2022-03-01
Sull’ingresso dell’Ucraina nell’Ue dopo l’entusiasmo arriva la frenata
Gli annunci di Ursula von der Leyen e Charles Michel e la richiesta di Volodymyr Zelensky lasciano posto al realismo. Josep Borrell: «Servono anni». All’Onu Mosca nega l’evidenza. Intanto Pechino copre lo zar, mentre Recep Tayyip Erdogan gli chiude il Mar Nero.Il filo sottile su cui cammina il Papa. Pietro Parolin chiede di evitare la «catastrofe» e Bergoglio spinge per la pace. Senza urtare il patriarca di Mosca, vicino al Cremlino. E freddo con ortodossi ucraini e greco-cattolici.Lo speciale comprende due articoli.«L’Ucraina è una di noi e la vogliamo nell’Ue», aveva scandito domenica, con l’enfasi degli annunci storici, Ursula von der Leyen. E ieri, dopo l’anticipazione del presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, («Il governo ucraino sta preparando la richiesta ufficiale per l’adesione. La Commissione dovrà prendere una posizione ufficiale»), il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si è affrettato a dire sì: «Ci appelliamo all’Unione europea per l’adesione immediata dell’Ucraina con una nuova procedura speciale. Siamo grati ai nostri partner per essere stati con noi, ma il nostro sogno è stare con tutti gli europei e, soprattutto, di essere uguali a loro». E ancora: «Gli europei capiscono che i nostri soldati stanno combattendo per il nostro Stato, e quindi per l’intera Europa, per la pace, per tutti i Paesi dell’Ue, per la vita dei bambini, l’uguaglianza, la democrazia».Sta di fatto che però, com’era largamente prevedibile, un conto sono le dichiarazioni pompose ed emotive, come quelle della presidente della Commissione Ue, altro conto è la realtà. E ieri è stato infatti il giorno della gran frenata tra Bruxelles e Berlino. Ecco il successore di Federica Mogherini come Alto rappresentante per la politica estera Ue, lo spagnolo Josep Borrell: l’adesione dell’Ucraina «è qualcosa che richiederà molti anni. Oggi questo non è all’ordine del giorno, credetemi. Dobbiamo lavorare su cose più pratiche». Stessa musica dal ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock: «Tutti siamo consapevoli che un’adesione all’Ue non è qualcosa che si possa fare in alcuni mesi». In chiusura qualche parola più dolce: «L’Ucraina è parte della casa europea e l’Ue è sempre una casa dalle porte aperte». E anche uno spiraglio per altre partnership: «Oltre all’Ue ci sono molte istituzioni volte a impegnarsi per la pace e la sicurezza sul continente europeo».Nel frattempo Zelensky, ieri mattina, ha riparlato con il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, che poi ha così twittato, dopo aver sottolineato «il coraggio del popolo e dell’esercito ucraino»: «Gli alleati stanno aumentando il loro supporto con missili per la difesa aerea, armi anti carro, aiuti finanziari e umanitari». E qui, al di là della lingua di legno della diplomazia, sta la sostanza di ciò che sta accadendo in questi giorni: le armi servono a rafforzare le capacità di resistenza degli ucraini, tanto quanto le sanzioni servono a cercare di aprire crepe nel regime di Vladimir Putin. Non volendo o non potendo intervenire direttamente, le forze occidentali (Uk, Usa, Canada, Ue) hanno scelto la doppia strada della fornitura di mezzi a Kiev per rendere meno soverchiante la sproporzione di forze a favore di Mosca, e contemporaneamente quella delle sanzioni per indebolire la Russia dal punto di vista economico e geopolitico. L’altro teatro da considerare è quello dell’Onu. Si è svolta ieri una riunione speciale di emergenza dell’Assemblea generale sull’invasione russa. Prima un momento di meditazione e preghiera, poi una raffica di interventi (da Mosca prevedibili giustificazioni propagandistiche, addirittura evocando il fatto che l’intervento sia volto a ottenere la pace), e infine (mercoledì) il voto di una risoluzione di condanna dell’aggressione ai danni dell’Ucraina. «Ci troviamo di fronte a quella che potrebbe facilmente diventare la peggiore crisi umanitaria e dei rifugiati in Europa negli ultimi decenni», ha detto il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres.Va segnalato il posizionamento cauto della Cina. Per un verso, una prevedibile condanna verbale delle sanzioni contro Mosca (definite «illegali e unilaterali», «non risolvono il problema», come ha detto il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Wang Wenbin); per altro verso, uno scontato consenso per le preoccupazioni russe rispetto al vecchio tema dell’allargamento verso Est della Nato; ma non è mancato nemmeno un accenno al rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi, Ucraina inclusa (non certo un passaggio gradito a Mosca). Pechino non vuole un’escalation, ritiene di avere il tempo dalla sua parte, e non ha intenzione di farsi trascinare da un Putin geopoliticamente radioattivo in un’accelerazione ingestibile. È su queste basi che venerdì scorso Pechino si era astenuta, come l’India, da un primo voto di condanna della Russia. Ma se l’astensione di Pechino è stata in fondo una buona notizia per l’Occidente, quella indiana è stata invece una delusione, il preannuncio di un posizionamento terzo.A dare un dispiacere a Putin ci ha pensato Erdogan. La Turchia infatti ha vietato il transito di tutte le navi militari attraverso gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, da cui si accede al Mar Nero, come ha comunicato il ministro degli Esteri di Ankara, Mevlut Cavusoglu. La situazione insomma è ancora molto fluida, e i grandi stanno alla finestra. Certo, Putin sembra aver sottovalutato la resistenza degli ucraini, la contrarietà all’invasione anche da parte di segmenti dell’opinione pubblica russa e una qualche capacità dell’Occidente (seppur tardiva) di rispondere in modo non disunito e non disarticolato. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sullingresso-dellucraina-nellue-dopo-lentusiasmo-arriva-la-frenata-2656809430.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-filo-sottile-su-cui-cammina-il-papa" data-post-id="2656809430" data-published-at="1646079902" data-use-pagination="False"> Il filo sottile su cui cammina il Papa L’Ucraina anche dal punto di vista religioso è un territorio cerniera, tra cristianesimo occidentale e cristianesimo orientale ortodosso. A Ovest c’è la presenza della chiesa greco-cattolica ucraina, di rito bizantino, con sede a Kiev e secolare legame con il Papa, oggi guidata dall’arcivescovo Svjatoslav Ševčuk; un po’ in tutto il Paese, ma soprattutto a Est, una predominante presenza della chiesa ortodossa. Ma questa è a sua volta spaccata, soprattutto dopo la concessione nel 2018 dell’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina da parte del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, che ha forzato i già tesi rapporti con la terza Roma, ossia con il Patriarcato di Mosca. L’avanzata russa in Ucraina quindi, oltre a motivi molto profani, ha anche, più o meno direttamente, una certa somma di interessi con il Patriarcato di Mosca, che vuole esercitare la propria autorità religiosa su tutto lo spazio ex sovietico contro quelle che ritiene essere ingerenze del Patriarcato di Costantinopoli e del Vaticano. Le parole pronunciate dal Patriarca di Mosca Kirill domenica scorsa sono significative: «Dio non voglia che l’attuale situazione politica in Ucraina, Paese fratello e vicino a noi, consenta alle forze del male, che da sempre combattono l’unità della Rus’ e della Chiesa russa, di prevalere». Con la parola «russa», lo ha specificato, intende «una terra che oggi comprende Russia, Ucraina, Bielorussia, altre tribù e altri popoli». E ha concluso: «Il Signore protegga dalla guerra fratricida i popoli che fanno parte dello stesso spazio, quello della Chiesa ortodossa russa. Non diamo a potenze esterne oscure e ostili l’opportunità di prenderci in giro…». Nessuna parola che stigmatizzi l’attacco al territorio ucraino, tanto che gli ha risposto l’arcivescovo ortodosso ucraino Epifanij: «Mi rivolgo a Lei, capo della Chiesa ortodossa russa e le chiedo di mostrare almeno pietà verso i suoi concittadini e verso l’intero suo gregge. Se non può alzare la voce contro l’aggressione, aiuti almeno a portare via i corpi dei soldati russi che hanno pagato con le loro vite le idee della “grande Russia”». Ma ancora una volta a pagare il prezzo più salato sarà la chiesa greco-cattolica ucraina, che storicamente ha un legame forte con il papato e l’Occidente. L’arcivescovo Ševčuk ha detto da che parte sta: «Crediamo che, come dopo la notte viene il giorno, dopo la morte arriva la resurrezione», ha dichiarato in un messaggio domenica scorsa, «anche dopo questa terribile guerra ci sarà la vittoria dell’Ucraina». Però qualsiasi tipo di Ucraina venga ridisegnata sarà per questa chiesa un passo in discesa verso le catacombe. La politica religiosa nei confronti del Patriarcato di Mosca del Vaticano è sempre stata soft, cercando, come disse Giovanni Paolo II, di far respirare l’Europa «a due polmoni» spirituali, quello occidentale e quello orientale. Due spiritualità, un’unica radice, una cultura complementare. Una realpolitik dello spirito che non sempre è stata gradita dalla chiesa greco-cattolica, fedele al papato. In questi giorni peraltro papa Francesco è andato all’ambasciata russa in via della Conciliazione a perorare la santa causa della pace, ma non ha mai pubblicamente nominato la responsabilità della Russia per l’aggressione a Kiev. Ieri mattina il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha dichiarato che «allargare il conflitto sarebbe una catastrofe gigantesca», specificando che la linea della Santa Sede è quella di cercare il dialogo e la mediazione. In questo momento quindi è la Chiesa cattolica che sembra l’unica a predicare la pace di fronte alle minacce nucleari e alle dichiarazioni bellicose, mentre anche la Ue per la prima volta nella storia manda armi a Kiev buttando benzina sul fuoco. Se i due polmoni spirituali, Est e Ovest, devono poter respirare insieme per un’Europa che sia veramente tale, la questione Ucraina sembra un virus letale. Al momento l’unica voce che cerca la mediazione sembra venire da Roma. Ancora una volta, come fu con Benedetto XV per la prima guerra mondiale, il grido scomodo contro «l’inutile strage» arriva dal Papa.
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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