2023-11-10
Domani a Malaga il summit decisivo. Storia di Edi, compagno «fedifrago»
Retromarcia (e figuraccia) di Giuseppe Provenzano che prima caldeggia il siluramento del politico dei Balcani, poi rettifica: «Non siamo i buttafuori del Pse». Da Romano Prodi a Matteo Renzi: dem in fila per l’uomo forte di Tirana.Sulla «Stampa» l’indizio della guerriglia giudiziaria per sabotare l’accordo sui Cpr: basterà una Apostolico a bloccare tutto. E la politica, così, perderà ogni autonomia.Lo speciale contiene due articoli.S’erano tanto amati. Anzi, tantissimo. Ma adesso la love story tra la sinistra italiana e il premier albanese è finita malamente. Edi Rama fuori dal gruppo: il rinomato partito socialista europeo, per intendersi. Con una sdegnata intervista a Repubblica, Peppe Provenzano, responsabile Esteri del Pd, protocolla la richiesta. Urgentissima. Già domani, a Malaga, l’incombenza sarebbe sottoposta ai demiurghi progressisti: dal primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, al cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Ordine del giorno: visto il periglioso collaborazionismo con il nemico sovranista, il compagno Edi e il suo Pssh vanno esemplarmente puniti.Fatale fu l’accordo con la collega italiana, Giorgia Meloni. Prevede di spostare parte dei migranti intercettati dalle navi italiane, fino a 36.000 l’anno, in strutture attrezzate nel porto di Shengjin e a Gjader. «Viola il diritto internazionale!» prorompe la segretaria dem, Elly Schlein. «E anche i valori della famiglia socialista!», sobilla Provenzano. Che già gongola pensando alla paventata espulsione: «Per Rama l’iter dovrebbe essere spedito, considerato che è un semplice osservatore e l’Albania non fa parte dell’Ue». Richiamato all’ordine, l’ex ministro è però costretto a rettificare: «Il Pd non è il buttafuori del Pse». Insomma: lui, Elly e la brancaleonica armata contano pochino in Italia. Figurarsi in Europa. Comunque, sfuma Peppe, «alla presidenza del Pse porremo la questione delle compatibilità tra questo genere di accordi e i valori del socialismo europeo». Anzi, ancora meno: «Una linea comune».Resta lo scorno. Da adorato a reietto. Il caro Edi spalleggia l’atroce Giorgia. Non gli hanno chiarito che gli avversari politici vanno osteggiati sempre e comunque? O pensa di fare come il piddino Francesco Boccia che s’è maritato l’ex ministra forzista Nunzia De Girolamo? Qualunque sia la stravagante motivazione che l’ha convinto ad aiutare l’Italia, una cosa è però certa: al Nazareno pensavano fosse amore, invece è un calesse. Il passato, però, non si dimentica. Rama è in carica dal 2013. Anni di passione, preceduti da una corte serrata. I premier di centro sinistra non hanno mai nascosto i loro sentimenti. E sono sempre stati ricambiati con slancio. Nemmeno si comincia a discutere dell’ingresso del Paese nell’Ue che l’allora presidente del Consiglio, Enrico Letta, già scalpita: «Per noi non c’è nessun dubbio. Ci sono le condizioni per un risultato positivo» informa a dicembre 2013. «Abbiamo valutato forme e modi per un lavoro di convincimento verso alcuni Paesi che hanno ancora resistenze su dossier e aspetti particolari» spiega il Nipotissimo davanti al primo ministro albanese. La Rama story comincia da qui. Un decennio d’infuocato amore. Matteo Renzi, ad esempio, per Edi si prende una vera cotta. A fine 2014 l’ex premier e segretario del Pd si scapicolla a Tirana per una conferenza stampa congiunta più che simbolica: quella che conclude il semestre europeo a guida italiana. «L’Albania è già in Europa», sbaciucchia Matteo. Certo, non formalmente. «Adesso bisogna correre e far sì che i negoziati siano veloci. È importante che il popolo albanese sappia che l’Italia è il primo sponsor di questo progetto». Renzi rimarca i suoi sentimenti, sfidando chi osteggia lo spasimante: «Quelli che mettono in discussione l’ingresso dell’Albania nell’Ue sbagliano tutto». E quando Edi gli regala una cravatta viola in onore della Fiorentina, a Matteo brillano gli occhi: «Oggi in ogni squadra di calcio nel nostro Paese c’è un pulcino di origini albanesi» rivela.Ma anche il cuore del machiavellico Massimo D’Alema palpita per il premier di Tirana. Nel 2018 l’ex leader della sinistra italiana riceve un premio in terra albanese: «Ho il piacere e l’onore di essere amico di Edi Rama» rivendica. «Un rapporto di amicizia e di collaborazione che, insieme a Giuliano Amato, ho coltivato pure con la Fondazione Italiani Europei». Capito? Il generoso compagno Edi se la intende persino con l’algido dottor Sottile. Anche negli anni seguenti, comunque, Baffino non smette di tubare. E quando viene invitato a Tirana per vedere la Roma, che si scontra con il Feyenoord nella finale di Conference League, placidamente ammette come diavolo ha trovato il biglietto: «Sono consulente del governo di Rama: gratuito, ma con il privilegio raro di entrare con la delegazione in tribuna».Sentimento ricambiato, si diceva. Quando, nel 2020, invia 30 medici albanesi in Italia ai tempi del Covid, Edi rimarca l’amicizia per i leader della sinistra tricolore: «Al tempo degli sbarchi sembrava che dovessimo far paura ai bambini. Ma l’amore per l’Italia fa resistere un albanese. E poi, per noi, Romano Prodi e Massimo D’Alema sono due eroi». Anche lui era un eroe. Ma ora ha l’ardire di sostenere Meloni sulla crisi migratoria, mandando la sinistra italiana in cortocircuito. «È paradossale. Come si fa sostenere che l’Albania debba entrare nell’Ue guidata da Rama, ma al contempo chiedere di buttare fuori Rama dalla famiglia socialista?» ironizza Carlo Fidanza, capodelegazione di Fratelli d’Italia a Bruxelles.Già, paradossale. Eppure il premier albanese, pazientemente, spiega: «In pieno rispetto del Pd, vorrei ripetere il mio unico punto di vista. Cercare di aiutare l’Italia in questa situazione, dove nessuno in Europa sembra avere una soluzione condivisibile da tutti, forse non è il massimo, ma è sicuramente il minimo che Tirana deve e può fare! Se poi questo non è di sinistra in Italia, pazienza. Forse è semplicemente giusto». Non gli importa dei dispettucci di Beppe ed Elly. Il fedifrago Edi tira dritto. Insensibile davanti alle patetiche recriminazioni dei vecchi amanti.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/storia-edi-rama-compagno-fedifrago-2666220785.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-toghe-pronte-a-sabotare-il-patto" data-post-id="2666220785" data-published-at="1699571488" data-use-pagination="False"> Le toghe pronte a sabotare il patto Il coniglio dal cilindro tirato fuori da Giorgia Meloni in Albania verrà strozzato dai magistrati. Basta una mezza dozzina di Iolande Apostolico, il varco giusto in Cassazione e una sentenza «riparatoria» della Corte Costituzionale e il gioco è fatto. Da sinistra, e da quei settori dell’opinione pubblica che vedono i migranti come «una risorsa» (magari da sfruttare economicamente), il piano per affossare lo sbarco dei clandestini salvati in mare in Albania è già pronto. Contro il patto con Tirana si scatenerà la controffensiva dei tribunali, per far prevalere l’impostazione «avanti c’è posto» delle toghe. Con tanti saluti ai legittimi spazi di manovra della politica. Non avendo i numeri in Parlamento per fermare la politica migratoria della maggioranza, il centrosinistra aspetta con fede le prime sentenze. Per ora c’è solo un accordo politico tra due governi e il testo degli eventuali decreti ancora non c’è, ma la linea è già chiara. Ieri, sulla Stampa, c’era una paginata molto istruttiva di Donatella Stasio, esperta di questioni della giustizia ed ex firma del Sole 24 Ore, titolata a slogan: «E il patto con Tirana dimostra la distanza tra Meloni e la Costituzione». Il patto di lunedì scorso veniva definito «un’altra forzatura giuridica, frutto di una cultura estranea alla Costituzione e destinata a creare un nuovo fronte di scontro tra governo e giudici». Il tutto avverrebbe in una fase di «attacco delegittimante (ben diverso dalla legittima critica) contro il giudice “colpevole” di decisioni sgradite e al tentativo di “punirne uno per educarne cento”». E qui Stasio cita come «emblematica» l’ormai famosa vicenda della giudice Apostolico. Difficile capire come si possa già arrivare a immaginare un nuovo caso Apostolico visto che non ci sono ancora leggi o decreti sull’accordo albanese, ma il segnale è chiaro: scrivano quel che vogliono, tanto ci penseranno i giudici. Per l’editorialista del giornale degli Agnelli-Elkann, all’immigrazione si guarda troppo spesso con un’ottica politica che è schiava delle paure per l’ordine pubblico e che quindi ragiona in termini di repressione, segregazione e respingimento, anziché di integrazione e accoglienza. Ma per fortuna che ci sono le toghe, scrive Stasio, con la loro «ottica di garanzia, doverosamente attenta ai diritti fondamentali dell’individuo, italiano o straniero, a maggior ragione se fragile, come lo è un migrante, anche nel bilanciamento con altri diritti». Va detto che la collega riconosce che spesso anche il centro sinistra ha ceduto a «forzature» sui diritti dei migranti nella sua legiferazione, lasciando poi ai tribunali di fare «il lavoro sporco». Ma se si accetta questa bipartizione tra ottica politica e ottica giudiziale, anche un po’ manichea, si finisce per azzerare gli spazi di manovra della politica e si abbraccia, magari involontariamente, la filosofia oscena di giudici che dovrebbero fare le leggi, anziché applicarle. La politica, né superiore né inferiore per qualità delle persone, ha il pregio di rispondere a qualcuno (gli elettori), mentre per la magistratura non si sa. Curioso che la Stampa concluda la sua paginata con una citazione del magistrato liberal americano Ruth Bader Ginsburg, scomparso nel 2020, che sulla pena di morte diceva: «L’America è un paese democratico, ma ci sono temi che non possono essere lasciati alla gente e che richiedono un livello diverso di decisione». Forse per alcuni anche il contrasto all’immigrazione clandestina e gli orrendi traffici che ne derivano vanno sottratti al popolo. Ma che succederà dopo i primi salvataggi di migranti che verranno fatti sbarcare in Albania? Graziano Delrio, presidente della Commissione Schengen ed esponente del Pd, tre giorni fa ha affermato che il patto con Edi Rama «potrebbe rivelarsi una misura di propaganda: basterà un ricorso e una pronuncia di un tribunale italiano per bloccare tutto». Bloccare tutto, del resto, è da sempre la filosofia dell’immarcescibile «partito del Tar».
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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