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2022-01-11
Super Mario ha esaurito le carte (e le energie)
Mario Draghi (Getty images)
Bugie sulle terapie per difendere l’obbligo vaccinale proprio nel giorno in cui Spagna e Francia si allineano alla Gran Bretagna nella scelta di convivere col virus senza restrizioni. Scuola, è sempre scontro: Vincenzo De Luca scornato, però aule chiuse in 1.044 Comuni.
Mario Draghi si è preso quasi una settimana prima di aprire bocca sull’obbligo vaccinale. Probabilmente, il presidente del Consiglio ha voluto attendere le reazioni al provvedimento, da parte degli italiani e dei partiti, oltre che vedere cosa sarebbe successo con la riapertura delle scuole e la ripresa delle principali attività produttive. Peccato però che la sua conferenza stampa sia caduta nel giorno sbagliato. Già, mentre a Palazzo Chigi il capo del governo rispondeva alle domande dei giornalisti, sostenendo le ragioni di una misura che costringe chi ha più di 50 anni a vaccinarsi, pena la perdita del lavoro e l’impossibilità di esercitare i propri diritti, altri Paesi adottavano una linea uguale e contraria. Non parliamo della Gran Bretagna, che pur non avendo introdotto né green pass né super green pass, consentendo dunque l’autodeterminazione vaccinale, ha visto diminuire i contagi e in questi giorni registra la metà dei decessi che si contano in Italia. No, parliamo di Francia e Spagna, due Paesi che si possono definire gemelli del nostro. Sebbene Emmanuel Macron di recente si sia lasciato sfuggire una frase pesante contro chi non si è vaccinato, promettendo di voler molestare, immaginiamo con una serie di divieti e multe, chi non ha offerto il braccio alla patria, il parlamento transalpino ha bocciato qualsiasi idea di legge che rendesse obbligatoria la puntura. Ne ha preso atto anche il portavoce del governo francese, Gabriel Attal, il quale ha annunciato che non verrà imposta alcuna costrizione, giudicandola inefficace per favorire la vaccinazione. Non molto diversa la decisione adottata da Madrid. Il premier spagnolo ha infatti assicurato che non ci saranno alcun green pass o obbligo, dicendo di voler affrontare il Covid come un’influenza. Del resto, questo è ciò che si appresta a fare anche il governo di sua maestà la regina Elisabetta. Invece di puntare a un irrealistico sradicamento del virus, cosa che appare sempre più un obiettivo impossibile, la Gran Bretagna ha scelto di fronteggiare i contagi senza adottare misure restrittive e senza limitare la libertà e i diritti dei propri cittadini. L’ex ministro per le vaccinazioni e attuale responsabile dell’Istruzione ha detto che l’Inghilterra mira a essere una delle prime grandi economie che passa dalla fase pandemica a quella endemica: «Le scuole rimarranno aperte e i test antigenici rimarranno gratis per tutti». In pratica, il contrario di ciò che ieri ha ribadito il nostro presidente del consiglio il quale, come Boris Johnson, non intende sospendere le lezioni, ma nei fatti lascia che decine di migliaia di studenti finiscano in Dad, cioè confinati a casa, in quanto il tracciamento e soprattutto i tamponi per tenere sotto controllo i contagi non solo sono a pagamento, ma per poterli effettuare bisogna sottoporsi a lunghe file fuori dalle farmacie. Nonostante le pressioni degli scienziati più catastrofisti, che immaginavano anche migliaia di morti al giorno, il governo inglese si è sempre rifiutato di adottare il green pass, se non per le discoteche e per i grandi eventi. In bar e ristoranti non è richiesto alcun certificato verde e solo con la variante Omicron era stato consigliato di indossare le mascherine al chiuso. Un azzardo, secondo alcuni, che tuttavia è stato accompagnato da una campagna vaccinale che ha puntato sulla terza dose, con il risultato che oggi il 60% della popolazione ha ricevuto il booster, mentre da noi, impegnati come siamo a dare la caccia ai no vax, siamo a meno del 40. Tutto ciò, ribadisco, senza discriminazioni, multe o Scotland Yard alla porta per controllare a quante iniezioni ci si sia sottoposti. Quando, nei giorni scorsi, a un ministro è stato chiesto se la Gran Bretagna avesse intenzione di seguire l’esempio italiano, la risposta è stata lapidaria: «Noi siamo un Paese libero». Una conferma che quanto raccontato dal nostro governo, secondo cui in fatto di Covid saremmo il faro che orienta l’Europa, anzi il mondo, è una grande balla.
Peraltro, di recente, il neoministro della giustizia tedesco, a proposito dell’obbligo vaccinale ha spiegato che se le iniezioni danno una copertura di due o tre mesi, lasciando cioè tutto sostanzialmente com’è, l’argomento è a sfavore di una misura che limita le libertà. In poche parole, il mondo si accorge che se la puntura non è risolutiva, ma solo una soluzione ponte, insistere ha poco senso, è utile al momento, ma poi diventa una rincorsa continua. Non di una vaccinazione annuale, come per l’influenza, ma di una semestrale, se non trimestrale. Ecco, dicevamo, il mondo si accorge e si interroga. Ovunque, tranne che da noi. Ieri il presidente del Consiglio ha ribadito che l’aumento dei contagi è da addossare ai no vax, come se le centinaia di migliaia di contagi giornalieri fossero solo colpa di quella minoranza che ha rifiutato il vaccino e alla quale ormai è impedito quasi tutto. Un’illusione consolatoria. Alla quale si unisce, come è stato chiaro dalle risposte del ministro Roberto Speranza e del coordinatore del Cts Franco Locatelli, un’assenza di strategie alternative, per mettere in sicurezza le scuole (con strumenti per il ricircolo d’aria) e per curare i malati che non si chiamino Massimo Galli.
Mario Draghi si è scusato per aver parlato in ritardo di un provvedimento tanto importante come l’obbligo vaccinale. Ma più che la richiesta di comprensione, a colpire è la stanchezza dimostrata dal premier anche con la laconicità delle sue risposte. Dopo undici mesi, forse l’ex capo del governo pare affaticato. Forse non ne può più delle liti dei partiti. Forse, anche se non ne vuole parlare, pensa più al Quirinale che a Palazzo Chigi, unico modo per sfuggire alla morsa di Speranza e compagni.
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Bugie sulle terapie per difendere l’obbligo vaccinale proprio nel giorno in cui Spagna e Francia si allineano alla Gran Bretagna nella scelta di convivere col virus senza restrizioni. Scuola, è sempre scontro: Vincenzo De Luca scornato, però aule chiuse in 1.044 Comuni.Mario Draghi si è preso quasi una settimana prima di aprire bocca sull’obbligo vaccinale. Probabilmente, il presidente del Consiglio ha voluto attendere le reazioni al provvedimento, da parte degli italiani e dei partiti, oltre che vedere cosa sarebbe successo con la riapertura delle scuole e la ripresa delle principali attività produttive. Peccato però che la sua conferenza stampa sia caduta nel giorno sbagliato. Già, mentre a Palazzo Chigi il capo del governo rispondeva alle domande dei giornalisti, sostenendo le ragioni di una misura che costringe chi ha più di 50 anni a vaccinarsi, pena la perdita del lavoro e l’impossibilità di esercitare i propri diritti, altri Paesi adottavano una linea uguale e contraria. Non parliamo della Gran Bretagna, che pur non avendo introdotto né green pass né super green pass, consentendo dunque l’autodeterminazione vaccinale, ha visto diminuire i contagi e in questi giorni registra la metà dei decessi che si contano in Italia. No, parliamo di Francia e Spagna, due Paesi che si possono definire gemelli del nostro. Sebbene Emmanuel Macron di recente si sia lasciato sfuggire una frase pesante contro chi non si è vaccinato, promettendo di voler molestare, immaginiamo con una serie di divieti e multe, chi non ha offerto il braccio alla patria, il parlamento transalpino ha bocciato qualsiasi idea di legge che rendesse obbligatoria la puntura. Ne ha preso atto anche il portavoce del governo francese, Gabriel Attal, il quale ha annunciato che non verrà imposta alcuna costrizione, giudicandola inefficace per favorire la vaccinazione. Non molto diversa la decisione adottata da Madrid. Il premier spagnolo ha infatti assicurato che non ci saranno alcun green pass o obbligo, dicendo di voler affrontare il Covid come un’influenza. Del resto, questo è ciò che si appresta a fare anche il governo di sua maestà la regina Elisabetta. Invece di puntare a un irrealistico sradicamento del virus, cosa che appare sempre più un obiettivo impossibile, la Gran Bretagna ha scelto di fronteggiare i contagi senza adottare misure restrittive e senza limitare la libertà e i diritti dei propri cittadini. L’ex ministro per le vaccinazioni e attuale responsabile dell’Istruzione ha detto che l’Inghilterra mira a essere una delle prime grandi economie che passa dalla fase pandemica a quella endemica: «Le scuole rimarranno aperte e i test antigenici rimarranno gratis per tutti». In pratica, il contrario di ciò che ieri ha ribadito il nostro presidente del consiglio il quale, come Boris Johnson, non intende sospendere le lezioni, ma nei fatti lascia che decine di migliaia di studenti finiscano in Dad, cioè confinati a casa, in quanto il tracciamento e soprattutto i tamponi per tenere sotto controllo i contagi non solo sono a pagamento, ma per poterli effettuare bisogna sottoporsi a lunghe file fuori dalle farmacie. Nonostante le pressioni degli scienziati più catastrofisti, che immaginavano anche migliaia di morti al giorno, il governo inglese si è sempre rifiutato di adottare il green pass, se non per le discoteche e per i grandi eventi. In bar e ristoranti non è richiesto alcun certificato verde e solo con la variante Omicron era stato consigliato di indossare le mascherine al chiuso. Un azzardo, secondo alcuni, che tuttavia è stato accompagnato da una campagna vaccinale che ha puntato sulla terza dose, con il risultato che oggi il 60% della popolazione ha ricevuto il booster, mentre da noi, impegnati come siamo a dare la caccia ai no vax, siamo a meno del 40. Tutto ciò, ribadisco, senza discriminazioni, multe o Scotland Yard alla porta per controllare a quante iniezioni ci si sia sottoposti. Quando, nei giorni scorsi, a un ministro è stato chiesto se la Gran Bretagna avesse intenzione di seguire l’esempio italiano, la risposta è stata lapidaria: «Noi siamo un Paese libero». Una conferma che quanto raccontato dal nostro governo, secondo cui in fatto di Covid saremmo il faro che orienta l’Europa, anzi il mondo, è una grande balla.Peraltro, di recente, il neoministro della giustizia tedesco, a proposito dell’obbligo vaccinale ha spiegato che se le iniezioni danno una copertura di due o tre mesi, lasciando cioè tutto sostanzialmente com’è, l’argomento è a sfavore di una misura che limita le libertà. In poche parole, il mondo si accorge che se la puntura non è risolutiva, ma solo una soluzione ponte, insistere ha poco senso, è utile al momento, ma poi diventa una rincorsa continua. Non di una vaccinazione annuale, come per l’influenza, ma di una semestrale, se non trimestrale. Ecco, dicevamo, il mondo si accorge e si interroga. Ovunque, tranne che da noi. Ieri il presidente del Consiglio ha ribadito che l’aumento dei contagi è da addossare ai no vax, come se le centinaia di migliaia di contagi giornalieri fossero solo colpa di quella minoranza che ha rifiutato il vaccino e alla quale ormai è impedito quasi tutto. Un’illusione consolatoria. Alla quale si unisce, come è stato chiaro dalle risposte del ministro Roberto Speranza e del coordinatore del Cts Franco Locatelli, un’assenza di strategie alternative, per mettere in sicurezza le scuole (con strumenti per il ricircolo d’aria) e per curare i malati che non si chiamino Massimo Galli. Mario Draghi si è scusato per aver parlato in ritardo di un provvedimento tanto importante come l’obbligo vaccinale. Ma più che la richiesta di comprensione, a colpire è la stanchezza dimostrata dal premier anche con la laconicità delle sue risposte. Dopo undici mesi, forse l’ex capo del governo pare affaticato. Forse non ne può più delle liti dei partiti. Forse, anche se non ne vuole parlare, pensa più al Quirinale che a Palazzo Chigi, unico modo per sfuggire alla morsa di Speranza e compagni.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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