un abbattimento dell’arretrato e dei tempi di definizione di questi procedimenti (che valgono 2 punti di Pil). Ma nel nuovo Consiglio c’è anche un altro piccolo caso, quello di Giorgio Fiorenza, giudice tributario dal 1992. Non è avvocato o professore di diritto, ma è un geometra. Fa parte di questa magistratura perché è onorifica ed è composta da avvocati, professionisti e magistrati che di fatto fanno un «doppio lavoro». I geometri, in particolare, possono esercitare la difesa per i contenziosi in materia di Catasto davanti alle commissioni tributarie e Fiorenza, pertanto, secondo alcuni, doveva essere eletto fra gli 11 togati e non fra i 4 laici. Per questo la sua elezione potrebbe essere contestata quando ci sarà la verifica dei titoli al primo plenum. In Parlamento i nomi sono arrivati blindati e nessuno sembra essersi accorto di questa possibile collocazione nella «quota» sbagliata.
Come avviene per i laici, anche gli eletti fra i magistrati tributari continueranno a fare il proprio lavoro: al Cpgt ci sono adesso il procuratore di Viterbo Paolo Auriemma (notissimo per le chat di Luca Palamara su Matteo Salvini «da colpire») e quello di Terni Alberto Liguori, rimosso sempre per le chat con l’ex presidente dell’Anm e reintegrato la scorsa settimana dal Tar.
Più che cittadini avrebbero dovuto farsi chiamare furbini. Infatti, uno dopo l’altro, una volta cacciati da quel Parlamento che intendevano aprire come una scatola di latta, deputati e senatori eletti con il Movimento 5 stelle stanno facendo di tutto per tornarci e quando questo non è possibile si intrufolano negli uffici annessi, che in qualche modo hanno a che fare con la politica. Il caso più clamoroso è quello di Luigi Di Maio, il quale, rimasto appiedato, nonostante per aggirare il limite del secondo mandato si fosse fatto un partito su misura, non è riuscito a tornare a Montecitorio. In soccorso dell’ex ministro del Lavoro, come è noto, è arrivata la Ue, nominandolo inviato speciale nei Paesi del Golfo, sebbene le ultime esperienze nell’area abbiano prodotto un incidente diplomatico fra Italia ed Emirati Arabi Uniti. Ma non c’è solo Di Maio. Mentre l’ex capo politico grillino trovava un’occupazione ben remunerata a Bruxelles, altri seguivano le sue orme. È il caso di Alfonso Bonafede, indimenticato ministro della Giustizia, che una volta perso il seggio annunciò solennemente che sarebbe tornato a fare l’avvocato. Un gesto di grande dignità, contraddetto nel giro di pochi mesi. Infatti, l’ex Guardasigilli ieri l’altro è stato eletto come membro laico nel consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Un incarico politico, che lo stesso Bonafede era riuscito dieci anni fa a far ottenere a Giuseppe Conte, prima che questi venisse scelto come presidente del Consiglio per guidare il governo gialloblù. E se due ex ministri sono riusciti a sistemarsi, poteva mancare un ex sottosegretario? Ovvio che no. Dunque, ecco Manlio Di Stefano, già vice di Di Maio agli Esteri durante il Conte due e il Draghi uno. Di lui si ricorda un memorabile tweet con cui, rivolto agli abitanti di Beirut dopo l’esplosione che distrusse il porto, mandò con tutto il cuore un abbraccio ai suoi «amici libici». Sì, da grande esperto di politica estera, l’ex sottosegretario visitò nel maggio dello scorso anno il quartier generale di Axiom Space, un colosso americano attivo nel settore aerospaziale. Beh, a quanto pare pochi mesi dopo aver lasciato il Parlamento, Di Stefano si è accasato come senior advisor proprio nel gruppo con sede a Houston. Un approdo che pare quasi ovvio, visto che quando era al governo, l’onorevole grilllino aveva la delega per le questioni relative allo spazio e all’aerospazio. Forse qualcuno intravede motivi di opportunità che avrebbero sconsigliato di passare da una poltrona all’altra senza fare troppa attenzione a politica e affari? Più che questioni di eleganza, ce n’è una di sostanza, in quanto la legge Frattini vieta le porte girevoli, che consentono rapide giravolte dall’esecutivo all’industria, ma l’ex grillino non pare avere intravisto ostacoli.
Di Maio, Bonafede e Di Stefano sono i casi più clamorosi di cittadini rivelatisi furbini, che la scatola di latta, invece di aprirla con un apriscatole, l’hanno in qualche modo trasformata nella loro casa o per lo meno in una succursale, con ottimi guadagni. Tuttavia, per un ex ministro del Lavoro che trova lavoro per sé stesso a 12.000 euro al mese e un ex sottosegretario con delega alle questioni aerospaziali che va alla conquista della luna con 17.000 euro di retribuzione, ci sono tanti altri grillini che si sono sistemati negli uffici accanto a quelli che sono stati costretti a lasciare. C’è chi dai 5 stelle ha traslocato in Forza Italia o in Fratelli d’Italia. Chi si è accasato con il Pd e chi ha trovato un posto da dirigente in un’azienda pubblica. Ma c’è anche chi, come Laura Castelli, ex viceministro dell’economia nel governo gialloblù, dopo essere stata esclusa dal Parlamento si è fatta nominare portavoce del partito dell’ex sindaco di Messina Cateno De Luca, Sud chiama Nord, nella speranza di tornare in gioco per le prossime elezioni europee.
Sì, a guardare la lista di onorevoli-furbini che non si rassegnano a tornare alle proprie occupazioni, fa quasi tenerezza il povero Danilo Toninelli, che fedele fino all’ultimo alla causa grillina ed escluso dalle liste per via della regola dei due mandati, non ha avuto altra alternativa che ricominciare il suo vecchio mestiere di liquidatore di sinistri per una compagnia d’assicurazione. Per chi lo volesse incontrare per esternargli la propria solidarietà, segnalo che fa il pendolare sulla tratta Cremona-Milano. Ma volendo lo si può ascoltare anche su YouTube, e immagino che molti non vedano l’ora.







