2020-01-10
«Tafida ti guarda, reagisce: altro che morta»
Parla Paolo Petralia, il direttore generale dell'Istituto Gaslini, che ha accolto la piccola malata di 5 anni che i medici britannici volevano sopprimere: «A Londra erano rigidi. Il nostro segreto invece si chiama umanità. Ora in tanti ci chiedono consulti, persino dagli avanzati Usa».Miracolo a Genova? Lo abbiamo chiesto a Paolo Petralia, direttore generale dell'Istituto Gaslini. Lui e la sua équipe sono riusciti a portare in Italia Tafida, la bambina che a Londra davano per spacciata. Invece così non era e proprio nei giorni di Natale è stata trasferita dalla rianimazione al guscio dei bimbi, la tappa che precede le cure a casa. I medici del Royal London hospital la ritenevano incurabile, invece ha lasciato la terapia intensiva. Un miracolo?«Curare non sempre significa guarire, ma deve sempre significare accogliere e prendersi cura. Questo abbiamo fatto al Gaslini mentre a Londra avevano deciso che non ne valeva la pena e che, quindi, avrebbero staccato la spina».Un miracolo o no?«In medicina non si parla di miracoli ma certamente il metodo del prendersi cura della bambina e della sua famiglia moltiplica gli effetti delle terapie e anzi le precede. Dare spazio e tempo permette una prospettiva che veniva negata a Londra».I medici inglesi hanno sbagliato?«Non si trattava di divergenze tra tecniche di tipo medico o chirurgico. Prima di tutto c'è la disponibilità ad accogliere, ecco la vera differenza tra noi e loro».Ed è questo il segreto del Gaslini?«Da 80 anni da noi il rapporto tra medico e paziente è un'alleanza terapeutica, intendo con il termine “medico" l'intera équipe compresi gli infermieri e gli psicologi, che sostengono la famiglia e aiutano il piccolo. Tra noi ci chiamiamo gasliniani, dove trova un'altra azienda pubblica i cui operatori prendono il nome dell'azienda?».Non mi viene in mente.«Appunto, è una cosa preziosa. Il segreto identitario del Gaslini è questo: ci prendiamo cura prima di curare, che era anche la volontà originaria del fondatore».Adesso Tafida è stata trasferita nell'hospice…«Nel guscio dei bimbi, il reparto in cui si preparano al ritorno a casa. Il percorso di cura che abbiamo proposto all'Alta Corte inglese era articolato per fasi a vari livelli d'intensità: prima la rianimazione, poi il guscio dei bimbi, fino ad arrivare alle cure domiciliari». Quindi?«Dopo neppure 70 giorni, che in medicina sono molto pochi, Tafida è stata messa in una struttura a media intensità costituita da miniappartamenti dove può vivere assieme ai familiari, attori fondamentali nel percorso di cura».Tornerà a casa?«Quello è l'obiettivo che ci prefiggiamo e riteniamo ci siano margini per proseguire nel percorso».Ci sono speranze?«Tafida ha avuto un gravissimo accidente cerebrovascolare. Cosa significa sperare? Se intendiamo che torni esattamente come era è molto difficile. Noi speriamo però che abbia tempo e spazi adeguati ai bisogni e alle prospettive sue e della sua famiglia, quindi che torni presto a casa».Qualcuno in Inghilterra si era sostituito alla famiglia…«Si stava sostituendo, decidendo che bisognava interrompere. Ma l'Alta corte ha stabilito, grazie anche all'autorevolezza del protocollo terapeutico del Gaslini, di dare la possibilità ai genitori di essere ascoltati. Questo è il vero miracolo».Quale?«Una sentenza che sancisce un cambiamento storico e fa giurisprudenza. Adesso le famiglie hanno la possibilità di essere ascoltate. Noi non siamo oltranzisti ma non siamo neppure per l'accanimento terapeutico. C'è bisogno di proporzione ed equilibrio senza esagerazioni».Ci ricorda com'è nata la decisione di accogliere Tafida a Genova?«Nasce tutto da una mail che ho ricevuto a giugno da Shelina Begum, la mamma di Tafida: con tono disperato mi spiegava dell'intenzione dell'ospedale di interrompere le cure alla figlia. Aveva scelto il Gaslini perché lo riteneva adeguato come competenze e umanità. A ferragosto i nostri medici sono andati a Londra per visitare la bambina assieme agli inglesi. Non c'era conflitto tecnico con loro, la differenza era solo nelle conclusioni: loro erano per staccare la spina, noi per concedere tempo e opportunità».Quando è arrivata al Gaslini cosa avete fatto?«Per prima cosa abbiamo chiesto alla stampa silenzio e rispetto per poter affrontare un percorso normalizzato. Dopo due settimane abbiamo eseguito un intervento che ha migliorato la sua idrocefalia riducendo la pressione endocranica. Poi abbiamo praticato la tracheotomia per la respirazione e facilitare una autonomia dal ventilatore. Infine la gastrotomia per nutrire meglio la bambina. La prospettiva è ridurre la dipendenza dalle macchine».Ora respira da sola?«Per una parte della giornata è staccata dal ventilatore meccanico, non la notte ma anche per sicurezza. E poi sta iniziando la rieducazione per deglutire. Questa bimba ti guarda, gira gli occhi, alza il braccio, reagisce agli stimoli: è tutto tranne che morta».Che livello di coscienza ha?«Esiste una scala dei comi che va dalla morte cerebrale, quando si staccano le macchine e in questo caso lo facciamo anche noi, fino allo stato di coscienza vigile. Lei progredisce salendo la scala. Fino a che livello? Visto che sono credente rispondo che lo sa solo il buon Dio».La rende orgoglioso questo risultato?«Noi serviamo i bambini e le loro famiglie, siamo orgogliosi di poter dare ancora una volta una risposta di dignità, di speranza e di equilibrio. La conquista più grande è riportare un fatto che viene considerato eccezionale nella dimensione della normalità. Sarebbe normale che tutti i bambini avessero questa opportunità».E ce l'hanno?«Tafida non è solo la figlia di Shelina e di Mohamed. Grazie a lei tante altre Tafida possono avere un'opportunità. Oggi abbiamo ricevuto diverse altre richieste di consulti da tutto il mondo e ci riempie il cuore. Ci scrivono per pareri anche dagli Stati Uniti dove la sanità è tecnologicamente più avanzata e ricca che in Italia, noi qui però oltre alla competenza mettiamo una cosa indispensabile: si chiama umanità».