2024-06-09
E Stalin spiegò a Tito cosa dire a Churchill
Stalin, Churchill e Tito (Ansa)
Nell’affascinante «Il fronte segreto», lo storico Tommaso Piffer racconta con una mole di documenti inediti la vicenda delle infiltrazioni inglesi, americane e russe nel campo di battaglia dell’Europa occupata. Anticipando la genesi della Guerra fredda.Anche in Jugoslavia, dove pure, nel dicembre 1943, Churchill aveva compiuto una scelta molto chiara, la politica inglese alimentò lunghe discussioni. Qui il problema era come comportarsi con Mihailovic [Draza Mihailovic, fondatore delle milizie cetniche, ndr]. Churchill era convinto che il cetnico fosse «una palla al piede del piccolo re» e che rappresentasse il vero ostacolo a un accordo con Tito. Convenne quindi che bisognasse lasciar perdere subito Mihailovic e ritirare tutte le missioni inglesi tra i cetnici. Eden [Anthony Eden, allora ministro degli Esteri inglese, ndr], invece, premeva perché si raggiungesse un accordo con Tito prima di buttare a mare Mihailovic. Churchill non aveva capito chi fosse realmente Tito e che cosa volesse. Affidandosi esclusivamente a Deakin [Frederick William Deakin, capo della missione britannica in Jugoslavia, ndr] e Maclean [Fitzroy Maclean, «inviato» speciale di Churchill in Jugoslavia, ndr], finì per credere che il problema non fosse tanto l’implacabile ostilità ideologica di Tito verso il mondo capitalista, quanto una mancanza di fiducia che poteva essere superata instaurando buone relazioni personali. Confidava dunque molto nell’operato di Maclean e del proprio figlio Randolph, che inviò presso i partizani come suo rappresentante personale. Paradossalmente, quando seppe della missione di Randolph, Stalin diventò ancora più sospettoso nei confronti di Churchill. «I figli dei premier non si fanno paracadutare nel quartier generale altrui senza una ragione plausibile» osservò. Ma l’insistenza con cui Eden cercava di costringere Tito a un accordo che avesse anche la benedizione sovietica era altrettanto ingenua. Come ha scritto la storica Elisabeth Barker, sia il premier sia il ministro degli Esteri «inseguivano una chimera».In ogni caso, poiché Mihailovic era ancora il ministro del governo in esilio, Churchill pensò che dovesse essere il re, e non gli inglesi, a fare il primo passo per abbandonarlo al suo destino. Ancora una volta il Foreign Office cercò il sostegno sovietico e ancora una volta Molotov lasciò che gli inglesi percorressero da soli la strada che si erano scelti. Stavolta il ministro degli Esteri sovietico ricordò agli inglesi con una punta di sarcasmo che il suo governo aveva suggerito quella linea d’azione «fin dall’agosto 1942», per poi aggiungere, in maniera abbastanza incongrua, che non aveva sufficienti informazioni per esprimere un’opinione sull’ipotesi di intervenire direttamente presso il re, come chiedeva Londra. Nel contempo, l’ambasciatore sovietico al Cairo ribadì il suo scetticismo sulla possibilità di un accordo fra Tito e il governo.I sovietici avevano buoni motivi per essere pessimisti: mentre fingevano che la situazione non li riguardasse, dietro le quinte stavano suggerendo a Tito di rifiutare qualsiasi accordo con il governo jugoslavo in esilio.Fu Churchill a prendere l’iniziativa. Il 5 febbraio il primo ministro inglese scrisse a Tito una lettera in cui gli chiedeva se la destituzione di Mihailovic avrebbe aperto la strada a un accordo tra i partizani e il re. Maclean consegnò il messaggio a Tito e fece sapere a Londra che, prima di rispondere, il Maresciallo doveva «consultare il Consiglio antifascista». In realtà, Tito inoltrò la lettera a Dimitrov, osservando che, sebbene avesse di versi motivi per rifiutare accordo, la questione era abbastanza «seria» da meritare che se ne riferisse a Stalin in persona. Tito, che era abituato a ricevere reprimende da Mosca tutte le volte che alzava i toni con il governo in esilio, questa volta ricevette una risposta diversa. Attraverso Dimitrov, Stalin e Molotov gli suggerirono di rispondere «all’inglese» che anche lui era favorevole all’unità degli jugoslavi e che, proprio per questo, il governo in esilio, compreso Mihailovic, andava tolto di mezzo, il Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (Avnoj) doveva essere riconosciuto come l’unico governo legittimo della Jugoslavia e il re doveva rimettersi a ciò che l’Avnoj avesse decretato. Se il re fosse stato disposto ad accettare tali condizioni, dissero, l’Avnoj non avrebbe avuto niente in contrario a collaborare con lui, ma naturalmente il destino ultimo della monarchia sarebbe stato deciso soltanto dopo la fine della guerra. Tito scrisse la sua risposta a Churchill il 9 febbraio, usando le stesse espressioni del testo inviatogli dal Cremlino. Quando l’ambasciatore inglese a Mosca mostrò a Molotov i messaggi intercorsi fra Tito e Churchill, pare che il ministro degli Esteri sovietico abbia commentato che in quel modo «non avevano fatto progredire granché le cose».La politica inglese era dunque giunta a un’impasse. Tito aveva rifiutato la proposta di Churchill di mediare tra lui e il re, e il re resisteva alle pressioni con cui Londra lo esortava a liquidare Mihailovic. In un ulteriore tentativo di guadagnarsi la fiducia di Tito, il 25 febbraio Churchill gli comunicò che era in corso il ritiro degli agenti britannici presso i cetnici, ma non riuscì a estorcergli alcun impegno sulla questione del sovrano.Nei primi mesi del 1944, Churchill in persona si dedicò a un’estenuante serie di incontri con funzionari del Foreign Office e agenti del Soe per stabilire che cosa fare di Mihailovic e dei cetnici in Serbia. Nel corso delle discussioni, la fiducia che il primo ministro riponeva in lui diede un chiaro vantaggio a Maclean, con grande frustrazione del Soe, secondo il quale Maclean considerava la propria missione «una sorta di corpo autonomo» e dichiarava «alcune volte la propria fedeltà solo al primo ministro, altre al Foreign Office, il cui rappresentante in effetti egli era, e altre ancora al quartier generale delle forze alleate». In febbraio Maclean riferì che i messaggi personali di Churchill avevano prodotto un clima estremamente positivo e che a suo parere si sarebbe dovuto accettare la richiesta di Tito. Non rendendosi conto che il capo partigiano aveva un ghost writer a Mosca, sostenne che al Maresciallo «stava sinceramente a cuore l’indipendenza della Jugoslavia» e che, «nel suo tentativo di preservarla, egli avrebbe assai gradito il nostro sostegno». Maclean era contrario alla proposta di mantenere una missione del Soe presso Mihailovic, perché la cosa sarebbe stata fraintesa dai partizani. Bailey [Stanley William Bailey, colonnello britannico e consigliere politico della missione jugoslava, ndr] dissentì, in quanto, disse, Tito sopravvalutava le proprie forze e i cetnici erano tutt’altro che indeboliti in Serbia. A suo avviso, i suoi uomini avrebbero potuto dare un prezioso contributo nel momento in cui vi fosse stata la ritirata tedesca. Richiamare gli agenti britannici avrebbe ulteriormente aggravato la guerra civile, e questo sarebbe andato a detrimento delle operazioni contro i tedeschi. Ma come si potesse tradurre tutto ciò in una politica pragmatica era difficile da immaginare, e lo stesso Bailey ammise in alcune circostanze che forse l’unica soluzione era quella di lasciare che la guerra intestina tra partizani e cetnici si risolvesse da sola, senza influenze esterne.Nelle settimane successive, mentre i primi gruppi partigiani penetravano in Serbia, furono presi in considerazione diversi piani. All’inizio dell’anno Mihailovic aveva tentato di riprendere l’iniziativa, effettuando una nuova campagna di sabotaggi contro i tedeschi e convocando un congresso in cui discutere di un programma per la Jugoslavia postbellica che andava al di là della mera restaurazione del regime anteguerra. Fu il suo «canto del cigno»: benché non fosse emersa alcuna prova inoppugnabile della sua collaborazione personale con il nemico, tutti sembravano convenire che il problema fosse proprio lui, Mihailovic, e non lo scoppio di una guerra civile in cui il paese era irreparabilmente coinvolto. La convinzione erronea che i cetnici fossero un movimento rigidamente controllato dal centro favoriva tali ipersemplificazioni: si elaborarono piani per riportare in Jugoslavia il re e fargli assumere il controllo delle formazioni cetniche o per fomentare una rivolta contro Mihailovic da parte di qualche suo ufficiale. Churchill dichiarò che, «se possibile», avrebbe preferito evitare di «liquidare» Mihailovic e catturarlo vivo. Alla fine, quasi tutti i piani furono scartati in quanto irrealizzabili. All’inizio di maggio il primo ministro britannico, che Bailey aveva trovato alquanto «disinformato sulle condizioni della Jugoslavia», era ancora convinto che si potesse arrivare a una soluzione dando vita a un nuovo governo cui partecipasse direttamente Tito.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
Sempre più risparmiatori scelgono i Piani di accumulo del capitale in fondi scambiati in borsa per costruire un capitale con costi chiari e trasparenti. A differenza dei fondi tradizionali, dove le commissioni erodono i rendimenti, gli Etf offrono efficienza e diversificazione nel lungo periodo.
Il risparmio gestito non è più un lusso per pochi, ma una realtà accessibile a un numero crescente di investitori. In Europa si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione, con milioni di risparmiatori che scelgono di investire attraverso i Piani di accumulo del capitale (Pac). Questi piani permettono di mettere da parte piccole somme di denaro a intervalli regolari e il Pac si sta affermando come uno strumento essenziale per chiunque voglia crearsi una "pensione di scorta" in modo semplice e trasparente, con costi chiari e sotto controllo.
«Oggi il risparmio gestito è alla portata di tutti, e i numeri lo dimostrano: in Europa, gli investitori privati detengono circa 266 miliardi di euro in etf. E si prevede che entro la fine del 2028 questa cifra supererà i 650 miliardi di euro», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert SCF. Questo dato conferma la fiducia crescente in strumenti come gli etf, che rappresentano l'ossatura perfetta per un PAC che ha visto in questi anni soprattutto dalla Germania il boom di questa formula. Si stima che quasi 11 milioni di piani di risparmio in Etf, con un volume di circa 17,6 miliardi di euro, siano già attivi, e si prevede che entro il 2028 si arriverà a 32 milioni di piani.
Uno degli aspetti più cruciali di un investimento a lungo termine è il costo. Spesso sottovalutato, può erodere gran parte dei rendimenti nel tempo. La scelta tra un fondo con costi elevati e un Etf a costi ridotti può fare la differenza tra il successo e il fallimento del proprio piano di accumulo.
«I nostri studi, e il buon senso, ci dicono che i costi contano. La maggior parte dei fondi comuni, infatti, fallisce nel battere il proprio indice di riferimento proprio a causa dei costi elevati. Siamo di fronte a una realtà dove oltre il 90% dei fondi tradizionali non riesce a superare i propri benchmark nel lungo periodo, a causa delle alte commissioni di gestione, che spesso superano il 2% annuo, oltre a costi di performance, ingresso e uscita», sottolinea Gaziano.
Gli Etf, al contrario, sono noti per la loro trasparenza e i costi di gestione (Ter) che spesso non superano lo 0,3% annuo. Per fare un esempio pratico che dimostra il potere dei costi, ipotizziamo di investire 200 euro al mese per 30 anni, con un rendimento annuo ipotizzato del 7%. Due gli scenari. Il primo (fondo con costi elevati): con un costo di gestione annuo del 2%, il capitale finale si aggirerebbe intorno ai 167.000 euro (al netto dei costi). Il secondo (etf a costi ridotti): Con una spesa dello 0,3%, il capitale finale supererebbe i 231.000 euro (al netto dei costi).
Una differenza di quasi 64.000 euro che dimostra in modo lampante come i costi incidano profondamente sul risultato finale del nostro Pac. «È fondamentale, quando si valuta un investimento, guardare non solo al rendimento potenziale, ma anche e soprattutto ai costi. È la variabile più facile da controllare», afferma Salvatore Gaziano.
Un altro vantaggio degli Etf è la loro naturale diversificazione. Un singolo etf può raggruppare centinaia o migliaia di titoli di diverse aziende, settori e Paesi, garantendo una ripartizione del rischio senza dover acquistare decine di strumenti diversi. Questo evita di concentrare il proprio capitale su settori «di moda» o troppo specifici, che possono essere molto volatili.
Per un Pac, che per sua natura è un investimento a lungo termine, è fondamentale investire in un paniere il più possibile ampio e diversificato, che non risenta dei cicli di mercato di un singolo settore o di un singolo Paese. Gli Etf globali, ad esempio, che replicano indici come l'Msci World, offrono proprio questa caratteristica, riducendo il rischio di entrare sul mercato "al momento sbagliato" e permettendo di beneficiare della crescita economica mondiale.
La crescente domanda di Pac in Etf ha spinto banche e broker a competere offrendo soluzioni sempre più convenienti. Oggi, è possibile costruire un piano di accumulo con commissioni di acquisto molto basse, o addirittura azzerate. Alcuni esempi? Directa: È stata pioniera in Italia offrendo un Pac automatico in Etf con zero costi di esecuzione su una vasta lista di strumenti convenzionati. È una soluzione ideale per chi vuole avere il pieno controllo e agire in autonomia. Fineco: Con il servizio Piano Replay, permette di creare un Pac su Etf con la possibilità di ribilanciamento automatico. L'offerta è particolarmente vantaggiosa per gli under 30, che possono usufruire del servizio gratuitamente. Moneyfarm: Ha recentemente lanciato il suo Pac in Etf automatico, che si aggiunge al servizio di gestione patrimoniale. Con versamenti a partire da 10 euro e commissioni di acquisto azzerate, si posiziona come una valida alternativa per chi cerca semplicità e automazione.
Ma sono sempre più numerose le banche e le piattaforme (Trade Republic, Scalable, Revolut…) che offrono la possibilità di sottoscrivere dei Pac in etf o comunque tutte consentono di negoziare gli etf e naturalmente un aspetto importante prima di sottoscrivere un pac è valutare i costi sia dello strumento sottostante che quelli diretti e indiretti come spese fisse o di negoziazione.
La scelta della piattaforma dipende dalle esigenze di ciascuno, ma il punto fermo rimane l'importanza di investire in strumenti diversificati e con costi contenuti. Per un investimento di lungo periodo, è fondamentale scegliere un paniere che non sia troppo tematico o «alla moda» secondo SoldiExpert SCF ma che rifletta una diversificazione ampia a livello di settori e Paesi. Questo è il miglior antidoto contro la volatilità e le mode del momento.
«Come consulenti finanziari indipendenti ovvero soggetti iscritti all’Albo Ocf (obbligatorio per chi in Italia fornisce consigli di investimento)», spiega Gaziano, «forniamo un’ampia consulenza senza conflitti di interesse (siamo pagati solo a parcella e non riceviamo commissioni sui prodotti o strumenti consigliati) a piccoli e grandi investitore e supportiamo i clienti nella scelta del Pac migliore a partire dalla scelta dell’intermediario e poi degli strumenti migliori o valutiamo se già sono stati attivati dei Pac magari in fondi di investimento se superano la valutazione costi-benefici».
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