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2019-03-30
Stretta della Chiesa sulle molestie. Obbligo di denunciare tutti gli abusi
Ansa
A sette mesi dalla pubblicazione del memoriale Viganò arriva una prima risposta concreta al dramma degli abusi. I tre documenti firmati dal Papa e pubblicati ieri arrivano a un mese dal termine del summit sulla protezione di minori avvenuto in Vaticano con tutti i capi dei vescovi del mondo dal 21 al 24 febbraio. Erano stati annunciati passi concreti, ed ecco quindi norme e linee guida che traducono nei fatti l'azione della Chiesa per contrastare la piaga degli abusi del clero.
I testi, di cui uno in forma di Motu proprio, riguardano soltanto lo Stato del Vaticano. La legge CCXCVII ha la natura di legge penale (non canonica) e introduce alcune importanti novità, innanzitutto all'articolo 3 si parla di «obbligo di denuncia» per «il pubblico ufficiale, che nell'esercizio delle sue funzioni abbia notizia o fondati motivi per ritenere che un minore sia vittima», fatto salvo «il sigillo sacramentale», vale a dire il segreto confessionale. Chi non lo fa sarà sanzionato e la norma riguarda la stragrande maggioranza delle persone che lavorano nella curia romana e per la Santa sede, comprese le nunziature in giro per il mondo: tutti, infatti, svolgono un ruolo di «pubblico ufficiale» e ora sono obbligati, come recita il Motu proprio, «a presentare, senza ritardo, denuncia al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano». Il principio è quello di far maturare «in tutti», si legge ancora nel Motu proprio, «la consapevolezza del dovere di segnalare gli abusi alle Autorità competenti e di cooperare con esse nelle attività di prevenzione e contrasto».
Alla categoria del «minore» si equipara quella di «adulto vulnerabile» (articolo 1), che viene definito come «ogni persona in stato d'infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all'offesa». Per tutti i reati in questione (dalla violenza sessuale agli atti sessuali su minori, fino alla detenzione di materiale pedopornografico) si prevede la procedibilità d'ufficio, cioè anche in assenza di denuncia di parte. Viene quindi introdotta una prescrizione di vent'anni che, nel caso di vittima minorenne, inizia a decorrere dal compimento della maggiore età, un termine ben più lungo rispetto a quello finora vigente che era di quattro anni dal compimento del reato. Nello stesso tempo si istituisce, nell'ambito della Direzione vaticana di Sanità e Igiene, un Servizio di accompagnamento per le vittime di abusi.
Queste sono novità che, ha dichiarato il giudice del Tribunale vaticano Carlo Bronzano a Vatican news, «si sostanziano in istituti finora inediti, che introducono strumenti sempre più moderni ed efficaci». Anche nel reclutamento del personale si sottolinea il principio per cui «deve essere accertata l'idoneità del candidato ad interagire con i minori».
Quest'ultimo passaggio è articolato anche nelle Linee guida, sempre firmate dal Papa, e valide per il Vicariato della Città del Vaticano. Gli operatori pastorali, tra l'altro, devono evitare di «instaurare un rapporto preferenziale con un singolo minore; assumere comportamenti inappropriati o sessualmente allusivi; pubblicare o diffondere anche via web o social network immagini che ritraggano in modo riconoscibile un minore senza il consenso dei genitori o tutori». Chiunque sia dichiarato colpevole «sarà rimosso dai suoi incarichi» e se sacerdote incorrerà in tutto quanto già previsto dalle norme canoniche.
Nel Motu proprio si precisa che deve essere garantito «agli imputati il diritto a un processo equo e imparziale, nel rispetto della presunzione di innocenza, nonché dei principi di legalità e di proporzionalità fra il reato e la pena». E, in questo senso, deve essere fatto «tutto il possibile per riabilitare la buona fama di chi sia stato accusato ingiustamente». L'obiettivo generale di tutte queste norme pubblicate ieri, spiega Bronzano a Vatican news, è quello «di garantire una tutela effettiva dei diritti dei minori e, più in generale, delle persone vulnerabili, prevenendo ogni forma di aggressione nei loro confronti e reprimendo, con assoluto rigore e massima priorità, ogni condotta illecita in loro danno». Nessun cenno esplicito, nel documento, viene fatto al tema dell'omosessualità nel clero, pur sollevato da Viganò.
Secondo monsignor Charles Scicluna, un protagonista del summit del febbraio scorso in Vaticano, le linee guida pastorali valide per il Vaticano potrebbero servire come esempio e modello per le conferenze episcopali nel mondo. A questi documenti, che entreranno in vigore dal giugno prossimo, seguirà, come annunciato al summit dei vescovi, un vademecum anti abusi pubblicato dalla congregazione per la Dottrina della fede valido per la chiesa universale.
«L’acceleratore di luce leggerà i misteri dell’universo»
Nel 1989 cade il muro di Berlino, e con esso, la cortina di ferro. Nello stesso anno nasce il Web, che abbatterà molti «muri» costituiti dalla distanza fisica, spaziale. Il luogo in cui questo accade è il Cern di Ginevra. È grazie a questa invenzione che posso intervistare un «mostro» della scienza contemporanea, il professor Lucio Rossi, via Skype. Rossi è un fisico italiano già responsabile dei magneti superconduttori del mitico acceleratore di particelle, detto Large hadron collider (Lhc) del Cern: è uno dei protagonisti della scoperta del Bosone di Higgs, noto al pubblico con un'espressione più mediatica che scientifica: la particella di Dio. Ora dirige il progetto Lhc ad alta luminosità, volto a aumentare considerevolmente le prestazioni di Lhc.
Ci può descrivere in poche parole cosa è il Cern?
«Cern sta per European organization for nuclear research, organizzazione internazionale e intergovernativa per la ricerca in fisica nucleare e in fisica delle particelle. L'idea di base è mettere in comune le risorse per poter fare delle infrastrutture significative, con i grandi strumenti scientifici che il singolo Stato non può permettersi. Il Cern ha 22 Stati membri, di cui 21 europei, più Israele. Ci sono poi otto Stati associati, come India, Pakistan, Turchia e Ucraina, e tre Stati osservatori: Usa, Federazione Russa e Giappone. Inoltre cooperano una cinquantina di Stati, come l'Albania, l'Egitto, il Brasile e molti altri».
Il direttore generale è un'italiana, Fabiola Gianotti. Qual è il nostro ruolo?
«Uno dei padri fondatori è il fisico Edoardo Amaldi, primo segretario generale del Cern tra il 1952 e il 1954. Gli italiani amano collaborare, hanno una buona preparazione universitaria, che permette loro di avere spesso molto successo. D'altra parte le condizioni per la ricerca in Italia sono difficili e i nostri laboratori sono di taglia media. Veniamo dunque molto volentieri al Cern, portando nel nostro Dna l'amore per la scienza, retaggio della nostra cultura cristiana, quella da cui sono sorte le scuole e le università, che si fonda sulla convinzione che conoscere sia un'esperienza fondamentale dell'essere umano».
Qual è il compito del «suo» acceleratore?
«Prendiamo delle particelle molto piccole, le acceleriamo arrivando vicino, molto vicino alla velocità della luce, e le facciamo incrociare, collidere, l'una contro l'altra. Ricreiamo così delle concentrazioni di energia che esistevano nell'universo primordiale: andiamo verso il Big bang, gettiamo luce sull'origine dell'universo, che nel frattempo si è molto raffreddato. Questo ci permette di conoscere bene di quali mattoni e forze è fatto l'edificio dell'universo. Certo, da un lato conosciamo molto bene le cose che possiamo vedere, ma abbiamo capito che c'è qualcosa di molto importante che ci sfugge, per esempio la materia oscura, così detta perché non la vediamo. Ma non basta accelerare e far scontrare le particelle, ci vogliono anche occhi che vedono (i rilevatori di particelle), una notevole potenza di calcolo e tantissima teoria fisica per interpretare gli eventi».
Quali devono essere le virtù dello scienziato?
«Ci vogliono doti di natura, occorre masticare la matematica, avere un qualche intuito in fisica. Poi ci vuole la curiosità dei bambini, perché ci permette di porci delle domande. Il dubbio sistematico non porta a nulla. Al contrario, lo scienziato persegue in modo religiosamente fanatico delle intuizioni, delle idee. Domanda è per me sinonimo di apertura al mondo: attirati, catturati dalle bellezze del cosmo, ci domandiamo come e perché».
Vengono in mente i pionieri della scienza sperimentale, uomini inclini alla ricerca filosofica e teologica, spesso molto religiosi...
«Certamente, perché la religione dà, o cerca di dare delle risposte a delle domande . Chi è religioso ricerca il senso e vuole comprenderlo in modo sempre più approfondito. Le verità della fede, infatti, non sono statiche: vanno penetrate sempre più, perché avendo a che fare con l'essenza dell'umano sono inesauribili. Anche nella scienza accade qualcosa di analogo: la teoria sulla gravitazione di Isaac Newton è stata superata da quella di Albert Einstein e un domani avremo una teoria che sopravanzerà quella del fisico tedesco. Qui al Cern abbiamo trovato il bosone di Higgs, che poteva sembrare un punto di arrivo. E invece no, abbiamo delle discrepanze che ci spingono ad andare oltre».
Oggi gli scienziati non sono più religiosi come un tempo…
«Anche oggi molti scienziati hanno un senso religioso, del mistero. Che per me si identifica con Dio. Una volta c'erano persone religiose solo per moda culturale; oggi l'onda culturale va in un'altra direzione e ci si adegua. Difficile però trovare scienziati che si dichiarano fermamente atei; molti oggi preferiscono non esporsi, altri si definiscono agnostici o indifferenti. Siamo in un tempo di pensiero debole».
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A sette mesi dal memoriale Viganò, il Papa firma tre documenti: previste sanzioni per chi tace sulle violenze, i colpevoli saranno rimossi dagli incarichi. Divieto di comportamenti allusivi con i minori e no a foto sul Web.«L'acceleratore di luce leggerà i misteri dell'universo». Lo scienziato del Cern Lucio Rossi è stato nella squadra del Bosone di Higgs: «Non c'è mai un punto di arrivo, cerchiamo l'assoluto e Dio» .Lo speciale comprende due articoli.A sette mesi dalla pubblicazione del memoriale Viganò arriva una prima risposta concreta al dramma degli abusi. I tre documenti firmati dal Papa e pubblicati ieri arrivano a un mese dal termine del summit sulla protezione di minori avvenuto in Vaticano con tutti i capi dei vescovi del mondo dal 21 al 24 febbraio. Erano stati annunciati passi concreti, ed ecco quindi norme e linee guida che traducono nei fatti l'azione della Chiesa per contrastare la piaga degli abusi del clero.I testi, di cui uno in forma di Motu proprio, riguardano soltanto lo Stato del Vaticano. La legge CCXCVII ha la natura di legge penale (non canonica) e introduce alcune importanti novità, innanzitutto all'articolo 3 si parla di «obbligo di denuncia» per «il pubblico ufficiale, che nell'esercizio delle sue funzioni abbia notizia o fondati motivi per ritenere che un minore sia vittima», fatto salvo «il sigillo sacramentale», vale a dire il segreto confessionale. Chi non lo fa sarà sanzionato e la norma riguarda la stragrande maggioranza delle persone che lavorano nella curia romana e per la Santa sede, comprese le nunziature in giro per il mondo: tutti, infatti, svolgono un ruolo di «pubblico ufficiale» e ora sono obbligati, come recita il Motu proprio, «a presentare, senza ritardo, denuncia al promotore di giustizia presso il tribunale dello Stato della Città del Vaticano». Il principio è quello di far maturare «in tutti», si legge ancora nel Motu proprio, «la consapevolezza del dovere di segnalare gli abusi alle Autorità competenti e di cooperare con esse nelle attività di prevenzione e contrasto».Alla categoria del «minore» si equipara quella di «adulto vulnerabile» (articolo 1), che viene definito come «ogni persona in stato d'infermità, di deficienza fisica o psichica, o di privazione della libertà personale che di fatto, anche occasionalmente, ne limiti la capacità di intendere o di volere o comunque di resistere all'offesa». Per tutti i reati in questione (dalla violenza sessuale agli atti sessuali su minori, fino alla detenzione di materiale pedopornografico) si prevede la procedibilità d'ufficio, cioè anche in assenza di denuncia di parte. Viene quindi introdotta una prescrizione di vent'anni che, nel caso di vittima minorenne, inizia a decorrere dal compimento della maggiore età, un termine ben più lungo rispetto a quello finora vigente che era di quattro anni dal compimento del reato. Nello stesso tempo si istituisce, nell'ambito della Direzione vaticana di Sanità e Igiene, un Servizio di accompagnamento per le vittime di abusi.Queste sono novità che, ha dichiarato il giudice del Tribunale vaticano Carlo Bronzano a Vatican news, «si sostanziano in istituti finora inediti, che introducono strumenti sempre più moderni ed efficaci». Anche nel reclutamento del personale si sottolinea il principio per cui «deve essere accertata l'idoneità del candidato ad interagire con i minori».Quest'ultimo passaggio è articolato anche nelle Linee guida, sempre firmate dal Papa, e valide per il Vicariato della Città del Vaticano. Gli operatori pastorali, tra l'altro, devono evitare di «instaurare un rapporto preferenziale con un singolo minore; assumere comportamenti inappropriati o sessualmente allusivi; pubblicare o diffondere anche via web o social network immagini che ritraggano in modo riconoscibile un minore senza il consenso dei genitori o tutori». Chiunque sia dichiarato colpevole «sarà rimosso dai suoi incarichi» e se sacerdote incorrerà in tutto quanto già previsto dalle norme canoniche.Nel Motu proprio si precisa che deve essere garantito «agli imputati il diritto a un processo equo e imparziale, nel rispetto della presunzione di innocenza, nonché dei principi di legalità e di proporzionalità fra il reato e la pena». E, in questo senso, deve essere fatto «tutto il possibile per riabilitare la buona fama di chi sia stato accusato ingiustamente». L'obiettivo generale di tutte queste norme pubblicate ieri, spiega Bronzano a Vatican news, è quello «di garantire una tutela effettiva dei diritti dei minori e, più in generale, delle persone vulnerabili, prevenendo ogni forma di aggressione nei loro confronti e reprimendo, con assoluto rigore e massima priorità, ogni condotta illecita in loro danno». Nessun cenno esplicito, nel documento, viene fatto al tema dell'omosessualità nel clero, pur sollevato da Viganò.Secondo monsignor Charles Scicluna, un protagonista del summit del febbraio scorso in Vaticano, le linee guida pastorali valide per il Vaticano potrebbero servire come esempio e modello per le conferenze episcopali nel mondo. A questi documenti, che entreranno in vigore dal giugno prossimo, seguirà, come annunciato al summit dei vescovi, un vademecum anti abusi pubblicato dalla congregazione per la Dottrina della fede valido per la chiesa universale.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/stretta-della-chiesa-sulle-molestie-obbligo-di-denunciare-tutti-gli-abusi-2633172359.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lacceleratore-di-luce-leggera-i-misteri-delluniverso" data-post-id="2633172359" data-published-at="1766783690" data-use-pagination="False"> «L’acceleratore di luce leggerà i misteri dell’universo» Nel 1989 cade il muro di Berlino, e con esso, la cortina di ferro. Nello stesso anno nasce il Web, che abbatterà molti «muri» costituiti dalla distanza fisica, spaziale. Il luogo in cui questo accade è il Cern di Ginevra. È grazie a questa invenzione che posso intervistare un «mostro» della scienza contemporanea, il professor Lucio Rossi, via Skype. Rossi è un fisico italiano già responsabile dei magneti superconduttori del mitico acceleratore di particelle, detto Large hadron collider (Lhc) del Cern: è uno dei protagonisti della scoperta del Bosone di Higgs, noto al pubblico con un'espressione più mediatica che scientifica: la particella di Dio. Ora dirige il progetto Lhc ad alta luminosità, volto a aumentare considerevolmente le prestazioni di Lhc. Ci può descrivere in poche parole cosa è il Cern? «Cern sta per European organization for nuclear research, organizzazione internazionale e intergovernativa per la ricerca in fisica nucleare e in fisica delle particelle. L'idea di base è mettere in comune le risorse per poter fare delle infrastrutture significative, con i grandi strumenti scientifici che il singolo Stato non può permettersi. Il Cern ha 22 Stati membri, di cui 21 europei, più Israele. Ci sono poi otto Stati associati, come India, Pakistan, Turchia e Ucraina, e tre Stati osservatori: Usa, Federazione Russa e Giappone. Inoltre cooperano una cinquantina di Stati, come l'Albania, l'Egitto, il Brasile e molti altri». Il direttore generale è un'italiana, Fabiola Gianotti. Qual è il nostro ruolo? «Uno dei padri fondatori è il fisico Edoardo Amaldi, primo segretario generale del Cern tra il 1952 e il 1954. Gli italiani amano collaborare, hanno una buona preparazione universitaria, che permette loro di avere spesso molto successo. D'altra parte le condizioni per la ricerca in Italia sono difficili e i nostri laboratori sono di taglia media. Veniamo dunque molto volentieri al Cern, portando nel nostro Dna l'amore per la scienza, retaggio della nostra cultura cristiana, quella da cui sono sorte le scuole e le università, che si fonda sulla convinzione che conoscere sia un'esperienza fondamentale dell'essere umano». Qual è il compito del «suo» acceleratore? «Prendiamo delle particelle molto piccole, le acceleriamo arrivando vicino, molto vicino alla velocità della luce, e le facciamo incrociare, collidere, l'una contro l'altra. Ricreiamo così delle concentrazioni di energia che esistevano nell'universo primordiale: andiamo verso il Big bang, gettiamo luce sull'origine dell'universo, che nel frattempo si è molto raffreddato. Questo ci permette di conoscere bene di quali mattoni e forze è fatto l'edificio dell'universo. Certo, da un lato conosciamo molto bene le cose che possiamo vedere, ma abbiamo capito che c'è qualcosa di molto importante che ci sfugge, per esempio la materia oscura, così detta perché non la vediamo. Ma non basta accelerare e far scontrare le particelle, ci vogliono anche occhi che vedono (i rilevatori di particelle), una notevole potenza di calcolo e tantissima teoria fisica per interpretare gli eventi». Quali devono essere le virtù dello scienziato? «Ci vogliono doti di natura, occorre masticare la matematica, avere un qualche intuito in fisica. Poi ci vuole la curiosità dei bambini, perché ci permette di porci delle domande. Il dubbio sistematico non porta a nulla. Al contrario, lo scienziato persegue in modo religiosamente fanatico delle intuizioni, delle idee. Domanda è per me sinonimo di apertura al mondo: attirati, catturati dalle bellezze del cosmo, ci domandiamo come e perché». Vengono in mente i pionieri della scienza sperimentale, uomini inclini alla ricerca filosofica e teologica, spesso molto religiosi... «Certamente, perché la religione dà, o cerca di dare delle risposte a delle domande . Chi è religioso ricerca il senso e vuole comprenderlo in modo sempre più approfondito. Le verità della fede, infatti, non sono statiche: vanno penetrate sempre più, perché avendo a che fare con l'essenza dell'umano sono inesauribili. Anche nella scienza accade qualcosa di analogo: la teoria sulla gravitazione di Isaac Newton è stata superata da quella di Albert Einstein e un domani avremo una teoria che sopravanzerà quella del fisico tedesco. Qui al Cern abbiamo trovato il bosone di Higgs, che poteva sembrare un punto di arrivo. E invece no, abbiamo delle discrepanze che ci spingono ad andare oltre». Oggi gli scienziati non sono più religiosi come un tempo… «Anche oggi molti scienziati hanno un senso religioso, del mistero. Che per me si identifica con Dio. Una volta c'erano persone religiose solo per moda culturale; oggi l'onda culturale va in un'altra direzione e ci si adegua. Difficile però trovare scienziati che si dichiarano fermamente atei; molti oggi preferiscono non esporsi, altri si definiscono agnostici o indifferenti. Siamo in un tempo di pensiero debole».
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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