Appena un terzo delle rianimazioni promesse durante la pandemia è stato realizzato: se ci fosse un’altra emergenza avremmo gli stessi problemi. Sarà per questo che il nuovo piano pandemico prevede i lockdown... Si parla solo di eutanasia mentre la terapia del dolore è negata a 2 malati su 3.
Appena un terzo delle rianimazioni promesse durante la pandemia è stato realizzato: se ci fosse un’altra emergenza avremmo gli stessi problemi. Sarà per questo che il nuovo piano pandemico prevede i lockdown... Si parla solo di eutanasia mentre la terapia del dolore è negata a 2 malati su 3.«Non ero più bravo degli altri». Sarebbe bello se Roberto Speranza se ne fosse reso conto da solo. Peccato che la sua sia solo falsa modestia. Intervistato da Repubblica, ieri, ha ricominciato a impartire lezioncine su come si gestisce la sanità pubblica, sui miliardi da lui investiti, sullo spettro della destra che taglia le risorse e rischia di assestare «il colpo di grazia definitivo» al Ssn, tramite l’autonomia differenziata. Forse è in lizza per il Premio Faccia tosta 2024. Domani, alla Camera, insieme a Elly Schlein e all’altro campione della pandemia, Giuseppe Conte, presenterà il suo best seller mancato, riveduto e corretto: Perché guariremo. Volume che fu costretto a ritirare, nell’autunno 2020. Anziché guarire dal Covid, infatti, ci stavamo ammalando di nuovo. Cose che capitano, quando snobbi i medici che provano a proporti terapie precoci e domiciliari, efficaci sui soggetti fragili. Ma se l’asso del Pd non ha salvato i malati e men che meno i danneggiati dai vaccini, non è vero manco che abbia salvato i nostri ospedali. Le cifre parlano chiaro.Torniamo un attimo alla primavera del 2020. L’Italia è sotto la sferza delle chiusure, bombardata dai macabri bollettini di contagi e decessi. Speranza ha dato istruzioni precise all’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro: «Se vogliamo mantenere misure restrittive, non dare troppe aspettative positive». Il governo punta sul terrore. Il 19 maggio, comunque, partorisce un decreto legge, che all’articolo 2 prescrive di «rafforzare il Servizio sanitario nazionale in ambito ospedaliero», garantendo «l’incremento di attività in regime di ricovero in terapia intensiva e in aree di assistenza ad alta intensità di cure». Vengono perciò disposti «piani di monitoraggio» dei progressi, affidati «congiuntamente» ai ministeri della Salute e dell’Economia.Lo scorso settembre, l’attivista Robert Lingard inoltra agli uffici del dicastero, ora retto da Orazio Schillaci, una richiesta di accesso agli atti, per poter consultare «la documentazione attestante il monitoraggio dello stato dei lavori delle Regioni sulla base di quanto previsto dal medesimo decreto». Vuole sapere a che punto siamo con l’adeguamento degli ospedali. Indovinate? Per le terapie intensive, risulta ancora «da avviare o in corso di affidamento» quasi il 43% dei lavori. Quelli in fase di svolgimento sono circa il 25%. Ne è stato completato solo il 32%. La situazione è addirittura peggiore nelle subintensive: bisogna mettere a regime il 45,18% dei cantieri. E ben poco è stato fatto per i pronto soccorso: non è ancora partito addirittura il 46,53% delle opere.Alla faccia degli storici stanziamenti di Speranza, ci troviamo a carissimo amico. L’ex Articolo 1 ne è al corrente? Da un lato continua a pavoneggiarsi, ma dall’altro si era premurato di tenere «a porte chiuse» l’evento di domani a Montecitorio. Per evitare domande scomode? È servito un polverone di polemiche sul grottesco velo di riservatezza, per convincere gli organizzatori del convegno ad allestire almeno la diretta streaming.Certo, se siamo ancora così indietro, la colpa non è soltanto di chi è rimasto a girarsi i pollici sulla poltrona per quasi tre anni. Non è solo colpa di Speranza, di Conte, di Mario Draghi e dei due commissari Covid che si sono succeduti, Domenico Arcuri e Francesco Paolo Figliuolo. Anche il governo in carica se l’è presa con calma. Lo dimostra il fatto che i dati, liberamente consultabili in un’apposita pagina del sito del ministero della Salute, dedicata al potenziamento della rete ospedaliera, sono fermi al 13 giugno 2023. Un’anomalia che sono gli stessi funzionari a confermare.Nel carteggio di Lingard, infatti, emerge un dettaglio essenziale. Il 24 ottobre 2023, la Direzione generale della programmazione sanitaria risponde all’attivista, trasmettendogli delle email riguardanti le attività di «monitoraggio mensile». Appunto: cadenza mensile. Stranamente, il materiale inoltrato fa riferimento all’ottobre di un anno prima. Nessuno spiega quale ufficio si sia occupato del monitoraggio a partire da novembre 2022. È solo un paio di settimane fa che, finalmente, il ministero comunica: la competenza spetta a una sezione della Direzione generale della programmazione generale. D’accordo: ma come mai i risultati della supervisione non confluiscono costantemente sulla piattaforma online? Se i controlli sono mensili, come mai la finestra Web non è aggiornata da sette mesi? A gennaio 2024, terapie intensive, subintensive e pronto soccorso rimangono ai livelli - insufficienti - di giugno 2023?Con un pizzico di malizia, iniziamo a unire i puntini. Walter Ricciardi aveva definito il lockdown una misura «di cieca disperazione». La principale giustificazione per le restrizioni aveva a che fare proprio con le difficoltà dei nosocomi. Il ragionamento era questo: coni reparti in tilt, i malati moriranno. Perciò tocca blindarsi. Se, a quattro anni dal paziente di Codogno, metà dei posti letto è un miraggio, forse si capisce per quale motivo, nel piano pandemico 2024-2028, sia ricomparsa l’ipotesi delle chiusure. Schillaci ha assicurato che il documento cambierà. Si sbrighi a intervenire dove c’è bisogno e poi cassi l’eredità degli spettri del Covid. Perché peggio di uno Speranza in sé, può esserci solo uno Speranza in noi.
Giuseppe Benedetto (Imagoeconomica)
Giuseppe Benedetto, presidente di Fondazione Einaudi: «Il ddl Stupri porta le toghe dentro ai letti e, invertendo l’onere della prova, apre a vendette».
«Non basta la separazione delle carriere: serve la separazione dei “palazzi”. Giudici e pm non devono neanche incontrarsi». Giuseppe Benedetto, avvocato siciliano di lungo corso, è il presidente della Fondazione Einaudi, storico punto di riferimento della cultura liberale. Da quel centro studi è nato il Comitato «Sì separa», in prima linea per il sì al referendum sulla riforma della giustizia. «L’Anm è solo un sindacato privato, e con questa riforma smetterà di dettare legge sulle nomine. Serve un cambio culturale: le toghe sono dipendenti pubblici, non i sacerdoti dell’etica, che oggi mettono piede persino in camera da letto».
Roberto Scarpinato, ex magistrato e senatore del M5s (Imagoeconomica). Nel riquadro Anna Gallucci, pubblico ministero e già presidente dell’Anm a Rimini
La pm Anna Gallucci: «A Termini Imerese raccolsi elementi anche su politici progressisti, ma il mio capo Cartosio indicò di archiviarli, “d’intesa con Scarpinato”. Rifiutai, poi subii un procedimento disciplinare». Sarebbe questa l’indipendenza minata dal governo?
Anna Gallucci ricopre la funzione di pubblico ministero a Pesaro, dopo avere fatto il sostituto procuratore anche a Rimini e Termini Imerese. È relativamente giovane (è nata nel 1982) e ha svolto vita associativa: è iscritta alla corrente moderata di Magistratura indipendente ed è stata presidente della sottosezione riminese dell’Associazione nazionale magistrati. Ha lasciato la carica dopo il trasferimento nelle Marche, sua terra di origine. Nel 2022 si era espressa contro il vecchio referendum sulla responsabilità civile delle toghe e aveva manifestato giudizi negativi sulla separazione delle carriere. Ma adesso ha cambiato idea ed è molto interessante ascoltare le sue motivazioni.
Tra realtà e ipotesi fantasiosa, l’impresa aerea tra le più folli degli ultimi 50 anni dimostrò una cosa: la difesa dell’Unione Sovietica non era così potente e organizzata come molti pensavano.
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio (Imagoeconomica)
Oltranzisti rumorosi, ma via via più isolati. Alle urne ci sarà l’occasione di porre fine a 30 anni di ingerenze politiche.
Credo che la maggioranza dei magistrati non sia pregiudizialmente contraria alla separazione delle carriere e che anzi veda persino di buon occhio il sorteggio per l’elezione dei consiglieri del Csm. Parlando con alcuni di loro mi sono convinto che molti non siano pronti alla guerra con il governo, come invece lasciano credere i vertici dell’Anm. Solo che per il timore di essere esposta alla rappresaglia delle toghe più politicizzate, questa maggioranza preferisce restare silenziosa, evitando di schierarsi e, soprattutto, di pronunciarsi.






