2019-01-08
Sui netturbini indagano i vigili dello scandalo
La Procura ha aperto un'inchiesta sugli operatori dell'Ama per la clamorosa mancata raccolta dei rifiuti tra Natale e Capodanno. La speranza è che non faccia la fine di quella sugli 800 pizzardoni che disertarono il servizio nel 2014: una pioggia di assoluzioni.La Procura di Roma ha appena aperto un'inchiesta a tappeto sugli operatori dell'Ama, l'Azienda municipale per l'ambiente, per la scandalosa mancata raccolta dei rifiuti tra Natale e Capodanno. Il pubblico ministero, Carlo Villani, ipotizza il reato di interruzione di pubblico servizio, che prevede la reclusione fino a 1 anno, ma fino a 5 anni per promotori e organizzatori. Per ora non ci sono indagati.La speranza è che la sua inchiesta finisca un po' meglio di quella che seguì allo scandalo della polizia municipale romana. Oggi nessuno sembra più ricordarlo, ma la sera del 31 dicembre 2014, mentre i cittadini cominciavano a festeggiare l'arrivo del 2015, su poco meno di 6.000 vigili urbani appartenenti al corpo in 767 si preparavano a celebrare il loro Capodanno partecipando a un caso di assenteismo collettivo destinato a restare scolpito a lettere d'oro sul muro dell'inefficienza amministrativa. E, purtroppo, anche su quello dell'inconcludenza giudiziaria.Il 30 dicembre di quattro anni fa, a Roma, erano previsti in servizio per il giorno successivo 705 vigili per la serata e 200 per la notte. Ma già nel primo pomeriggio del 31 dicembre la situazione era improvvisamente e disastrosamente mutata: erano scesi ad appena 350 i vigili disponibili per la serata, e a 130 quelli per la notte. Mentre il sole cominciava a tramontare, quel disgraziato 31 dicembre, nella giunta di centrosinistra guidata dal sindaco Ignazio Marino era esploso il panico: perché a quel punto i pizzardoni disponibili per la serata erano ancora calati a 165, mentre quelli pronti a entrare in servizio per il resto della notte erano 35. E non per un solo quartiere, ma per l'intera città. Il Comune aveva quindi deciso di richiamare in servizio tutti i vigili teoricamente impegnati in un turno di reperibilità. Dal Comando dell'Urbe erano partite centinaia e centinaia di telefonate, ma in tutto si era riusciti ad arruolare altri 120 agenti, i soli disponibili a sorvegliare la povera capitale d'Italia nella notte dell'ultimo dell'anno. Inevitabilmente lo scandalo dei quasi 800 vigili urbani assenteisti, nel gennaio 2015, era poi sbarcato sui giornali di mezzo mondo, trasformandosi in un caso internazionale. E l'Italia aveva fatto la solita figuraccia globale. In quell'occasione, proprio come oggi, la politica aveva impugnato proclami d'impetuosa severità. Subito dopo erano risuonati annunci di imminenti inchieste penali e amministrative, e si erano promesse pene esemplari per i colpevoli. Esattamente come oggi accade per lo scandalo dei netturbini. Certo, la magistratura romana fa più che bene a indagare sulle mancanze nella raccolta dei rifiuti, e l'inchiesta, come allora, parte da fatti più che concreti: stavolta si basa sulle decine di querele ricevute dai cittadini e sulle denunce dei giornali. C'è da sperare, però, che stavolta la stessa magistratura metta più impegno di quello speso nei tre anni d'inchiesta sullo scandalo dei vigili. E c'è da sperare, soprattutto, che i giudici impieghino un pizzico di severità in più. Perché, se vi chiedete quali siano stati i risultati concreti del procedimento aperto quattro anni fa sui pizzardoni, la risposta è davvero sconfortante: nulla di nulla.In base alle indagini, sui 767 vigili che nel Capodanno 2014 si erano dati alla macchia, 571 erano caduti improvvisamente malati, come da certificato sanitario presentato; altri 81 avevano opposto al lavoro la legge 104, che consentiva loro di assistere un parente disabile; altri 63 avevano deciso di donare il sangue proprio a Capodanno, un atto che garantisce per legge un recupero compensativo; altri 29 erano in permesso retribuito; gli ultimi 23 erano invece rimasti a casa «per gravi motivi familiari». Contro quell'epidemia di assenteisti, il Comando della polizia municipale avrebbe potuto e dovuto spedire almeno una tempestiva raffica di visite fiscali. Ma i responsabili del corpo dissero che purtroppo la sera del Capodanno 2014 non era stato possibile, perché nei loro uffici non c'era nessuno che fosse in grado di ricordare la password del sistema informatico per richiedere le visite mediche all'Inps. Gli stessi pubblici ministeri Nicola Maiorano e Stefano Fava, i due titolari della sfortunata inchiesta sui pizzardoni imboscati, erano stati poi presto costretti a chiedere il proscioglimento per decine di vigili, a partire dai 63 donatori di sangue e degli 81 assistenti di parenti malati, nei confronti dei quali era praticamente impossibile agire penalmente. Ma anche nei confronti degli altri l'inchiesta è finita male. Nel dicembre 2017 il processo era partito per appena sette vigili e sei medici certificatori: lo 0,9% degli indagati iniziali, il classico topolino partorito dalla montagna. Eppure, a leggere le carte, si scopre che durante le indagini i pm si erano spinti a ipotizzare che l'operazione fuggi-fuggi a Capodanno fosse stata addirittura preorganizzata: «L'insieme delle condotte assenteistiche», scrivevano i magistrati, «fa ritenere verosimile l'esistenza di un gruppo direttivo che aveva cercato di bloccare l'attività del corpo». I due pubblici ministeri avevano anche scoperto che «in un gruppo chiuso di Facebook, denominato Solo Polizia Locale di Roma Capitale, erano apparsi inviti più o meno larvati ad assentarsi dal lavoro, con varie giustificazioni». Si erano così convinti che fosse «verosimile che il gruppo Facebook fosse stato utilizzato per propagandare l'iniziativa». Per cercare di individuare i responsabili, la Procura aveva perfino tentato la via di una rogatoria internazionale negli Stati Uniti, ma Facebook aveva negato l'accesso. Così, in assenza di prove, il tribunale di Roma non aveva potuto che archiviare quell'ipotesi. I giudici, poi, erano stati generosi soprattutto con le centinaia di vigili che, pur retribuiti per essersi messi in reperibilità, non avevano risposto alla chiamata del Comando: eppure il contratto di lavoro li obbligava a raggiungere l'ufficio in un massimo di mezz'ora dalla telefonata di richiamo. Alcuni di loro sono stati assolti, banalmente, perché avevano dichiarato di non averla sentita. È stato così, ad esempio, per una vigilessa del gruppo Nomentano, che ha ammesso di non essersi accorta di una prima telefonata «perché era su un autobus affollato», mentre la seconda chiamata «era stata sovrastata dal chiasso del centro commerciale» dove si trovava. Per di più, ha aggiunto la donna, le telefonate provenivano da un numero sconosciuto, quindi non aveva avuto alcun sospetto che dall'altra parte ci fosse il Comando che cercava di richiamarla in servizio. Il giudice l'ha prosciolta già in istruttoria, stabilendo non ci fossero le prove per coinvolgerla in un processo.Qualche procedimento è ancora in corso, ma finora nessuno degli imputati è stato condannato in via definitiva. Le assoluzioni, al contrario, sono uno stillicidio continuo, di cui i giornali ogni volta danno uno scarno, rassegnato resoconto. Nell'aprile scorso si è letto che sono stati assolti in appello tre vigili: il Capodanno 2014 si erano resi irraggiungibili, spegnendo il cellulare o non rispondendo alla chiamata, nonostante «fossero stati inclusi su base volontaria nei turni di reperibilità». Non si sa se la Procura abbia fatto ricorso in Cassazione. Ma otto mesi fa, dopo quell'assoluzione, l'Organizzazione sindacale della polizia locale ha annunciato una causa contro l'amministrazione comunale «per aver trattato la questione con grande superficialità e mancanza di certezze».Chissà, magari anche le organizzazioni sindacali dei netturbini romani si stanno già preparando a intentare causa al Comune per «danno d'immagine». Forse troveranno anche qualche invitabile solidarietà di categoria in chi oggi indaga su di loro: sapete chi è stato spedito dalla Procura a svolgere gli accertamenti? La risposta è sconcertante, ma suona ovvia nel teatro dell'assurdo della nostra giustizia: sono i vigili della polizia municipale.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco