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2019-04-30
Spacciano per il trionfo dell’Europa un governicchio della «non sfiducia»
A Bruxelles si sentono fuori pericolo, ma le votazioni iberiche registrano la fine del bipolarismo della Madrid postfranchista. E il flop dei popolari porterà il Ppe dall'intesa con i socialdemocratici a quella con i sovranisti.I socialisti hanno vinto le elezioni ma non hanno i numeri per governare. Servirà un patto allargato anche ai baschi o un asse con Ciudadanos, all'ombra di George Soros.Nessun compromesso con i separatisti e linea dura sull'immigrazione, strizzando l'occhio a Donald Trump. Il partito di Santiago Abascal è balzato da zero a 10%, conquistando 24 seggi.Lo speciale contiene tre articoli«La maggioranza schiacciante degli spagnoli ha optato per partiti chiaramente pro europei», dice il portavoce della Commissione Ue, Margaritis Schinas. «Confidiamo che Sánchez formi un governo stabile e pro Ue».A Bruxelles tirano un sospiro di sollievo per l'esito delle elezioni in Spagna. Come già era successo dopo il ballottaggio del 2017 in Francia, gli eurocrati festeggiano: sono ancora vivi. Ma le loro prospettive di sopravvivenza sono appese a un filo, che rischia di spezzarsi il 26 maggio, quando si apriranno le urne per rinnovare il Parlamento europeo.È vero: Pedro Sánchez ha vinto. I socialisti hanno sfiorato il 29%, hanno ottenuto 123 seggi e sono tornati a brindare con la sangria dopo 11 anni dall'ultimo risultato positivo. Ma quello per il prossimo esecutivo è un percorso insidioso, soprattutto per gli europeisti, che suonano la lira mentre Bruxelles va in fiamme. Il Psoe sarà pure il primo partito, avrà inviato «un messaggio all'Europa e al resto mondo», si sarà convinto di poter formare un esecutivo pro Ue («se puede», ha detto Sánchez), ma intanto deve fare i conti con la morte del bipolarismo. Ovvero, del sistema che aveva caratterizzato la Spagna postfranchista, quella che si lasciava alle spalle la dittatura e abbracciava con convinzione il progetto europeo. Per avere una maggioranza sicura, il Psoe dovrebbe allearsi con Ciudadanos, il partito dei moderati che ha però escluso un'intesa. Il suo numero uno, Albert Rivera, ha anzi approfittato del capitombolo di popolari per accreditarsi come leader dell'opposizione. La seconda ipotesi era mettersi con Podemos. Lo schieramento di Pablo Iglesias, il cui grillismo di sinistra è uscito piuttosto ridimensionato dalle urne, si è detto disponibile a una trattativa. Ma per la maggioranza assoluta serviva il contributo dei nazionalisti baschi, canari, valenciani e cantabrici. La peggiore delle ipotesi sarebbe stato il matrimonio con gli indipendentisti catalani, con i quali i socialisti non hanno mai voluto il pugno di ferro e che nondimeno temono, considerandoli inaffidabili. Peraltro, è paradossale che per salvare l'Europa ci si debba rivolgere ai fan delle micropatrie, dei regionalismi, se non a quelli che vorrebbero lacerare l'unità del Paese e che l'Unione europea, ai tempi della fuga di Carles Puigdemont, aveva cordialmente scaricato, per il bene del fido esecutore dei suoi ordini, l'ex premier Mariano Rajoy. Alla fine, il Psoe ha confermato che punta a un monocolore. Siccome gli mancano 53 seggi, però, dovrà sperare in un appoggio esterno di qualche «responsabile». In parole povere, Sánchez ha fatto «vincere il futuro», però aspira a quella che ai tempi della prima Repubblica italiana chiamavamo la «non sfiducia». Il domani europeista avvinghiato a un governicchio alla Giulio Andreotti.Non bisogna dimenticare nemmeno che, in chiave europea, i risultati delle elezioni in Spagna sanciscono l'affermazione di movimenti distanti dalla grande coalizione che esprime l'attuale Commissione. Il Ppe, con la débâcle dei popolari, cui evidentemente non ha portato bene fare i Mario Monti in traje de luces, scontano l'ennesima emorragia di consensi, dopo quelle dalla Francia, dall'Italia e dalla Germania. E questo non fa che spingere i moderati tra le braccia dei sovranisti, ovvero di quell'intesa, propiziata da Viktor Orbán e Matteo Salvini, che spezzerebbe l'asse con il Pse dell'era Juncker-Merkel-Timmermans. I socialisti Ue, dal canto loro, si preparano a spagnolizzarsi. E questa è una pessima notizia per i piddini nostrani, che pure salutano con letizia il risultato del Psoe, dall'ammiccante «adelante Pedro» del tweet di Paolo Gentiloni, all'«alternativa a sovranisti, populisti e destre» celebrata da Nicola Zingaretti. L'ascesa di Sánchez relega i dem a un ruolo marginale nel Pse e archivia il ricordo del famoso 40%, che galvanizzò Matteo Renzi nel 2014. La sconfitta di «autoritarismo» e «involuzione» somiglia dunque al classico illusorio miglioramento del paziente moribondo. E se l'analisi post elezioni politiche è un profluvio di retorica europeista, quella post 26 maggio rischierà di svolgersi sul tavolo autoptico della vecchia Europa. Tanto più che, dopo la Francia, dove Marine Le Pen è oramai sdoganata e in crescita, pure la Spagna, sancendo il boom di Vox, dimostra di aver superato il tabù della destra radicale.A tutto ciò si aggiunge un altro parallelismo con l'esperienza di Emmanuel Macron: il galoppino dell'establishment era una delle tante figurine investite dell'ardua missione di salvare l'Europa, ma la sua presidenza, dagli immigrati alla politica estera, trabocca di sciovinismo. I suoi progetti di riforma dell'eurozona sono stati congelati dalla gelida accoglienza di Berlino. Pure il premier Sánchez aveva esordito facendo sbarcare a Valencia la nave Aquarius, respinta dall'Italia. Ma il nobile paladino iberico dell'Europa accogliente ha fatto presto a cambiare idea: a gennaio, per dire, l'Ong Open arms ha trovato chiuso il porto di Barcellona. La nave, peraltro non era in arrivo, ma partiva per raccogliere un po' di migranti in mare. La bontà del guapo Sánchez è durata da Natale a Santo Stefano. Per citare un famoso titolone di Time: può quest'uomo salvare l'Europa?Alessandro Rico<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/spacciano-per-il-trionfo-delleuropa-un-governicchio-della-non-sfiducia-2635870162.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nessuna-svolta-a-sinistra-la-spagna-e-semplicemente-rimasta-ferma-a-sanchez" data-post-id="2635870162" data-published-at="1766030313" data-use-pagination="False"> Nessuna svolta a sinistra. La Spagna è semplicemente rimasta ferma a Sánchez I socialisti guidati da Pedro Sánchez hanno vinto le elezioni in Spagna. Come davano per certo tutti i sondaggi, il Psoe è risultato il primo partito con il 28,7% dei consensi (123 seggi), contro il 16,7% (66 seggi) del Partito popolare che aveva guidato il Paese dal 2011 al 2018. La sinistra di Pablo Iglesias (Unidas Podemos) si è fermata al 14,3 % (42 seggi), perdendo quasi 1,4 milioni di voti, il leader «arancione» di Ciudadanos, Albert Rivera, ha ottenuto il 15,9% (57 seggi) ma non è risultato decisivo nella coalizione di destra. Gli ultranazionalisti di Vox agitano orgogliosi il loro 10,3% che li fa entrare in Parlamento con 24 seggi. La Spagna che ieri si è risvegliata socialista, non ha però i numeri per governare e anche questo era già stato annunciato. Per arrivare alla maggioranza assoluta di 176 deputati servono accordi e malgrado Sánchez si affretti a ribadire che vuole «provarci da solo», alleati e oppositori sanno che adesso si apre la stagione dei compromessi. Anche bussando alla porta degli indipendentisti catalani, prospettiva nettamente rifiutata dalla base del Psoe. Gli spagnoli hanno votato numerosi, il 75,78%, un 10% in più rispetto alle politiche del 2016, ma più che elezioni questo è sembrato un referendum, come ha osservato Salvador Molina, presidente del Foro Ecofin, centro di ricerca economico e finanziario. «Non votare Pedro Sánchez significava votare la destra. Votare i tre partiti di destra avrebbe significato un ritorno al passato, al vecchio. Il voto al leader del Psoe ha finito per rappresentare un voto progressista e moderato», ha commentato l'analista. Il bipartitismo è così resuscitato negli ultimi venti giorni grazie alla campagna di comunicazione del Psoe, martellante nell'affermare che bisognava votare i socialisti contro i nemici del Pp, di Cs e di Vox. Contro i nemici della Spagna. Allo stesso modo, in Catalogna e nei Paesi Baschi l'appello alle urne per isolare la destra e i «nostalgici franchisti» ha rafforzato il numero dei seggi dei nazionalisti di Erc, JxCat, Pnv y Bildu. I voti non andavano dispersi nemmeno troppo a sinistra con Podemos, paradossalmente Sánchez si è presentato come l'unica alternativa «moderata» in grado di salvare il Paese dal populismo. Una campagna «mariana», l'hanno definita in molti, che sembrava rifarsi alle strategie elettorali di Mariano Rajoy, storico avversario di Pedro Sánchez. La risposta, anche emotiva degli elettori c'è stata. I popolari, da parte loro, fanno i conti con la presunzione e la scarsa incisività del giovane leader Pablo Casado, occupato a prendere le distanze da Vox e che oggi si è visto dimezzare il numero dei deputati. Una sconfitta per lo storico partito di destra, quasi superato dall'altra formazione, Ciudadanos, e con buona parte degli elettori che gli hanno preferito il carisma, la chiarezza e la concretezza di Santiago Abascal che ha saputo parlare agli spagnoli di unità nazionale, di famiglia, di lotta all'invasione extracomunitaria. Forse Vox avrebbe potuto raccogliere più consensi se la destra fosse risultata meno litigiosa, ma i suoi 24 deputati sono un grande risultato per chi prima non aveva rappresentanza in Parlamento. Messi insieme, i tre partiti che si oppongono alla sinistra non possono ottenere il numero di 176 seggi, si fermano a 149. Passato il momento dei sorrisi e del segnale che viene letto come «europeista», Sánchez dovrà dunque provare a governare. Con i seggi di Unidas Podemos (42), Compromís (1), Partido nacionalista Vasco (6), Coalición Canaria-Pnc (2) e Partido regionalista de Cantabria (1) metterebbe insieme solo 175 seggi. Diventano indispensabili quelli degli indipendentisti di Esquerra republicana (15), Junts per Catalunya, (7) ed Euskal herria bildu, coalizione di partiti nazionalisti baschi di sinistra (4), con i quali si arriverebbe a 199 deputati. Ma il prezzo da pagare sarebbe spiegare agli spagnoli che si fa un governo con i golpisti, magari scambiando l'appoggio al Psoe con l'indulto per i politici catalani in carcere. L'altra soluzione, un accordo con la destra moderata di Ciudadanos che porterebbe ad avere la maggioranza, viene decisamente rifiutata dai rispettivi leader, Sánchez e Rivera. Ma anche queste posizioni non convincono. Alcuni quotidiani spagnoli cattolici e di destra stanno riproponendo il legame Soros-Ciudadanos. Sul Correo de Madrid, l'avvocato esperto di diritto di famiglia Javier María Pérez-Roldán y Suanzes-Carpegna ieri scriveva che «Ciudadanos è il partito di Soros ed è infiltrato dalla massoneria. Alla fine non avrà problemi a comporre una maggioranza con i socialisti». La Tribuna de España titola che Soros è il vero vincitore delle elezioni. A marzo aveva rivelato un incontro segreto tra l'imprenditore Gorge Soros e Albert Rivera, dal quale sarebbe uscito l'ordine ben chiaro di non appoggiare le formazioni di destra. Un mese prima, il direttivo di Ciudadanos aveva invece votato la linea «nessun accordo con il Psoe dopo le elezioni» e Soros, che avrebbe in Ciudadanos un «suo uomo» nell'economista Luis Garicano, sarebbe intervenuto proprio per imporre la linea pro Sánchez. L'unica percorribile se non si vuole arrestare «l'invasione musulmana» della Spagna, come è nei disegni di Soros che nel suo odio per l'Europa, sempre secondo La Tribuna de España, «alimenterebbe pure il separatismo golpista catalano e la sinistra». Se l'accordo tra la destra di centro e il Psoe alla fine si farà, i giochi si scopriranno. Intanto ci sono le europee e Sánchez può prendere tempo. Patrizia Floder Ritter <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/spacciano-per-il-trionfo-delleuropa-un-governicchio-della-non-sfiducia-2635870162.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-nuova-destra-ha-alzato-la-vox" data-post-id="2635870162" data-published-at="1766030313" data-use-pagination="False"> La nuova destra ha alzato la Vox Vox, che alle elezioni spagnole ha conquistato 24 seggi parlamentari, è un partito di estrema destra come titolano i giornali? No. Il suo leader, indubbiamente carismatico, il quarantatreenne Santiago Abascal, si è formato politicamente nel Partito popolare e non ha mai frequentato i gruppuscoli dell'area neo franchista (tipo Fuerza nueva, che ha ispirato nel nome il gruppo italiano di Forza nuova). È un partito antisemita, come pure è stato scritto? Neppure: Vox vanta un forte legame con Israele e dichiara di sostenerlo «contro il terrorismo di Hamas». Ma allora perché questo partito emergente ha inquietato tanto l'establishment politico? Ha turbato la sinistra osando contestare gli slogan del politicamente corretto, ma nello stesso tempo ha mandato in tilt i conservatori con i suoi toni più grintosi. Abascal è l'altra faccia della Spagna. Se negli scorsi anni i separatisti si sono presi la scena politica e i partiti tradizionali hanno cercato di limitarli - e nello stesso tempo blandirli - il leader di Vox ha gridato forte che la Spagna è una e che le autonomie regionali devono essere praticamente azzerate. Solo unita la Spagna può affrontare l'altro grande pericolo: quello del terrorismo intrecciato all'immigrazione. I «verdi» (questo il colore sociale di Vox) chiedono che si alzi nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla un muro «insurmountable» e - già che si è in zona - che si sollevi l'eterno problema della sovranità su Gibilterra. Dai commentatori politici non è stato sottolineato abbastanza come nella percezione dell'opinione pubblica i due temi del secessionismo e del terrorismo si siano intrecciati in maniera impressionante: i separatisti catalani, cercando con tutti i mezzi di frenare la presenza dello Stato centrale e delle sue forze di polizia, avevano aperto una falla nella sicurezza (che è diventata evidente con l'attentato sulle Ramblas del 2017); anche l'utilizzo pervasivo del catalano al posto dello spagnolo ha fatto in modo che la Catalogna si sia riempita di immigrati dal Nordafrica piuttosto che dei tanti latinos che arrivando dal Sudamerica hanno preferito stabilirsi nelle aree in cui si parla la lingua comune, lo spagnolo. Di fronte a queste dinamiche gli stessi popolari hanno mostrato una reazione che una buona parte degli elettori tradizionalmente di centrodestra ha considerato blanda, insufficiente. Vox ha avuto buon gioco nel chiedere un cambio netto di strategia. In campo economico Abascal vuole una flat tax al 21% e bilancia ragionamenti di tipo neoliberista con altre proposte che richiedono un certo intervento dello Stato in economia; guardando al di là dei confini della amata Spagna, esprime una forte simpatia per Donald Trump e nello stesso tempo si prepara a fare un gruppo unico al parlamento europeo insieme a Matteo Salvini. Ma la strada per Vox è ancor più in salita rispetto ad altri movimenti della galassia sovranista. Abascal riuscirà a entrare nell'arco costituzionale o i socialisti, in nome del politicamente corretto, riusciranno a emarginarlo dal gioco delle alleanze? Intanto, si gode l'unico vero successo netto di questa tornata elettorale. Alfonso Piscitelli
Da domani in Arabia Saudita al via la final four. A inaugurare il torneo saranno Milan e Napoli, in campo giovedì (ore 20 italiane) per la prima semifinale. Venerdì tocca a Inter e Bologna contendersi un posto nella finalissima di lunedì 22 dicembre.
Il primo trofeo della stagione si assegna ancora una volta lontano dall’Italia. Da domani la Supercoppa entra nel vivo a Riyadh con la formula della final four: giovedì la semifinale tra Milan e Napoli, venerdì quella tra Inter e Bologna, lunedì 22 dicembre la finale che chiuderà il programma e consegnerà il titolo.
Riyadh si prepara ad accogliere di nuovo la Supercoppa italiana,. Tre partite secche, quattro squadre e una posta che va oltre il campo: Napoli, Inter, Milan e Bologna portano in Arabia Saudita storie diverse, ambizioni opposte e un equilibrio che negli ultimi anni ha reso la competizione meno scontata di quanto dicano le statistiche.
Il Napoli arriva da campione d’Italia, il Bologna da vincitore della Coppa Italia, l’Inter da seconda forza del campionato e il Milan da detentore del trofeo. È soltanto la terza edizione con il formato a quattro, ma è già sufficiente per raccontare una Supercoppa che ha cambiato volto: nelle ultime due stagioni hanno vinto squadre che non partivano con lo scudetto cucito sul petto, un’inversione rispetto a una tradizione che per decenni aveva premiato quasi sempre i campioni d’Italia.
Proprio il Milan è il simbolo di questo ribaltamento. Campioni in carica, i rossoneri hanno spezzato una serie di finali perse all’estero e hanno riscritto la storia della manifestazione vincendo prima da finalista di Coppa Italia e poi da seconda classificata in campionato. In Arabia Saudita tornano con l’obiettivo di agganciare la Juventus in vetta all’albo d’oro, dove oggi i bianconeri comandano con nove successi, uno in più di Inter e Milan.
Il primo incrocio, giovedì 18 dicembre, è contro il Napoli. Gli azzurri inseguono invece un ritorno al passato: l’ultima Supercoppa vinta risale al 2014, una finale rimasta negli archivi per durata e tensione. Da allora, tentativi falliti e una presenza costante tra semifinali e finali mancate. Per la squadra di Antonio Conte, il confronto con il Milan è anche un passaggio chiave per evitare una prima volta storica: mai la squadra campione d’Italia in carica è rimasta fuori dall’atto conclusivo della competizione.
Dall’altra parte del tabellone, Inter e Bologna. I nerazzurri sono ormai una presenza abituale nella Supercoppa a quattro, protagonisti nelle ultime due edizioni e detentori di record individuali che raccontano la continuità del loro percorso. Il Bologna, invece, vivrà un esordio assoluto: sarà il tredicesimo club a partecipare alla manifestazione, chiamato subito a misurarsi con una dimensione internazionale che rappresenta una novità anche simbolica per il club. Negli ultimi anni la Supercoppa si è decisa spesso senza supplementari e rigori, ma resta una competizione capace di ribaltare copioni già scritti. Lo dimostrano le rimonte, i gol decisivi negli ultimi minuti e una storia che, pur ricca di record individuali e panchine vincenti, continua a sorprendere.
Fuori dal campo, la tappa di Riyadh diventa anche una vetrina per il calcio italiano. La Lega Serie A ha annunciato iniziative dedicate all’inclusione di tifosi con disabilità sensoriali, che accompagneranno tutte le partite del torneo. Da un lato, l’utilizzo di una mappa tattile interattiva permetterà a tifosi ciechi e ipovedenti di seguire l’andamento della gara attraverso il tatto; dall’altro, magliette sensoriali trasformeranno i suoni dello stadio in vibrazioni per tifosi sordi. Un progetto che coinvolgerà complessivamente trenta spettatori per ciascuna iniziativa, inserendosi nel programma ufficiale della competizione.
A rappresentare visivamente la Supercoppa sarà invece il nuovo Trophy travel case, realizzato dal brand fiorentino Stefano Ricci. Un baule pensato per accompagnare il trofeo nelle tappe internazionali, simbolo di un’italianità che la Serie A continua a esportare all’estero, soprattutto in Medio Oriente, dove la Supercoppa si gioca per il quarto anno consecutivo.
Il calcio d’inizio è fissato. A Riyadh non si gioca soltanto una coppa, ma un racconto che intreccia campo, storia recente e immagine del calcio italiano nel mondo. E, come spesso accade in Supercoppa, i numeri potrebbero non bastare per spiegare come andrà a finire.
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(Apple Tv)
Non è affatto detto che sia così perché, dietro l’obiettivo di rovesciare le formule della fantascienza, si nasconde l’ambizione di una riflessione sul rapporto tra benessere collettivo e libertà individuale, tra felicità globale e identità personale. Il tutto proposto con grande cura formale, ottime musiche e qualche lungaggine autoriale. Possibili, lontani, riferimenti: Lost, per i prologhi spiazzanti e i flashback, Truman Show, per la solitudine e l’apparenza stranianti, Black Mirror, per la cornice distopica. Ma la mano dell’ideatore è inconfondibile.
Ci troviamo ad Albuquerque, la città del New Mexico già teatro dei precedenti plot di Gilligan, ma stavolta la vicenda è tutt’altra. Siamo in un futuro progredito e un certo rigore si è già radicato nella quotidianità. Per esempio, l’avviamento delle auto di ultima generazione è collegato alla prova di sobrietà del palloncino: se si è stati al pub, l’auto non parte. Individuato da un gruppo di astronomi, un virus Rna proveniente dallo spazio, trasmesso in laboratorio da un topo e contagiato tramite baci e alimenti, rende gli esseri umani felici, gentili e samaritani con il prossimo. Le persone agiscono come un’unica mente collettiva, ma non a causa di un’invasione aliena, tipo L’invasione degli ultracorpi, bensì per il fatto che «noi siamo noi», garantisce un politico che parla dalla Casa Bianca, anche se non è il presidente. «Gli scienziati hanno creato in laboratorio una specie di virus, più precisamente una colla mentale capace di tenerci legati tutti insieme». In questo mondo, non esiste il dolore, non si registrano reati, le prigioni sono vuote, le strade non sono mai congestionate, regna la pace. Tutto è perfetto e patinato, perché la contraddizione non esiste. Debellata, dietro una maschera suadente. La colla mentale dispone alla benevolenza e alla correttezza le persone. Che però non possono scegliere, ma agire solo in base a un «imperativo genetico». Soltanto 12 persone in tutto il Pianeta sono immuni al contagio. Ma mentre undici sembrano disposte a recepirlo, l’unica che si ribella è Carol Sturka (Reha Seehorn), una scrittrice di romanzi per casalinghe sentimentali. Cinica, diffidente, omosex e discretamente testarda, malgrado vicini, conoscenti e certi soccorritori ribadiscano le loro buone intenzioni - «vogliamo solo renderti felice» - lei non vuole assimilarsi ed essere rieducata dal virus dei buoni. I quali, ogni volta che lei respinge bruscamente le loro attenzioni, restano paralizzati in strane convulsioni, alimentando i suoi sensi di colpa. Il prezzo della libertà è una solitudine sterminata, addolcita dal fatto che, componendo un numero di telefono, può vedere esaudito ogni desiderio: cibi speciali, cene su terrazze panoramiche, giornate alle terme, Rolls Royce fiammanti. Quando si imbatte in qualche complicazione è immediatamente soccorsa da Zosia (Karolina Wydra), volto seducente della mente collettiva, o da un drone, tempestivo nel recapitarle a domicilio la più bizzarra delle richieste. A Carol è anche consentito di interagire con gli altri umani esenti dal contagio. Che però non condividono il suo progetto di ribellione alla felicità coatta: tocca a noi riparare il mondo. «Perché? La situazione sembra ideale, non ci sono guerre, viviamo tranquilli», ribatte un viveur che sfrutta ogni lusso e privilegio concesso dalla mente collettiva.
L’idea di questa serie risale a circa otto o nove anni fa, ha raccontato Gilligan in un’intervista. «In quel periodo io e Peter Gould (il suo principale collaboratore, ndr.) avevamo iniziato a lavorare a Better Call Saul e ci divertivamo parecchio. Durante le pause pranzo avevo l’abitudine di vagare nei dintorni dell’ufficio immaginando un personaggio maschile con cui tutti erano gentili. Tutti lo amavano e non importa quanto lui potesse essere scortese, tutti continuavano a trattarlo bene». Poi, nella ricerca del perché di questa inspiegabile gentilezza, la storia si è arricchita e al posto di un protagonista maschile si è imposta la figura della scrittrice interpretata da Reha Seehorn, già nel cast di Better Call Saul. Su di lei, a lungo sola in scena, si regge lo sviluppo del racconto. A un certo punto, provata dalla solitudine, ma senza voler smettere d’indagare anche perché incoraggiata dalle prime inquietanti scoperte, Carol cambia strategia, smorzando la sua ostilità…
Il titolo della serie deriva da «E pluribus unum», cioè «da molti, uno», antico motto degli Stati Uniti, proposto il 4 luglio 1776 per simboleggiare l’unione delle prime 13 colonie in una sola nazione. Gilligan ha trasferito la suggestione di quel motto a una dimensione esistenziale e filosofica, inscenando una sorta di apocalisse dolce per riflettere sulla problematica convivenza tra singolo e collettività. Per questo, in origine, Plur1bus era scritto con l’1 al posto della «i».
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Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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