(Totaleu)
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.
Lo ha detto il ministro a margine del consiglio per gli Affari interni, riguardo ai centri di rimpatrio in Albania.
Lo ha dichiarato Sara Kelany, (Fratelli d'Italia) membro del Parlamento e capo del dipartimento italiano per l'immigrazione a margine dell'evento Europe and migration: The Italian Approach Transcending Ideologies al Parlamento europeo di Strasburgo.
Il primo vertice intergovernativo tra Italia e Albania si trasforma in una nuova occasione per rinsaldare l’amicizia tra Roma e Tirana e tradurre un’amicizia in una «fratellanza», come detto dal primo ministro Edy Rama, che ha definito Giorgia Meloni una «sorella». «È una giornata che per le nostre relazioni si può definire storica», ha dichiarato Meloni davanti alla stampa. «È una cooperazione che parte da un’amicizia che viene da lontano ma che oggi vuole essere una cooperazione più sistemica. C’è la volontà di interagire in maniera sempre più strutturata su tanti temi: dalla difesa, alla protezione civile, dalla sicurezza, all’economia fino alla finanza».
Sul protocollo migranti ha precisato: «Tanti hanno lavorato per frenarlo o bloccarlo, ma noi siamo determinati ad andare avanti perché questo meccanismo ha la potenzialità di cambiare il paradigma della gestione dei flussi migratori e quando entrerà in vigore il nuovo Patto europeo su migrazione e asilo, i centri funzioneranno esattamente come avrebbero dovuto dall’inizio. Abbiamo perso due anni, ma la responsabilità non è la mia». Rama spende parole di adorazione per Meloni e per l’Italia «siamo l’unico Paese al mondo a parlare l’italiano» e ha chiarito: «Rifarei il protocollo migranti cento volte con l’Italia. Con altri Paesi mai».
La cooperazione mostrata da Tirana in tema di migranti, per Meloni è la dimostrazione che «l’Albania si comporta già come una Nazione membro dell’Unione europea, capace di una solidarietà coi paesi con cui coopera che di rado si è vista» e quindi «è già una nazione europea». L’obiettivo è «avviare i negoziati politici per l’adesione dell’Albania all’Ue in occasione della presidenza di turno italiana del consiglio europeo prevista per i primi sei mesi 2028. Sarebbe uno sbocco naturale» commenta e ironizza: «Il tempo c’è ma vanno prima chiusi i negoziati tecnici e se due anni sembrano tanti con i tempi della burocrazia europea possono diventare pochi». E chiarisce che l’Italia sosterrà il percorso albanese, tecnicamente e politicamente. Un percorso di adesione iniziato quasi vent’anni fa, nel 2009, quando fu presentata la domanda formale.
Trai temi affrontati anche «la realizzazione del corridoio 8, una dorsale che parte dalla Puglia e arriva sulle sponde del Mar Nero passando per l’Albania, per la Macedonia del Nord e la Bulgaria»
Diverse le intese siglate alla presenza di buona parte dell’esecutivo: dal vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani, dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il ministro della Difesa Guido Crosetto, dal ministro per la protezione civile Antonello Musumeci, dai ministro della Cultura Alessandro Giuli dal sottosegretario al Mef Federico Freni, presenti anche i ministri albanesi.
Tra le intese c’è il contrasto al traffico di droga, cooperazione tra le due protezioni civili, il potenziamento settore neonatale albanese, cooperazione nel settore della Sicurezza Cibernetica, cooperazione tecnica tra Cdp e il ministero delle Finanze albanese, cooperazione tecnica tra Cdp e il ministero delle Finanze albanese. Infine un Memorandum of Understanding (MoU) tra Fincantieri e Kayo, società albanese specializzata nello sviluppo di infrastrutture industriali strategiche, per avviare una joint venture (JV) dedicata alla costruzione e manutenzione di 7 navi militari in Albania. Kayo ha firmato un memorandum anche con Leonardo sulla cooperazione nel settore della difesa.
Europa unita e solidale, tranne se c’è da prendersi i migranti. La Polonia dice che ha in casa troppi rifugiati ucraini: non accetterà quote di stranieri né pagherà per un’esenzione dai doveri di accoglienza. Anzi: Varsavia pretende di ricevere altri finanziamenti proprio per gestire la crisi umanitaria al confine orientale. Pure il Belgio non sente ragioni: «Ha già un onere sproporzionato», sostiene il suo ministro, Anneleen Van Bossuyt. Sborserà quattrini pur di non ospitare nessuno, «perché i nostri centri di accoglienza sono pieni». Bruxelles ribadisce che il regolamento di Dublino va applicato. Tradotto: i migranti sono anzitutto un problema del Paese in cui sbarcano. Cioè nostro. È la stessa posizione della Svezia: «Senza Dublino non può esserci solidarietà», dichiara il ministro Johan Forssell. Noi ci becchiamo barconi e barchini; dopo si vede dove sta l’Europa.
Il ministro finlandese, Mari Rantanen, chiarisce: «Non accetteremo migranti da altri Stati membri». Idem l’Ungheria. Ma anche Francia e Germania fanno le bizze: queste ultime, in particolare, sulla parte del nuovo Patto sulle migrazioni, in vigore da fine giugno 2026, in virtù della quale gli ordini di rimpatrio emessi da un Paese europeo dovranno essere riconosciuti ed eseguiti in qualunque altra nazione dell’Unione. La preoccupazione di Parigi e Berlino, oltre che dei belgi, è che tocchi a loro acollarsi tutti gli oneri della remigrazione. La resistenza è tale che la presidenza danese di turno dell’Ue, stando alle bozze consultate da Euractiv, sarebbe orientata a proporre il rinvio di ben tre anni delle disposizioni sui rimpatri.
Martedì, al Consiglio Giustizia e affari interni del Lussemburgo, lo spirito comunitario si è dunque liquefatto sul dossier immigrazione. Ciascuno spera che sia qualcun altro - i soliti mediterranei - a fare i conti con la patata bollente degli arrivi dall’Africa.
A otto mesi dalla sua entrata in vigore, il vertice serviva a fare il punto sul Patto, che per l’Italia porterà delle novità importanti. Tipo la possibilità di considerare sicuri i Paesi di partenza, con eccezioni per parte del loro territorio e per alcune categorie di cittadini. È un aspetto centrale, perché è su questo che si sono impuntati i giudici, sia della Corte Ue sia dei nostri tribunali, per bocciare i trattenimenti di bengalesi ed egiziani nel Cpr balcanico. Dovrebbe subentrare anche una lista unica di Stati sicuri, più difficile da cassare a colpi di sentenze, benché i magistrati italiani conservino la facoltà di sindacarla. Cruciale, inoltre, l’istituzionalizzazione delle procedure accelerate di rimpatrio alla frontiera, elemento costitutivo della nostra intesa con Tirana.
Nell’Ue, i nodi del contendere riguardano, in primo luogo, il ricollocamento degli stranieri sbarcati al Sud del continente. Stando alle regole in vigore da giugno 2026, i nostri partner potranno scegliere se riceverli oppure corrispondere una somma per ogni persona non ospitata, alimentando un fondo con il quale finanziare il controllo dei flussi all’origine e nei Paesi di transito. Eppure, c’è chi - è il caso della Polonia di Donald Tusk - non vuole né accogliere né pagare.
L’altra fonte di attriti riguarda gli automatismi nel riconoscimento dei provvedimenti di rimpatrio: resta forte la pressione affinché siano gli Stati di arrivo a sbrigare la maggior parte delle incombenze.
Dopodiché, non mancano i motivi per essere ottimisti. Persino i governi progressisti hanno capito che la stretta ai confini è imprescindibile. Così, il ministro dell’Interno tedesco, Alexander Dobrindt, l’altro ieri ha elogiato le «soluzioni innovative» che consentirebbero di aprire «hub di rimpatrio» in Paesi terzi, sulla scorta del protocollo di Giorgia Meloni con Edi Rama. È una posizione sulla quale, ormai, pressoché tutti gli Stati Ue concordano. E l’Olanda è già un gradino oltre: il ministro David Van Weel ha annunciato un accordo con l’Uganda, che «diventerà un centro di transito dove potremo inviare» gli irregolari, in attesa di rimpatrio. È il modello Albania di Amsterdam.
Il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, non ha potuto recarsi personalmente al summit lussemburghese, trattenuto qui dalla tragedia dei carabinieri uccisi nel Veronese e dalla necessità di seguire da vicino la situazione a Udine, in vista della partita con Israele. L’Italia, che ha inviato il suo ambasciatore, intanto sta lavorando su almeno tre fronti. Primo, il rafforzamento della dimensione esterna in materia di rimpatri, che include non solo la realizzazione degli hub, ma anche la possibilità di gestire le pratiche direttamente in Paesi extra Ue. Secondo, l’adozione delle procedure accelerate di frontiera. Terzo, il potenziamento del sistema dei rimpatri volontari assistiti. Il che implicherebbe un incremento delle risorse comunitarie indirizzate all’Organizzazione internazionale per le migrazioni, responsabile di coordinare i progetti avviati soprattutto con la Libia. Nel 2024, il meccanismo è valso 20.000 sbarchi in meno.
Di fronte a un’Unione sospesa tra egoismo e cooperazione, è impossibile non notare che i formati più promettenti non sono quelli centralizzati, bensì quelli basati sull’interlocuzione tra nazioni che condividono interessi comuni. Capaci di tradurre l’identità di vedute in istanze da far valere in sede di Consiglio. Nel caso dei migranti, parliamo di Med5 (l’alleanza Italia-Cipro-Grecia-Malta-Spagna), il trilaterale sui confini di terra con Slovenia e Croazia, il triduo con Parigi e Berlino lanciato lo scorso agosto. L’Europa funziona meglio quando ce n’è di meno.
Quel ramo del lungarno che volge al Ponente… Eh sì, ci vorrebbe un incipit manzoniano per rendere l’armonia subitanea che avvolge appena si varca la spalletta del ponte. Comincia da lì il muro del giardino di Boboli e, accoccolata tra alcune facciate ottocentesche, si scorge una costruzione bassa, luminosa di cristalli, in grisaglia benpensante. È la nuova bottega del Verrocchio. Come la bottega del maestro di Botticelli, del Ghirlandaio, di Lorenzo di Credi produce manufatti e talenti, concetti e intenti. È Archea, studio di progettazione e non solo nato da una spontanea necessità di comunità d’idee tra tre architetti quasi coetanei: Laura Andreini, Marco Casamonti e Giovanni Polazzi, formati all’università gigliata ma, soprattutto, formati da Firenze. A loro si è aggiunta Silvia Fabi dal 2001 e Archea si è se trasformata in Archea Associati. Marco Casamonti, che è il front man del gruppo, sussurra: «Fosse vero che siamo come la bottega del Verrocchio, potrei incontrare Leonardo; noi non speriamo altro di trovare un allievo che superi il maestro, ma è vero che come il Verrocchio faceva pittura e architettura, oggetti e progetti, anche noi abbiamo inteso Archea come un luogo di creatività ragionata, come una bottega rinascimentale. Facciamo progetti, anche urbanistici, e oggetti, barche, mostre d’arte, videoarte, editoria. Se nasci a Firenze vivi in un luogo “De Divina Proportione”, immerso in un perenne bello». Marco Casamonti non è solo un geniale architetto, ma è anche professore ordinario di Progettazione architettonica e urbana presso la Scuola politecnica dell’Università di Genova e direttore ed editore di Area, una delle poche riviste di architettura rimaste in Italia.
Professor Casamonti, dunque lei è, o si sente, un’archistar?
«Oddio, ma non si può trovare una definizione un po’ meno spocchiosa?». (Casamonti parla un fiorentino educato; la lingua è funzionale allo scorrere, come l’Arno, delle idee, con un flusso incessante e ordinato tra la riva della creatività e quella delle razionalità, ndr)
Per esempio?
«A me piace tanto la definizione di Adolf Loos: l’architetto è un muratore che parla latino. Come muratore, sa dove mettere le mani ma, attraverso il latino, conosce il perché della sua arte».
Qui ad Archea si ha l’impressione nonostante i rendering, i modelli in 3D, una foresta di computer, di essere a bottega. Ma quanti siete?
«Siamo oltre 250, quasi tutti architetti, e siamo divisi tra Firenze, Roma, Milano, Genova e Parigi e poi abbiamo studi a Tirana, Pechino, Dubai e San Paolo. Il nostro impegno è multiforme, noi diamo tantissima importanza alla ricerca. L’uso della tecnologia più avanzata è inteso come uno strumento, ma non deve venire mai meno il pensiero, l’elaborazione fatta dall’uomo, la stratificazione della conoscenza».
In effetti, qui è anche pieno di libri e di riviste…
«Accompagno sempre il progetto con un libro che lo documenta dal primo schizzo ideativo fino alla realizzazione. Quando ho assunto la direzione di Area, ho capito che la rivista come tale non sarebbe sopravvissuta, incalzata da forme di comunicazione più veloci. Ed ecco che Area di cui sono orgogliosamente direttore si è trasformata in una serie di approfondimenti monografici. Prendiamo un tema progettuale e lo sviluppiamo attraverso i più autorevoli contenuti».
Da più parti si parla di un nuovo Rinascimento italiano come modello possibile in Europa e nel mondo; c’è spazio per un rinnovato umanesimo mentre quasi si idolatra l’Intelligenza artificiale?
«L’Intelligenza artificiale è uno strumento, potentissimo, affascinante, ma è deve rimanere uno strumento. Parlare a un fiorentino di Rinascimento è parlare di casa. I Medici riuscirono a fare dell’arte uno strumento di dialogo, di narrazione dei loro valori. Questa è una città dove arrivano 14 milioni di turisti che, come l’Italia, vive di bellezza. Il nuovo Umanesimo sta nella capacità di reinterpretare quella visione. Paolo Portoghesi diceva che l’architetto non deve avere solo occhi, ma deve avere orecchi, per ascoltare il mondo e interpretarlo. Sono convinto che non si può fare architettura senza arte, l’arte è il principio dell’architettura. Tutti i grandi del Rinascimento sono stati contemporaneamente artisti e architetti. Da fiorentino, vivo immerso in questo ambiente e quando progetto cerco di esprimerlo».
In che senso?
«Mi spiego con un esempio. Un giorno riceviamo una richiesta dal Vietnam. Ci chiedono di progettare per poi costruire un luogo, una sorta di ponte da cui osservare un nuovo insediamento dove c’è anche una grottesca riproduzione di architetture italiane. Vado e, osservando ma soprattutto ascoltando, ribalto la loro l’idea, il punto di vista: facciamo una struttura che debba essere guardata dalla riva. È nato così il Kiss Bridge che è un ponte che non si attraversa: è interrotto. Attira milioni di turisti che lo percorrono da un lato all’altro senza incontrarsi. Da cosa è nata l’idea e, soprattutto, come l’ho comunicata? Ricordando Michelangelo. L’idea del ponte dei baci è quella del dito di Adamo e del dito di Dio che nella Creazione della Cappella Sistina non s’incontrano, ma vanno oltre l’incontro: diventano forza generatrice. Questo, semplificando ed esemplificando, è per me il nuovo Rinascimento».
Esiste uno stile architettonico italiano che disegna e costruisce il mondo?
«Ci vorrebbe un’intera enciclopedia per parlarne, magari è un’idea. Sicuramente è riconosciuta una capacità italiana sia nel progettare sia nel realizzare di altissimo profilo. Anche in architettura ci sono state le mode, ci sono le correnti di pensiero. La globalizzazione ha portato anche a una contaminazione. Ma se vieni dal Paese di Vitruvio, del Brunelleschi, di Bernini o del Palladio, li hai dentro, li hai nel tuo Dna e certamente questa attitudine all’arte e il pensiero (il bello e conseguenza dell’arte e del pensiero per questo) emerge. Per quanto riguarda noi, abbiamo costruito ovunque. In Cina, in una zona dove avevano spianato una collina per produrre ceramiche, abbiamo immaginato edifici a forma di vaso cinese. In un altro contesto, il committente aveva un problema legato all’abbattimento di un albero secolare e noi abbiamo progettato girando il palazzo attorno all’albero ovviamente senza abbatterlo. Abbiamo realizzato progetti dalla Cina agli Emirati Arabi, dal Vietnam al Brasile. Misurandoci volta per volta con funzioni diversissime: dal polo produttivo al contenitore culturale, dal centro di ricerca alla struttura industriale, dal quartiere residenziale al centro commerciale. E ogni volta non abbiamo imposto un’idea, ma abbiamo lasciato che il luogo generasse in noi l’idea. Quando Mark Augè parla dei non luoghi, non definisce l’assenza di luogo ma codifica la presenza del non luogo che è l’esatto opposto dell’idea dell’Umanesimo».
Lei ha progettato ai quattro angoli della terra, ma Firenze resta il suo motore ispirativo. È così?
«Firenze mi appartiene come io le appartengo, è la Firenze medicea quella che s’affida all’arte per essere. Noi a Firenze abbiamo fatto pochi progetti: dal Viola Park alla Cantina Antinori, che ci è valsa molti premi: la sua scala elicoidale è ormai un’icona. Abbiamo fatto la trasformazione della manovia della Salvatore Ferragamo. In un tunnel che era un rifugio antiaereo, abbiano realizzato una galleria di video-art. Ora stiamo restaurando un teatro a due passi da Palazzo Vecchio. Abbiamo investito in un contenitore culturale che Firenze rischiava di perdere per produrre un luogo per l’arte».
L’architettura, con l’inchiesta di Milano e ora con la polemica su Firenze sembra sotto accusa. Sta scadendo la qualità architettonica?
«Anche qui il ragionamento sarebbe molto complesso. Mi limito a osservare che l’architettura dipende molto dalla committenza pubblica o comunque dallo Stato, inteso nella sua accezione di potere decisionale. Influenza la qualità e anche lo scopo dell’architettura. Abbiamo una legge urbanistica che risale al 1942. L’80% del nostro patrimonio abitativo è influenzato dall’idea di questa architettura funzionale. Negli edifici pubblici, cosi come nelle case popolari conseguenti alla legge Fanfani, ogni edificio doveva accogliere un’opera d’arte ma questa norma che ancora esiste e quasi sempre disattesa. La concezione urbanistica secondo cui la città produttiva va separata dalla città dove si vive ha generato le periferie di cui oggi noi ci lamentiamo. Anche con il Pnrr non si sono colte tutte le opportunità. Resto legato all’idea di Franco Purini, che l’architettura è un’arte che ha una sua particolare modalità espressiva e che dobbiamo guardare alle periferie con occhi nuovi. A questo dovrebbe guardare la committenza pubblica. Succede in Spagna, in Francia e poi c’è un caso europeo che vivo quotidianamente con grande interesse: l’Albania».
L’Albania? Possibile che sia un esempio per l’architettura?
«Sì, lo è, e torniamo alla committenza pubblica come innesco del bello, esattamente come i Medici. Edi Rama ha riunito 300 architetti per progettare la nuova Albania e chiede ai migliori architetti del mondo, chiamati scherzosamente “Albanian arch army”, di aiutarlo nella costruzione del nuovo volto del Paese, aderente però alla cultura e all’identità albanese. Questo deve fare la committenza pubblica. In Italia, col pregiudizio sul fascismo, si è dimenticato che il regime ha prodotto una nuova immagine urbana che invece resta, relativamente all’architettura, una testimonianza di valore. Il compito della committenza pubblica è di generare occasioni per migliorare la vita delle persone, l’abitare, attraverso l’architettura. Rivelo un piccolo aneddoto. Ho chiesto a Edi Rama: come fai, tu, socialista, a dialogare così strettamente con Giorgia Meloni? Mi ha risposto: per noi l’Italia è un esempio di bellezza e di cultura, l’Italia per noi è casa, italiani sono gli architetti che hanno disegnato e dato vita alla nostra capitale».
Viene in mente Paolo Conte che, dalla nebbia del Nord, guarda il mare: per molti l’Italia è un lampo giallo al parabrise.

