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2023-11-27
Chi ha trovato l’America (del Sud)
Luiz Inacio Lula da Silva (Getty Images)
Da quando dieci anni fa la Cina ha lanciato la Belt and Road Initiative (Bri) le sue attenzioni si sono subito rivolte all’America Latina, una regione ricca di risorse naturali che è storicamente nella sfera di influenza degli Stati Uniti. Per questo Pechino ha ampliato la sua influenza attraverso prestiti, accordi commerciali e investimenti in infrastrutture e nell’estrazione di minerali. Nel 2023, 21 Paesi dell’America Latina hanno aderito alla Bri, tra cui il Nicaragua e l’Argentina (l’anno scorso). Sotto la presidenza di Alberto Fernández in questi ultimi anni l’Argentina è entrata nell’orbita cinese, in nome di un allentamento della propria dipendenza dal Fmi e dagli Usa. Ricevendo in cambio la promessa di 24 miliardi di dollari di investimenti cinesi in infrastrutture (compresa una centrale nucleare). In teoria l’Argentina è tra i sei nuovi Paesi che il prossimo 1° gennaio dovrebbero entrare nel gruppo dei Brics, l’organizzazione alternativa al G7 che vede insieme Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Ma l’elezione alla presidenza di Javier Milei che ha promesso «cambiamenti drastici» per fare fronte ad una situazione economica gravissima fa sorgere molti interrogativi su che cosa cambierà nei rapporti tra Buenos Aires e Pechino. In Cina sono cauti e possono mettere sul piatto i rapporti economici tra i due Paesi: l’anno scorso il 92% della soia e il 57% della carne argentina hanno preso la via della Cina.
Il ruolo della Cina in America Latina è cresciuto rapidamente da inizio secolo. Le aziende statali cinesi, come scrive il Council on Foreign Relations (Cfr), sono i principali investitori nei settori energetico, infrastrutturale e spaziale della regione, e il Paese ha superato gli Usa come principale partner commerciale del Sud America. Pechino ha anche ampliato la sua presenza diplomatica, culturale e militare in tutta la regione. Più di recente, ha sfruttato la pandemia di Covid-19 fornendo alla regione attrezzature mediche, prestiti e centinaia di milioni di dosi di vaccino CoronaVac. Juan Pablo Cardenal, esperto di politica ed economia cinese e coautore del saggio The Silent Chinese Conquest, afferma che l’influenza di Pechino nella regione varia a seconda del Paese, delle condizioni sociali e politiche e della disponibilità delle risorse naturali di cui il gigante asiatico ha bisogno per soddisfare le proprie esigenze. «La Cina utilizza i suoi prestiti e il suo denaro come strategia di penetrazione in tutta l’America Latina e in altre parti del mondo», scrive Cardenal.
Ma ora gli Stati Uniti e i loro alleati temono che Pechino stia utilizzando queste relazioni per perseguire i propri obiettivi geopolitici, compreso l’ulteriore isolamento di Taiwan, e per rafforzare regimi autoritari come quelli di Cuba e Venezuela, economicamente agonizzanti. Come si legge nel report del Cfr nel 2000, il mercato cinese rappresentava meno del 2% delle esportazioni dell’America Latina. Nei successivi otto anni il commercio è cresciuto a un tasso medio annuo del 31% raggiungendo un valore di 180 miliardi di dollari nel 2010. Nel 2021, ha totalizzato la cifra record di 450 miliardi, rimasta praticamente invariata nel 2022, ma alcuni economisti prevedono che potrebbe superare i 700 miliardi entro il 2035.
Le esportazioni dell’America Latina verso la Cina riguardano principalmente soia, rame, petrolio e altre materie prime di cui il Paese ha sempre bisogno per guidare il suo sviluppo industriale. In cambio, la regione importa principalmente prodotti manifatturieri ad alto valore aggiunto, un commercio che, secondo alcuni esperti, ha indebolito le industrie locali con beni cinesi più economici. A partire dal 2023, Pechino ha accordi di libero scambio in vigore con Cile, Costa Rica, Ecuador e Perù mentre sono in corso colloqui su un accordo di libero scambio con l’Uruguay.
Anche gli investimenti diretti esteri cinesi (Ofdi) e i prestiti svolgono un ruolo importante nel rafforzare i legami con la regione. Tanto che nel 2022, gli Ofdi cinesi in America Latina e nei Caraibi ammontavano a circa 12 miliardi di dollari, ovvero circa il 9% degli Ofdi totali della regione. Contemporaneamente, la China Development Bank di proprietà statale e la Export-Import Bank of China sono tra i principali finanziatori della regione; tra il 2005 e il 2020, insieme hanno erogato sotto forma di di prestiti circa 137 miliardi di dollari ai governi dell’America Latina, spesso in cambio di petrolio e utilizzati per finanziare progetti energetici e infrastrutturali. Solo nel 2022, i prestiti sono arrivati a 813 milioni di dollari.
Il Venezuela è di gran lunga il maggiore mutuatario e attualmente i prestiti statali cinesi sono arrivati a circa 60 miliardi di dollari (soldi che non potranno mai restituire), principalmente relativi all’energia e alle infrastrutture. Si tratta di quasi il doppio dell’importo previsto per il secondo maggiore mutuatario, il Brasile. Non curandosi delle sanzioni americane, il Venezuela ha utilizzato il suo petrolio per ripagare miliardi di dollari di debito con la Cina. Milioni di barili di petrolio venezuelano sono stati rinominati e spediti in Cina, secondo un rapporto Reuters del 2022. La Cina è un membro votante della Banca interamericana di sviluppo e della Banca di sviluppo dei Caraibi. Tuttavia, questi legami hanno sollevato alcune preoccupazioni anche tra i governi regionali. Sebbene i prestiti cinesi abbiano spesso meno condizioni allegate, la dipendenza da essi - come abbiamo più volte scritto - può spingere Paesi economicamente instabili come il Venezuela nella «trappola del debito» che porta inevitabilmente al default e ora diversi Paesi dell’America Latina stanno provando a rinegoziare i termini del proprio debito. I critici affermano che le aziende cinesi adottano standard ambientali e lavorativi più bassi e avvertono che il crescente controllo della Cina su infrastrutture critiche come i porti e le reti energetiche pone rischi per la sicurezza nazionale. Si teme inoltre una crescente dipendenza economica in paesi come il Cile, che nel 2021 ha inviato alla Cina esportazioni per un valore di oltre 36 miliardi di dollari, ovvero circa il 38% del totale.
I narcos «conquistano» altri Stati
Lo scorso 27 ottobre 90 agenti di polizia, 22 veicoli e idranti sono stati dispiegati nella periferia di Santiago, capitale del Cile. Erano lì per monitorare il funerale di una ragazza legata ai narcos locali, deceduta qualche giorno prima. Come raccontato da The Economist eventi di questo genere solo poco tempo fa erano impensabili in Cile che per decenni è stato considerato uno dei Paesi più sicuri dell’America Latina. Ma tutto è cambiato, tanto che tra maggio 2019 e settembre 2023 i narcotrafficanti hanno celebrato 2.000 funerali di questo tipo, secondo il presidente Gabriel Boric che ha presentato al Congresso un disegno di legge volto a limitarli.
Oggi la mappa degli omicidi in America Latina sta cambiando. Il tasso di omicidi nella regione è in calo dal 2017 ma Paesi come il Messico e il Brasile ospitano ancora alcune delle città con il più alto tasso di omicidi del mondo. Quello che sta cambiando rapidamente è il tasso di omicidi che sta raggiungendo livelli record in Paesi un tempo sicuri, tra cui l’Ecuador, il Costa Rica e il Cile travolti dal traffico di droga, armi e migrazioni fenomeni che stanno alimentando la violenza. Fino al 2018 L’Ecuador, Paese andino di 17 milioni di persone, esportava petrolio e pesce e aveva il quarto tasso di omicidi più basso in America Latina, con 5,8 omicidi ogni 100.000 persone. Oggi invece il tasso supera 35 omicidi ogni 100.000 persone ed è già più alto di quello del Messico e del Brasile, dove gruppi criminali uccidono impunemente, facendo esplodere autobombe e appendendo i cadaveri ai ponti come monito a chi sgarra.
La cocaina è la causa principale dei problemi dell’Ecuador. Per decenni il Paese è stato per lo più ignorato dai trafficanti internazionali di droga. Quando i porti colombiani hanno rafforzato la loro sicurezza, i criminali hanno cercato rotte di spedizione alternative. I porti scarsamente monitorati dell’Ecuador sono diventati ancora più attraenti dopo il 2009, quando Rafael Correa, un esponente di sinistra, allora presidente, ha distrutto le difese del Paese chiudendo una base navale americana e, di conseguenza, ponendo fine alla cooperazione con la Drug Enforcement Administration americana.
Drammatica la situazione in Costa Rica dove quest’anno gli omicidi raggiungeranno il record di 17 ogni 100.000 persone, rispetto agli 11 ogni 100.000 persone di tre anni fa. L’aumento della produzione di cocaina in Colombia, dove negli ultimi anni sono state raccolte quantità record di foglie di coca, si traduce in maggiori spedizioni in arrivo in Costa Rica, afferma Álvaro Ramos, ex ministro della Sicurezza. Ma non c’è solo la cocaina dietro agli omicidi perché la cannabis illegale è un grande business in Costa Rica: il 3% dei residenti dichiara di consumarla mensilmente, uno dei tassi di consumo più alti in America Centrale. Molte bande preferiscono l’«erba» alla «coca», i sequestri di cannabis sono triplicati tra il 2018 e il 2021. Spostare la roba bianca è difficile: richiede contatti e funzionari corrotti (ce ne sono relativamente pochi in Costa Rica). Al contrario, la marijuana ha poche barriere all’ingresso e può essere venduta ovunque. Lo Stato non è in grado di contrastare il fenomeno dato che il Costa Rica ha abolito le sue forze armate nel 1949. Rodrigo Chaves, il presidente, incolpa la situazione delle amministrazioni passate e della magistratura. Secondo lui il Paese non ha abbastanza polizia, le leggi sono obsolete e il sistema giudiziario è troppo indulgente nei confronti dei criminali.
In Cile l’anno scorso il tasso di omicidi ha raggiunto il record di 6,7 ogni 100.000 persone. Si tratta di un valore molto al di sotto dei Paesi vicini e vicino al tasso degli Stati Uniti, pari a 6,3. Ma come attestano i narcofunerali, la criminalità sta aumentando molto e oggi vengono sequestrate più cocaina e cannabis che mai.
«Pechino ora riduce i propri investimenti. L’Europa ha spazio»
Antonella Mori insegna economia alla Bocconi ed è a capo del Programma America Latina dell’Ispi.
Come sta economicamente e politicamente l’America Latina?
«La regione si sta riprendendo dalla crisi economica dovuta alla pandemia, la crescita è tornata positiva per quasi tutti i Paesi. Anche la povertà è tornata ai livelli pre-pandemia, anche se rimane alta, pari al 29% della popolazione. È invece un momento molto difficile per l’Argentina che è in recessione, con il tasso d’inflazione che a fine anno potrebbe superare il 200% e la povertà il 40% degli argentini. Da un punto di vista politico, c’è la buona notizia che sono ripresi i negoziati affinché le elezioni presidenziali in Venezuela del prossimo anno si svolgano in modo libero e veramente democratico. Rimane invece molto pronunciata la deriva illiberale del Nicaragua e molto complessa la crisi istituzionale ad Haiti. Il resto dei paesi, tranne ovviamente Cuba, sono democratici, anche se spesso con istituzioni deboli e corruzione diffusa».
È vero che la Cina ha soppiantato gli Stati Uniti come potenza di riferimento?
«Per molti Paesi, tra cui il Brasile, la Cina è diventata il primo partner commerciale. Ventuno Paesi hanno aderito alla Via della Seta cinese, ma non il Brasile e il Messico, che sono le economie più grandi della regione. Negli ultimi anni però la Cina ha ridotto considerevolmente i prestiti alla regione e la presenza di aziende cinesi nella regione è molto inferiore a quella di imprese americane. Direi che per la maggior parte dei Paesi i rapporti economici e politici con gli Stati Uniti rimangono più importanti di quelli con la Cina».
Come farà Javier Milei a tenere fede a tutte le promesse fatte in Argentina, un Paese che è alle prese con una drammatica crisi economica?
«Il presidente eletto Milei dovrà iniziare con delle misure di politica economica che siano appoggiate anche dal partito dell’ex-presidente Mauricio Macri, perché ha bisogno dei suoi voti in Parlamento. Il primo obiettivo sarà la riduzione dell’inflazione, che Milei vorrebbe ottenere con la dollarizzazione, cioè la sostituzione della valuta nazionale con il dollaro americano, e la chiusura della Banca centrale. Siccome questa via non sembra perseguibile nei prossimi mesi, solo dopo l’insediamento del nuovo governo si conoscerà con quale alternativa Milei intende procedere».
Perché l’Argentina, così ricca di materie prime, si ritrova ciclicamente ad un passo dal default?
«Dalla sua indipendenza, l’Argentina ha fatto default nove volte, tre volte dall’inizio del millennio. Si tratta di un caso unico al mondo: agli inizi del Novecento era uno dei Paesi più ricchi, con un livello di reddito pro-capite simile agli Stati Uniti, mentre oggi è meno di un terzo. Non c’è una spiegazione semplice, tanti fattori hanno contribuito a questo peggioramento, tra cui una economia agricola soggetta alla volatilità internazionale di domanda e prezzi, politiche economiche sbagliate, la dittatura».
Ad ormai un anno dall’elezione in Brasile di Luiz Inacio Lula da Silva non sembra che «il Lula terzo» sia un successo. Che cosa non sta funzionando?
«Nei primi due mandati il presidente Lula aveva governato durante il boom internazionale dei prezzi delle commodities, trainate dalla Cina, che aveva favorito la crescita sostenuta e il miglioramento delle condizioni sociali nel Paese sudamericano. Oggi la situazione è molto diversa: la Cina sta rallentando, la Banca centrale brasiliana mantiene tassi d’interesse elevati per ridurre l’inflazione ma con la conseguenza di deprimere gli investimenti. Secondo le previsioni più recenti del Fondo monetario internazionale il Brasile dovrebbe comunque crescere al 3,1% quest’anno».
Come spiega l’ostilità verso Israele di alcuni Paesi dell’America Latina?
«Il panorama è variegato, per esempio il neoeletto presidente argentino Milei in campagna elettorale aveva detto che i suoi punti di riferimento internazionali saranno gli Stati Uniti e Israele».
L’Unione europea potrebbe fare di più nei rapporti con l’America Latina anche dal punto di vista degli investimenti?
«La presenza di aziende europee in America Latina è storicamente elevata, anzi il totale degli investimenti di aziende dell’Unione europea supera gli investimenti americani. Nelle prossime settimane si saprà se verrà finalmente firmato l’Accordo di associazione tra l’Unione Europea e il Mercosur, il blocco d’integrazione di cui fanno parte l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e l’Uruguay. Questo accordo, che include anche la liberalizzazione commerciale, potrebbe essere un ulteriore stimolo alla internazionalizzazione delle imprese europee nei Paesi del Mercosur».
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Gli scambi con la Cina sono saliti da 180 a 450 miliardi in 10 anni, spiazzando gli Usa. Ma per Xi Jinping l’elezione di Javier Milei in Argentina è un campanello d’allarme.Il Cile era uno dei Paesi più sicuri della regione, però negli ultimi anni i traffici di coca e cannabis sono aumentati. Stesso discorso per Ecuador e Costa Rica, ex oasi felici.L’esperta Antonella Mori: «La presenza nell’area di imprese occidentali è più elevata di quella del Dragone. Venezuela verso elezioni libere».Lo speciale contiene tre articoli.Da quando dieci anni fa la Cina ha lanciato la Belt and Road Initiative (Bri) le sue attenzioni si sono subito rivolte all’America Latina, una regione ricca di risorse naturali che è storicamente nella sfera di influenza degli Stati Uniti. Per questo Pechino ha ampliato la sua influenza attraverso prestiti, accordi commerciali e investimenti in infrastrutture e nell’estrazione di minerali. Nel 2023, 21 Paesi dell’America Latina hanno aderito alla Bri, tra cui il Nicaragua e l’Argentina (l’anno scorso). Sotto la presidenza di Alberto Fernández in questi ultimi anni l’Argentina è entrata nell’orbita cinese, in nome di un allentamento della propria dipendenza dal Fmi e dagli Usa. Ricevendo in cambio la promessa di 24 miliardi di dollari di investimenti cinesi in infrastrutture (compresa una centrale nucleare). In teoria l’Argentina è tra i sei nuovi Paesi che il prossimo 1° gennaio dovrebbero entrare nel gruppo dei Brics, l’organizzazione alternativa al G7 che vede insieme Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. Ma l’elezione alla presidenza di Javier Milei che ha promesso «cambiamenti drastici» per fare fronte ad una situazione economica gravissima fa sorgere molti interrogativi su che cosa cambierà nei rapporti tra Buenos Aires e Pechino. In Cina sono cauti e possono mettere sul piatto i rapporti economici tra i due Paesi: l’anno scorso il 92% della soia e il 57% della carne argentina hanno preso la via della Cina. Il ruolo della Cina in America Latina è cresciuto rapidamente da inizio secolo. Le aziende statali cinesi, come scrive il Council on Foreign Relations (Cfr), sono i principali investitori nei settori energetico, infrastrutturale e spaziale della regione, e il Paese ha superato gli Usa come principale partner commerciale del Sud America. Pechino ha anche ampliato la sua presenza diplomatica, culturale e militare in tutta la regione. Più di recente, ha sfruttato la pandemia di Covid-19 fornendo alla regione attrezzature mediche, prestiti e centinaia di milioni di dosi di vaccino CoronaVac. Juan Pablo Cardenal, esperto di politica ed economia cinese e coautore del saggio The Silent Chinese Conquest, afferma che l’influenza di Pechino nella regione varia a seconda del Paese, delle condizioni sociali e politiche e della disponibilità delle risorse naturali di cui il gigante asiatico ha bisogno per soddisfare le proprie esigenze. «La Cina utilizza i suoi prestiti e il suo denaro come strategia di penetrazione in tutta l’America Latina e in altre parti del mondo», scrive Cardenal.Ma ora gli Stati Uniti e i loro alleati temono che Pechino stia utilizzando queste relazioni per perseguire i propri obiettivi geopolitici, compreso l’ulteriore isolamento di Taiwan, e per rafforzare regimi autoritari come quelli di Cuba e Venezuela, economicamente agonizzanti. Come si legge nel report del Cfr nel 2000, il mercato cinese rappresentava meno del 2% delle esportazioni dell’America Latina. Nei successivi otto anni il commercio è cresciuto a un tasso medio annuo del 31% raggiungendo un valore di 180 miliardi di dollari nel 2010. Nel 2021, ha totalizzato la cifra record di 450 miliardi, rimasta praticamente invariata nel 2022, ma alcuni economisti prevedono che potrebbe superare i 700 miliardi entro il 2035.Le esportazioni dell’America Latina verso la Cina riguardano principalmente soia, rame, petrolio e altre materie prime di cui il Paese ha sempre bisogno per guidare il suo sviluppo industriale. In cambio, la regione importa principalmente prodotti manifatturieri ad alto valore aggiunto, un commercio che, secondo alcuni esperti, ha indebolito le industrie locali con beni cinesi più economici. A partire dal 2023, Pechino ha accordi di libero scambio in vigore con Cile, Costa Rica, Ecuador e Perù mentre sono in corso colloqui su un accordo di libero scambio con l’Uruguay.Anche gli investimenti diretti esteri cinesi (Ofdi) e i prestiti svolgono un ruolo importante nel rafforzare i legami con la regione. Tanto che nel 2022, gli Ofdi cinesi in America Latina e nei Caraibi ammontavano a circa 12 miliardi di dollari, ovvero circa il 9% degli Ofdi totali della regione. Contemporaneamente, la China Development Bank di proprietà statale e la Export-Import Bank of China sono tra i principali finanziatori della regione; tra il 2005 e il 2020, insieme hanno erogato sotto forma di di prestiti circa 137 miliardi di dollari ai governi dell’America Latina, spesso in cambio di petrolio e utilizzati per finanziare progetti energetici e infrastrutturali. Solo nel 2022, i prestiti sono arrivati a 813 milioni di dollari. Il Venezuela è di gran lunga il maggiore mutuatario e attualmente i prestiti statali cinesi sono arrivati a circa 60 miliardi di dollari (soldi che non potranno mai restituire), principalmente relativi all’energia e alle infrastrutture. Si tratta di quasi il doppio dell’importo previsto per il secondo maggiore mutuatario, il Brasile. Non curandosi delle sanzioni americane, il Venezuela ha utilizzato il suo petrolio per ripagare miliardi di dollari di debito con la Cina. Milioni di barili di petrolio venezuelano sono stati rinominati e spediti in Cina, secondo un rapporto Reuters del 2022. La Cina è un membro votante della Banca interamericana di sviluppo e della Banca di sviluppo dei Caraibi. Tuttavia, questi legami hanno sollevato alcune preoccupazioni anche tra i governi regionali. Sebbene i prestiti cinesi abbiano spesso meno condizioni allegate, la dipendenza da essi - come abbiamo più volte scritto - può spingere Paesi economicamente instabili come il Venezuela nella «trappola del debito» che porta inevitabilmente al default e ora diversi Paesi dell’America Latina stanno provando a rinegoziare i termini del proprio debito. I critici affermano che le aziende cinesi adottano standard ambientali e lavorativi più bassi e avvertono che il crescente controllo della Cina su infrastrutture critiche come i porti e le reti energetiche pone rischi per la sicurezza nazionale. Si teme inoltre una crescente dipendenza economica in paesi come il Cile, che nel 2021 ha inviato alla Cina esportazioni per un valore di oltre 36 miliardi di dollari, ovvero circa il 38% del totale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sud-america-investimenti-2666363082.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-narcos-conquistano-altri-stati" data-post-id="2666363082" data-published-at="1701088045" data-use-pagination="False"> I narcos «conquistano» altri Stati Lo scorso 27 ottobre 90 agenti di polizia, 22 veicoli e idranti sono stati dispiegati nella periferia di Santiago, capitale del Cile. Erano lì per monitorare il funerale di una ragazza legata ai narcos locali, deceduta qualche giorno prima. Come raccontato da The Economist eventi di questo genere solo poco tempo fa erano impensabili in Cile che per decenni è stato considerato uno dei Paesi più sicuri dell’America Latina. Ma tutto è cambiato, tanto che tra maggio 2019 e settembre 2023 i narcotrafficanti hanno celebrato 2.000 funerali di questo tipo, secondo il presidente Gabriel Boric che ha presentato al Congresso un disegno di legge volto a limitarli. Oggi la mappa degli omicidi in America Latina sta cambiando. Il tasso di omicidi nella regione è in calo dal 2017 ma Paesi come il Messico e il Brasile ospitano ancora alcune delle città con il più alto tasso di omicidi del mondo. Quello che sta cambiando rapidamente è il tasso di omicidi che sta raggiungendo livelli record in Paesi un tempo sicuri, tra cui l’Ecuador, il Costa Rica e il Cile travolti dal traffico di droga, armi e migrazioni fenomeni che stanno alimentando la violenza. Fino al 2018 L’Ecuador, Paese andino di 17 milioni di persone, esportava petrolio e pesce e aveva il quarto tasso di omicidi più basso in America Latina, con 5,8 omicidi ogni 100.000 persone. Oggi invece il tasso supera 35 omicidi ogni 100.000 persone ed è già più alto di quello del Messico e del Brasile, dove gruppi criminali uccidono impunemente, facendo esplodere autobombe e appendendo i cadaveri ai ponti come monito a chi sgarra. La cocaina è la causa principale dei problemi dell’Ecuador. Per decenni il Paese è stato per lo più ignorato dai trafficanti internazionali di droga. Quando i porti colombiani hanno rafforzato la loro sicurezza, i criminali hanno cercato rotte di spedizione alternative. I porti scarsamente monitorati dell’Ecuador sono diventati ancora più attraenti dopo il 2009, quando Rafael Correa, un esponente di sinistra, allora presidente, ha distrutto le difese del Paese chiudendo una base navale americana e, di conseguenza, ponendo fine alla cooperazione con la Drug Enforcement Administration americana. Drammatica la situazione in Costa Rica dove quest’anno gli omicidi raggiungeranno il record di 17 ogni 100.000 persone, rispetto agli 11 ogni 100.000 persone di tre anni fa. L’aumento della produzione di cocaina in Colombia, dove negli ultimi anni sono state raccolte quantità record di foglie di coca, si traduce in maggiori spedizioni in arrivo in Costa Rica, afferma Álvaro Ramos, ex ministro della Sicurezza. Ma non c’è solo la cocaina dietro agli omicidi perché la cannabis illegale è un grande business in Costa Rica: il 3% dei residenti dichiara di consumarla mensilmente, uno dei tassi di consumo più alti in America Centrale. Molte bande preferiscono l’«erba» alla «coca», i sequestri di cannabis sono triplicati tra il 2018 e il 2021. Spostare la roba bianca è difficile: richiede contatti e funzionari corrotti (ce ne sono relativamente pochi in Costa Rica). Al contrario, la marijuana ha poche barriere all’ingresso e può essere venduta ovunque. Lo Stato non è in grado di contrastare il fenomeno dato che il Costa Rica ha abolito le sue forze armate nel 1949. Rodrigo Chaves, il presidente, incolpa la situazione delle amministrazioni passate e della magistratura. Secondo lui il Paese non ha abbastanza polizia, le leggi sono obsolete e il sistema giudiziario è troppo indulgente nei confronti dei criminali. In Cile l’anno scorso il tasso di omicidi ha raggiunto il record di 6,7 ogni 100.000 persone. Si tratta di un valore molto al di sotto dei Paesi vicini e vicino al tasso degli Stati Uniti, pari a 6,3. Ma come attestano i narcofunerali, la criminalità sta aumentando molto e oggi vengono sequestrate più cocaina e cannabis che mai. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sud-america-investimenti-2666363082.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="pechino-ora-riduce-i-propri-investimenti-leuropa-ha-spazio" data-post-id="2666363082" data-published-at="1701088045" data-use-pagination="False"> «Pechino ora riduce i propri investimenti. L’Europa ha spazio» Antonella Mori insegna economia alla Bocconi ed è a capo del Programma America Latina dell’Ispi. Come sta economicamente e politicamente l’America Latina? «La regione si sta riprendendo dalla crisi economica dovuta alla pandemia, la crescita è tornata positiva per quasi tutti i Paesi. Anche la povertà è tornata ai livelli pre-pandemia, anche se rimane alta, pari al 29% della popolazione. È invece un momento molto difficile per l’Argentina che è in recessione, con il tasso d’inflazione che a fine anno potrebbe superare il 200% e la povertà il 40% degli argentini. Da un punto di vista politico, c’è la buona notizia che sono ripresi i negoziati affinché le elezioni presidenziali in Venezuela del prossimo anno si svolgano in modo libero e veramente democratico. Rimane invece molto pronunciata la deriva illiberale del Nicaragua e molto complessa la crisi istituzionale ad Haiti. Il resto dei paesi, tranne ovviamente Cuba, sono democratici, anche se spesso con istituzioni deboli e corruzione diffusa». È vero che la Cina ha soppiantato gli Stati Uniti come potenza di riferimento? «Per molti Paesi, tra cui il Brasile, la Cina è diventata il primo partner commerciale. Ventuno Paesi hanno aderito alla Via della Seta cinese, ma non il Brasile e il Messico, che sono le economie più grandi della regione. Negli ultimi anni però la Cina ha ridotto considerevolmente i prestiti alla regione e la presenza di aziende cinesi nella regione è molto inferiore a quella di imprese americane. Direi che per la maggior parte dei Paesi i rapporti economici e politici con gli Stati Uniti rimangono più importanti di quelli con la Cina». Come farà Javier Milei a tenere fede a tutte le promesse fatte in Argentina, un Paese che è alle prese con una drammatica crisi economica? «Il presidente eletto Milei dovrà iniziare con delle misure di politica economica che siano appoggiate anche dal partito dell’ex-presidente Mauricio Macri, perché ha bisogno dei suoi voti in Parlamento. Il primo obiettivo sarà la riduzione dell’inflazione, che Milei vorrebbe ottenere con la dollarizzazione, cioè la sostituzione della valuta nazionale con il dollaro americano, e la chiusura della Banca centrale. Siccome questa via non sembra perseguibile nei prossimi mesi, solo dopo l’insediamento del nuovo governo si conoscerà con quale alternativa Milei intende procedere». Perché l’Argentina, così ricca di materie prime, si ritrova ciclicamente ad un passo dal default? «Dalla sua indipendenza, l’Argentina ha fatto default nove volte, tre volte dall’inizio del millennio. Si tratta di un caso unico al mondo: agli inizi del Novecento era uno dei Paesi più ricchi, con un livello di reddito pro-capite simile agli Stati Uniti, mentre oggi è meno di un terzo. Non c’è una spiegazione semplice, tanti fattori hanno contribuito a questo peggioramento, tra cui una economia agricola soggetta alla volatilità internazionale di domanda e prezzi, politiche economiche sbagliate, la dittatura». Ad ormai un anno dall’elezione in Brasile di Luiz Inacio Lula da Silva non sembra che «il Lula terzo» sia un successo. Che cosa non sta funzionando? «Nei primi due mandati il presidente Lula aveva governato durante il boom internazionale dei prezzi delle commodities, trainate dalla Cina, che aveva favorito la crescita sostenuta e il miglioramento delle condizioni sociali nel Paese sudamericano. Oggi la situazione è molto diversa: la Cina sta rallentando, la Banca centrale brasiliana mantiene tassi d’interesse elevati per ridurre l’inflazione ma con la conseguenza di deprimere gli investimenti. Secondo le previsioni più recenti del Fondo monetario internazionale il Brasile dovrebbe comunque crescere al 3,1% quest’anno». Come spiega l’ostilità verso Israele di alcuni Paesi dell’America Latina? «Il panorama è variegato, per esempio il neoeletto presidente argentino Milei in campagna elettorale aveva detto che i suoi punti di riferimento internazionali saranno gli Stati Uniti e Israele». L’Unione europea potrebbe fare di più nei rapporti con l’America Latina anche dal punto di vista degli investimenti? «La presenza di aziende europee in America Latina è storicamente elevata, anzi il totale degli investimenti di aziende dell’Unione europea supera gli investimenti americani. Nelle prossime settimane si saprà se verrà finalmente firmato l’Accordo di associazione tra l’Unione Europea e il Mercosur, il blocco d’integrazione di cui fanno parte l’Argentina, il Brasile, il Paraguay e l’Uruguay. Questo accordo, che include anche la liberalizzazione commerciale, potrebbe essere un ulteriore stimolo alla internazionalizzazione delle imprese europee nei Paesi del Mercosur».
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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