2023-04-02
Lo studio: il long Covid non esiste
Ricerca norvegese pubblicata sulla prestigiosa rivista medica «Jama»: stessi sintomi tra chi si è infettato e chi invece non ha mai avuto il virus. E l’ipotesi più probabile secondo gli scienziati è che la sindrome sia indotta da fattori psicologici legati alle restrizioni.È diventata, a sentire gli allarmi dell’Oms Europa di due settimane fa, la «pandemia ombra». Secondo Stella Kyriakides, commissario Ue alla Salute, negli Stati membri, questa sindrome ha già colpito 17 milioni di persone. Ma se invece il long Covid non c’entrasse nulla con il Covid?È qui che vanno a parare le conclusioni di uno studio condotto in Norvegia e appena pubblicato sul Jama network open, la prestigiosa rivista ad accesso libero collegata all’American medical association. La ricerca ha coinvolto 382 individui che avevano ricevuto un tampone molecolare positivo al coronavirus e 85 persone come gruppo di controllo. Tutti soggetti di età compresa tra 12 e 25 anni, seguiti per sei mesi e sottoposti a esami clinici, accertamenti polmonari e cardiaci, test delle funzioni cognitive, analisi immunologiche e dei marcatori che segnalano danni agli organi, oltre che a una serie di questionari. Con questo metodo, sono stati selezionati ben 78 potenziali fattori di rischio per lo sviluppo dei temuti postumi del contagio da Sars-Cov-2. Numeri piccoli, ma significativi.Applicando i parametri in base ai quali l’Organizzazione mondiale della sanità definisce la «malattia post Covid» (Pcc, secondo la sigla in inglese), si è scoperto che i disturbi erano presenti nel 49% dei ragazzi infettati, ma anche nel 47% di quelli risultati sempre negativi. Ergo, non aveva granché a che vedere con il virus cinese. «La Pcc», spiegano gli autori dell’indagine, «non era associata a marcatori biologici specifici dell’infezione virale, ma alla gravità iniziale dei sintomi e a fattori psicologici». In sostanza, chi stava peggio dopo essersi contagiato e chi aveva patito più stress durante la pandemia, magari a causa delle restrizioni e dei lockdown, o del clima pesante che si era instaurato per via della comunicazione ansiogena di autorità politiche, scientifiche e media, aveva più probabilità di contrarre il cosiddetto long Covid. Una sindrome, peraltro, dai contorni vaghi: lo studio del Jama sottolinea che la dicitura dell’Oms «comprende qualunque sintomo ricorra come postumo del Covid acuto, non richiede la persistenza del sintomo dall’evento infettivo e non identifica una disabilità significativa». Il punto, osservano gli scienziati nordeuropei, è che i malanni collegati alla Pcc «sono comuni nella popolazione generale». Ad esempio, l’affanno è stato riscontrato in una percentuale di adolescenti britannici oscillante tra il 34 e il 38%. In più, «numerosi studi hanno documentato un aumento significativo nella sofferenza psicologica della popolazione generale durante la pandemia», un problema che ha attanagliato in forma ancor maggiore proprio i giovani. Ed è su questo aspetto che ragionano gli estensori del paper, i quali, pur ammettendo che il long Covid «non è tutto nella mente», affermano che la possibilità che i diktat peggiorino la salute della gente e la sua capacità di reagire alla malattia «dovrebbe essere presa in considerazione, quando vengono adottate contromisure sociali per contrastare i focolai d’infezione, tipo i lockdown». Nell’impossibilità di trovare, nonostante gli esami clinici certosini, un elemento fisiologico chiaramente correlabile ai postumi del contagio, diventa inevitabile cercare spiegazioni altrove. Ovvero, nel disagio interiore dei pazienti che presentano sofferenze croniche. Già a settembre 2022, effettivamente, era uscito, su Jama psychiatry, un articolo che dava conto di un’indagine svolta su 54.000 operatori sanitari alla Harvard University. I ricercatori avevano dimostrato che depressione, ansia, stress percepito, solitudine e preoccupazione per il Covid stesso, se presenti prima di entrare in contatto con il virus, tendevano ad accompagnarsi a manifestazioni più gravi della malattia e a una persistenza dei suoi sintomi ben oltre la guarigione. E indipendentemente da altri fattori di rischio, come il fumo, l’asma e altre patologie pregresse. La vulnerabilità al long Covid cresceva addirittura tra il 32 e il 46%. In parole povere: la paura del Covid provocava il long Covid. L’analisi norvegese non fa che confermare questo scenario, tanto più disturbante, se si ricorda che - sono parole della Kyriakides - l’Europa fino ad oggi ha stanziato 100 milioni per terapie mirate. Di recente, un paper di Lancet ha candidato un farmaco per il diabete tra i potenziali trattamenti efficaci. Cure - è ormai l’ipotesi surreale - per una malattia almeno in parte provocata dagli stessi talebani della pandemia, dalla loro propaganda allarmistica e martellante.Pensare che proprio gli interminabili strascichi del Sars-Cov-2 erano uno degli spauracchi più abusati dai promoter del vaccino, per convincere i giovanissimi a porgere il braccio. A maggio del 2021, Anthony Fauci, ora consulente del Biotecnopolo di Siena, catechizzava così ragazzi: «Evitare la possibilità di avere per mesi i sintomi del Covid è una ragione fondamentale per cui considerare di farsi vaccinare», visto che la sindrome colpiva una persona su cinque tra i 18 e i 34 anni. L’appello del virologo della Casa Bianca fu prontamente rilanciato da Medical facts, il sito di «informazione» (le virgolette non sono casuali) di Roberto Burioni. Prima creano le condizioni perché la gente si ammali; poi le chiedono di vaccinarsi per schivare la malattia; e infine spendono milioni (nostri) per curarla. Una manna dal cielo, questi esperti.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)