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2021-11-08
Sotto attacco
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Dopo gli archivi informatici sanitari della Regione Lazio, è toccato al sito Web della Siae, la società degli autori ed editori. È il segnale di quanto siano vulnerabili i gestori e gli utenti di sistemi informatici. Nessuno è al sicuro dai cybercriminali che operano in modo illecito per danneggiare e trarre profitti senza lasciare traccia. Nel 2020, durante la pandemia, i casi trattati dal Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche (Cnaipic) della polizia postale hanno segnato un incremento allarmante: +246% rispetto all'anno precedente, con +78% di persone indagate. Il 2021 è stato anche peggio. Nei primi sei mesi dell'anno sono stati denunciati 2.982 attacchi che rappresentano quasi il 74% di quelli rilevati nell'intero 2020. Di questi, 95 sono incursioni verso siti Internet istituzionali e infrastrutture informatizzate di interesse nazionale; 245 hanno preso di mira operatori di servizi essenziali, pubbliche amministrazioni locali e infrastrutture sensibili locali, mentre gli altri 2.642 (l'89%) si sono diretti verso privati e aziende.
Mentre la pandemia stravolgeva le routine lavorative e familiari, i criminali informatici hanno colto la palla al balzo e hanno sfruttato il lockdown per mettere a segno colpi importanti. La via d'accesso più semplice l'hanno fornita i cittadini costretti allo smart working: utilizzando i computer di casa per connettersi alla rete aziendale li hanno trasformati, in molte occasioni, in una porta d'ingresso per cyberattacchi. Ma sono state colpite anche istituzioni pubbliche, comprese infrastrutture critiche come i servizi sanitari. La minaccia della criminalità informatica è aumentata anche per l'abilità tecnologica dei pirati. Il fenomeno più preoccupante è l'incremento dell'attività dei ransomware, cioè software dannosi che infettano un dispositivo digitale (computer, tablet, smartphone, tv), bloccando l'accesso ai contenuti, in genere per chiedere un riscatto in denaro con pagamento in criptovaluta.
Ma nell'ultimo periodo si sono moltiplicati anche gli attacchi con double extortion: al ricatto si aggiunge la minaccia di selezionare i dati rubati, minacciando le vittime di darne diffusione pubblica o di venderli sul dark Web al miglior offerente. Il 67% di tutti gli attacchi malware è stato di tipo ransomware. In Italia, il Cnaipic, da inizio anno a oggi, ha trattato 230 casi di ransomware. Senza contare quelli sommersi: di chi, cioè, ha pagato un riscatto e non ha denunciato. L'ultimo rapporto Clusit, che sarà presentato domani al Security summit 2021, fa capire la portata del problema. Rispetto al secondo semestre 2020, nel primo semestre 2021 la crescita maggiore nel numero di attacchi gravi si osserva nelle categorie trasporti e logistica (+108,7%), seguono le attività tecniche e professionali (+85,2%), le news e multimedia (+65,2%), il commercio al dettaglio (+61,3%), la manifattura industriale (+46,9%). In crescita anche gli attacchi alle aziende che producono energia e alle utility (+46,2%), agli enti pubblici (+39,2%), all'intrattenimento (+36,8%) e al mondo sanitario (+18,8%).
Quanto alla violenza dei cyberassalti, nel 2020 quelli con impatto critico rappresentavano il 13% del totale e quelli di livello alto il 36%, quelli di portata media il 32% e quelli di livello basso il 19%. Nel primo semestre 2021 il quadro è peggiorato. Gli attacchi critici sono saliti al 32% e quelli di gravità appena inferiore al 49%: se nel 2020 la loro somma rappresentava il 49%, ora si registra un balzo all'81%. Che il fenomeno sia estremamente preoccupante lo conferma anche il sistema di vigilanza di un operatore come Fastweb, primo a introdurre in Italia la fibra ottica nella trasmissione dati: il suo Security operations center ha registrato 36 milioni di eventi malevoli dal 1° gennaio al 31 agosto 2021, con un forte aumento (+180%) rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
I pirati informatici agiscono soprattutto per chiedere un riscatto (+350%). I soldi fanno sempre gola. Ma è redditizio anche il mercato nero delle informazioni con relativa violazione della riservatezza personale, fenomeno conosciuto come «data breach». Nella classifica delle sanzioni inflitte nei Paesi europei, l'Italia figura al terzo posto (dopo Lussemburgo e Irlanda) per entità delle multe e al secondo, dopo la Spagna, per il loro numero totale: sono state 97 le sanzioni inflitte dal Garante della riservatezza per complessivi 89.650.096 euro, di cui 7 milioni di euro per «data breach».
Nella seconda edizione dell'Apulia cybersecurity forum, che si aprirà il 12 novembre, la società di tecnologie software Exprivia presenterà un report allarmante. Nonostante che il numero complessivo di casi (273 tra attacchi, incidenti e violazioni della privacy) nel terzo trimestre 2021 sia leggermente inferiore ai 280 del secondo trimestre, è aumentato il numero di incidenti andati a buon fine. Per il numero di attacchi, l'Osservatorio cybersecurity di Exprivia ha registrato un notevole aumento delle violazioni della privacy: +40% rispetto al secondo trimestre 2021. Spiega Agostino Ghiglia, membro del Garante per la riservatezza: «La causa principale delle violazioni ha riguardato le credenziali rubate. L'82% degli utenti riconosce di utilizzare la medesima password per più account. Questo è un tipo di dato che, una volta trafugato, genera con più facilità nuove e più vaste violazioni. Al contempo, i dati personali degli utenti come nome, indirizzo mail e password sono stati tra le informazioni più esposte nel 44% delle violazioni analizzate. Tutto ciò in futuro potrebbe determinare un effetto a catena, con username e password rubate che diventano potenziali agganci per realizzare nuove aggressioni».
Su quest'ambito sempre più redditizio non poteva che metter le mani la criminalità organizzata. Le mafie sfruttano le comunicazioni cifrate per fare rete, utilizzano le reti sociali e i servizi di messaggistica istantanea per raggiungere un pubblico più vasto. L'ambiente e il commercio online forniscono ai criminali l'accesso a competenze e strumenti sofisticati. La rapida digitalizzazione della società e dell'economia crea opportunità per la nuova frontiera illegale. Prepariamoci, dunque, a fare i conti con una criminalità cibernetica sempre più raffinata.
Sola, pensionata, sprovveduta cade in trappola per un messaggio
È una storia che abbiamo imparato a conoscere e che si replicando alla stessa velocità del coronavirus. Una chiamata - o un messaggio sul cellulare - può stravolgerti la vita. Non immaginava di cadere in una trappola la signora M.C., maestra ultrasettantenne in pensione, quando ha risposto a un messaggio con una semplice parola: «Sì». Due lettere e l'inizio di un incubo. Sì alla proposta di avere maggiori informazioni su guadagni facili che un'azienda offriva ai clienti. In meno di 24 ore, da un messaggio si è passati alle telefonate quotidiane di due uomini dalla voce rassicurante. La vittima ripercorre con sofferenza quel periodo terribile. Messaggio dopo messaggio, bonifico dopo bonifico, è arrivata ad affidare il proprio conto bancario a sconosciuti che, in meno di 5 mesi, le hanno prosciugato il conto. Un danno da oltre 136.000 euro. «Mi sento una sciocca», ammette, «neanche io so come ho fatto a fidarmi e in più, non avendo dimestichezza con il computer, non ho mai pensato a controllare. Mi sono fidata di importi fasulli che apparivano sullo schermo, li credevo i miei guadagni giornalieri… Ovviamente tutto finto».
Agganciata la vittima, il primo truffatore, che si faceva chiamare Alan Blanc, convince M.C. a istallare sul pc un'applicazione per accedere alla piattaforma digitale. Lei segue alla lettera ciò che le viene detto, fino a inviare i propri dati personali, la foto di un'utenza e la copia della carta di credito. Poi versa i primi 250 euro. Il truffatore si fa autorizzare anche a prelievi diretti al bancomat per «investire i soldi in prodotti azionari». M.C. chiede solo di non investire in aziende produttrici di armi. Ogni pomeriggio Alan le fa visualizzare i guadagni. Dopo cinque mesi la pensionata chiede di rientrare in possesso dei soldi, ma la risposta non è quella che sperava. Il sedicente consulente la convince ad attendere. I sospetti della donna crescono quando apprende che era stato aperto, a sua insaputa, un conto in una banca polacca. Qui entra in scena il secondo truffatore. Si fa chiamare Christian Paul Gache: a questo nome sono legate varie truffe messe a segno attraverso l'utenza telefonica 353-3644541. E Alan Blanc? Ha dato forfait: è malato di Covid.
Se M.C. vuole i propri soldi, deve operare su una piattaforma nuova nella quale è stato dirottato il denaro e versare il 3% di quanto sborsato finora per le tasse. Solo a quel punto l'anziana capisce di essere stata truffata. Dopo qualche giorno si rivolge alla guardia di finanza e poi all'Adico, associazione di consumatori che da anni si batte contro le truffe online. Ora M.C. è sola, piena di debiti e in difficoltà ad arrivare a fine mese. Ma non ha perso la fiducia nella giustizia. «Nel 2021, solo per le truffe al codice bancario», spiega il presidente Adico Carlo Garofolini, «abbiamo avviato poco meno di 260 pratiche per un valore di circa 1,8 milioni di euro sottratti: si va da un minimo di 700 a un massimo di 30.000 euro. Abbiamo risolto il 40% dei casi con trattative per nulla scontate con le banche; gli altri sono ancora in discussione. Nella maggior parte delle controversie abbiamo ottenuto un rimborso fra il 50 e il 70% delle somme sottratte: lo consideriamo un grande risultato. Non è facile stabilire fino a che punto la responsabilità è della banca e dei suoi sistemi di sicurezza, oppure del correntista che, seppur in buona fede, fornisce le proprie credenziali. In alcuni casi abbiano ottenuto la restituzione del 100% della somma sottratta a fronte di colpe, dimostrate e riconosciute, della sola banca».
«Mafia e criminalità mettono le mani su un mercato ricco»
La criminalità organizzata sta mettendo le mani sul mercato molto remunerativo degli attacchi informatici. Ne parla Ivano Gabrielli, direttore del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche della polizia postale.
Che fenomeni osservate?
«Gruppi che fino a qualche tempo fa erano connotati sul territorio cominciano a comprendere come sia profittevole un'attività che sfrutta il Web. Con un minimo investimento riescono ad acquisire enormi risorse, a riciclarle e a reinvestirle».
Quali segnali avete colto?
«I reati contro il patrimonio stanno lasciando il passo ai cyberattacchi. Quando il ricatto informatico va in porto, il profitto illecito incassato viene riciclato, a volte ad alto livello con criptomonete, oppure semplicemente ingegnerizzando una struttura di “muli", cioè soggetti che riescono a incassare profitti di campagne di phishing. Questa operazione può essere fatta soltanto da una forte organizzazione in grado di muovere persone sicure. Una gestione e un controllo che può avere solo la criminalità organizzata».
Avete già sventato intrecci di questo tipo?
«Il caso più recente è l'operazione internazionale Fontana-Almabahía che, in collaborazione con la polizia spagnola, ha smantellato un gruppo criminale a Santa Cruz di Tenerife composto prevalentemente da italiani dediti alle frodi online e al riciclaggio di denaro. Ne facevano parte oltre 150 persone».
Come operavano?
«Si avvalevano di hacker specializzati nell'impossessarsi delle credenziali bancarie di italiani, spagnoli, inglesi, tedeschi e irlandesi. Disponevano bonifici bancari per migliaia di euro in favore di 118 conti correnti spagnoli intestati a “muli" riciclatori, italiani residenti in Spagna. Con quei soldi venivano acquistate criptovalute o finanziate altre attività criminali: prostituzione, droga, armi. Un giro d'affari di oltre 10 milioni di euro solo nell'ultimo anno».
Possiamo parlare di fenomeno criminale di alto livello?
«Sì. Servono elevate competenze informatiche che stanno diventando appannaggio di diverse bande criminali».
Come?
«La criminalità agisce “in service": professionisti e organizzazioni malavitose sviluppano strumenti e servizi “pronti all'uso" acquistabili per attuare attacchi complessi anche senza le conoscenze tecniche necessarie. Ci sono bande che, dopo aver ingegnerizzato le metodologie di attacco, vendono i servizi in pacchetti».
Che cosa manca in Italia? E che cosa va migliorato?
«Bisognerebbe ripensare la normativa penale e quella processuale per fornire gli adeguati strumenti investigativi. Per alcuni reati informatici sono previste pene non commisurate all'effettivo danno. Occorre prevedere aggravanti. Va ripensato anche il criterio della competenza, che attualmente spetta alla Procura dove risiede il reo e non la vittima. Così le indagini nascono su un territorio e finiscono su un altro, si dilatano i tempi e non si tiene conto che il reato si concretizza dove la vittima riceve il danno. C'è poi un terzo ambito di intervento».
Che intende?
«La cooperazione internazionale, soprattutto di tipo giudiziario. Ormai non esiste più un attacco informatico o un'azione di cybercriminalità che non preveda l'ingaggio di un collaterale estero. Il mancato allineamento delle varie legislazioni complica enormemente l'attività di contrasto».
Quali sono le situazioni più pericolose?
«Sicuramente i casi in cui le vittime possono essere oggetto di maggiore pressione. La vittima ideale è quella che, al momento dell'attacco, non può vedersi bloccare l'erogazione di alcuni servizi. È la più esposta a ricatti».
Eravamo preparati allo smart working in termini di sicurezza informatica? I rischi di cyberattacchi sono stati sottovalutati?
«Il cambio repentino delle modalità lavorative ha spiazzato chi gestisce la sicurezza informatica di aziende e amministrazioni. Non si era pronti a gestire una tale mole di attività svolte da casa. Pensiamo a una banca: una sede fisica, la guardia giurata all'ingresso, i vetri blindati, i controlli di sicurezza. Ora chi decide di aggredire un patrimonio lo fa in maniera virtuale».
Dove si concentrano i cyberattacchi?
«Il maggior numero di vittime è al Nord. Nella pubblica amministrazione, invece, gli esempi virtuosi si trovano dappertutto: qui il discrimine non è la collocazione geografica ma la competenza dei manager pubblici».
Che cosa consiglia per prevenire o almeno essere pronti a contrastare i pirati informatici?
«Le aziende devono guardare alla sicurezza cibernetica come settore prioritario e investire. È fondamentale avere all'interno figure professionali cui affidare l'ingegnerizzazione dei processi di sicurezza senza affidarsi a servizi esterni che a loro volta possono diventare il veicolo di attacchi. Suggerisco anche di fare sistema e rivolgersi alle istituzioni anche in via consultiva. Ultima raccomandazione: la sicurezza non è solo un costo che evita altri costi: dare un servizio in sicurezza fa la differenza».
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Impennata delle truffe informatiche, l'Italia secondo Paese europeo più sanzionato per il furto di dati sensibili. Ora al ricatto economico si unisce la minaccia di vendere o diffondere le informazioni riservateL'inganno arriva dal telefonino: 136.000 euro finiscono in tasca a due imbroglioniIl dirigente della polizia postale Ivano Gabrielli: «Con un minimo investimento si ottengono grandi profitti da riciclare in droga o criptovalute»Lo speciale contiene due articoliDopo gli archivi informatici sanitari della Regione Lazio, è toccato al sito Web della Siae, la società degli autori ed editori. È il segnale di quanto siano vulnerabili i gestori e gli utenti di sistemi informatici. Nessuno è al sicuro dai cybercriminali che operano in modo illecito per danneggiare e trarre profitti senza lasciare traccia. Nel 2020, durante la pandemia, i casi trattati dal Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche (Cnaipic) della polizia postale hanno segnato un incremento allarmante: +246% rispetto all'anno precedente, con +78% di persone indagate. Il 2021 è stato anche peggio. Nei primi sei mesi dell'anno sono stati denunciati 2.982 attacchi che rappresentano quasi il 74% di quelli rilevati nell'intero 2020. Di questi, 95 sono incursioni verso siti Internet istituzionali e infrastrutture informatizzate di interesse nazionale; 245 hanno preso di mira operatori di servizi essenziali, pubbliche amministrazioni locali e infrastrutture sensibili locali, mentre gli altri 2.642 (l'89%) si sono diretti verso privati e aziende. Mentre la pandemia stravolgeva le routine lavorative e familiari, i criminali informatici hanno colto la palla al balzo e hanno sfruttato il lockdown per mettere a segno colpi importanti. La via d'accesso più semplice l'hanno fornita i cittadini costretti allo smart working: utilizzando i computer di casa per connettersi alla rete aziendale li hanno trasformati, in molte occasioni, in una porta d'ingresso per cyberattacchi. Ma sono state colpite anche istituzioni pubbliche, comprese infrastrutture critiche come i servizi sanitari. La minaccia della criminalità informatica è aumentata anche per l'abilità tecnologica dei pirati. Il fenomeno più preoccupante è l'incremento dell'attività dei ransomware, cioè software dannosi che infettano un dispositivo digitale (computer, tablet, smartphone, tv), bloccando l'accesso ai contenuti, in genere per chiedere un riscatto in denaro con pagamento in criptovaluta. Ma nell'ultimo periodo si sono moltiplicati anche gli attacchi con double extortion: al ricatto si aggiunge la minaccia di selezionare i dati rubati, minacciando le vittime di darne diffusione pubblica o di venderli sul dark Web al miglior offerente. Il 67% di tutti gli attacchi malware è stato di tipo ransomware. In Italia, il Cnaipic, da inizio anno a oggi, ha trattato 230 casi di ransomware. Senza contare quelli sommersi: di chi, cioè, ha pagato un riscatto e non ha denunciato. L'ultimo rapporto Clusit, che sarà presentato domani al Security summit 2021, fa capire la portata del problema. Rispetto al secondo semestre 2020, nel primo semestre 2021 la crescita maggiore nel numero di attacchi gravi si osserva nelle categorie trasporti e logistica (+108,7%), seguono le attività tecniche e professionali (+85,2%), le news e multimedia (+65,2%), il commercio al dettaglio (+61,3%), la manifattura industriale (+46,9%). In crescita anche gli attacchi alle aziende che producono energia e alle utility (+46,2%), agli enti pubblici (+39,2%), all'intrattenimento (+36,8%) e al mondo sanitario (+18,8%). Quanto alla violenza dei cyberassalti, nel 2020 quelli con impatto critico rappresentavano il 13% del totale e quelli di livello alto il 36%, quelli di portata media il 32% e quelli di livello basso il 19%. Nel primo semestre 2021 il quadro è peggiorato. Gli attacchi critici sono saliti al 32% e quelli di gravità appena inferiore al 49%: se nel 2020 la loro somma rappresentava il 49%, ora si registra un balzo all'81%. Che il fenomeno sia estremamente preoccupante lo conferma anche il sistema di vigilanza di un operatore come Fastweb, primo a introdurre in Italia la fibra ottica nella trasmissione dati: il suo Security operations center ha registrato 36 milioni di eventi malevoli dal 1° gennaio al 31 agosto 2021, con un forte aumento (+180%) rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. I pirati informatici agiscono soprattutto per chiedere un riscatto (+350%). I soldi fanno sempre gola. Ma è redditizio anche il mercato nero delle informazioni con relativa violazione della riservatezza personale, fenomeno conosciuto come «data breach». Nella classifica delle sanzioni inflitte nei Paesi europei, l'Italia figura al terzo posto (dopo Lussemburgo e Irlanda) per entità delle multe e al secondo, dopo la Spagna, per il loro numero totale: sono state 97 le sanzioni inflitte dal Garante della riservatezza per complessivi 89.650.096 euro, di cui 7 milioni di euro per «data breach».Nella seconda edizione dell'Apulia cybersecurity forum, che si aprirà il 12 novembre, la società di tecnologie software Exprivia presenterà un report allarmante. Nonostante che il numero complessivo di casi (273 tra attacchi, incidenti e violazioni della privacy) nel terzo trimestre 2021 sia leggermente inferiore ai 280 del secondo trimestre, è aumentato il numero di incidenti andati a buon fine. Per il numero di attacchi, l'Osservatorio cybersecurity di Exprivia ha registrato un notevole aumento delle violazioni della privacy: +40% rispetto al secondo trimestre 2021. Spiega Agostino Ghiglia, membro del Garante per la riservatezza: «La causa principale delle violazioni ha riguardato le credenziali rubate. L'82% degli utenti riconosce di utilizzare la medesima password per più account. Questo è un tipo di dato che, una volta trafugato, genera con più facilità nuove e più vaste violazioni. Al contempo, i dati personali degli utenti come nome, indirizzo mail e password sono stati tra le informazioni più esposte nel 44% delle violazioni analizzate. Tutto ciò in futuro potrebbe determinare un effetto a catena, con username e password rubate che diventano potenziali agganci per realizzare nuove aggressioni». Su quest'ambito sempre più redditizio non poteva che metter le mani la criminalità organizzata. Le mafie sfruttano le comunicazioni cifrate per fare rete, utilizzano le reti sociali e i servizi di messaggistica istantanea per raggiungere un pubblico più vasto. L'ambiente e il commercio online forniscono ai criminali l'accesso a competenze e strumenti sofisticati. La rapida digitalizzazione della società e dell'economia crea opportunità per la nuova frontiera illegale. 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In meno di 24 ore, da un messaggio si è passati alle telefonate quotidiane di due uomini dalla voce rassicurante. La vittima ripercorre con sofferenza quel periodo terribile. Messaggio dopo messaggio, bonifico dopo bonifico, è arrivata ad affidare il proprio conto bancario a sconosciuti che, in meno di 5 mesi, le hanno prosciugato il conto. Un danno da oltre 136.000 euro. «Mi sento una sciocca», ammette, «neanche io so come ho fatto a fidarmi e in più, non avendo dimestichezza con il computer, non ho mai pensato a controllare. Mi sono fidata di importi fasulli che apparivano sullo schermo, li credevo i miei guadagni giornalieri… Ovviamente tutto finto». Agganciata la vittima, il primo truffatore, che si faceva chiamare Alan Blanc, convince M.C. a istallare sul pc un'applicazione per accedere alla piattaforma digitale. Lei segue alla lettera ciò che le viene detto, fino a inviare i propri dati personali, la foto di un'utenza e la copia della carta di credito. Poi versa i primi 250 euro. Il truffatore si fa autorizzare anche a prelievi diretti al bancomat per «investire i soldi in prodotti azionari». M.C. chiede solo di non investire in aziende produttrici di armi. Ogni pomeriggio Alan le fa visualizzare i guadagni. Dopo cinque mesi la pensionata chiede di rientrare in possesso dei soldi, ma la risposta non è quella che sperava. Il sedicente consulente la convince ad attendere. I sospetti della donna crescono quando apprende che era stato aperto, a sua insaputa, un conto in una banca polacca. Qui entra in scena il secondo truffatore. Si fa chiamare Christian Paul Gache: a questo nome sono legate varie truffe messe a segno attraverso l'utenza telefonica 353-3644541. E Alan Blanc? Ha dato forfait: è malato di Covid. Se M.C. vuole i propri soldi, deve operare su una piattaforma nuova nella quale è stato dirottato il denaro e versare il 3% di quanto sborsato finora per le tasse. Solo a quel punto l'anziana capisce di essere stata truffata. Dopo qualche giorno si rivolge alla guardia di finanza e poi all'Adico, associazione di consumatori che da anni si batte contro le truffe online. Ora M.C. è sola, piena di debiti e in difficoltà ad arrivare a fine mese. Ma non ha perso la fiducia nella giustizia. «Nel 2021, solo per le truffe al codice bancario», spiega il presidente Adico Carlo Garofolini, «abbiamo avviato poco meno di 260 pratiche per un valore di circa 1,8 milioni di euro sottratti: si va da un minimo di 700 a un massimo di 30.000 euro. Abbiamo risolto il 40% dei casi con trattative per nulla scontate con le banche; gli altri sono ancora in discussione. Nella maggior parte delle controversie abbiamo ottenuto un rimborso fra il 50 e il 70% delle somme sottratte: lo consideriamo un grande risultato. Non è facile stabilire fino a che punto la responsabilità è della banca e dei suoi sistemi di sicurezza, oppure del correntista che, seppur in buona fede, fornisce le proprie credenziali. In alcuni casi abbiano ottenuto la restituzione del 100% della somma sottratta a fronte di colpe, dimostrate e riconosciute, della sola banca». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sotto-attacco-2655516100.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="mafia-e-criminalita-mettono-le-mani-su-un-mercato-ricco" data-post-id="2655516100" data-published-at="1636282624" data-use-pagination="False"> «Mafia e criminalità mettono le mani su un mercato ricco» La criminalità organizzata sta mettendo le mani sul mercato molto remunerativo degli attacchi informatici. Ne parla Ivano Gabrielli, direttore del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche della polizia postale. Che fenomeni osservate? «Gruppi che fino a qualche tempo fa erano connotati sul territorio cominciano a comprendere come sia profittevole un'attività che sfrutta il Web. Con un minimo investimento riescono ad acquisire enormi risorse, a riciclarle e a reinvestirle». Quali segnali avete colto? «I reati contro il patrimonio stanno lasciando il passo ai cyberattacchi. Quando il ricatto informatico va in porto, il profitto illecito incassato viene riciclato, a volte ad alto livello con criptomonete, oppure semplicemente ingegnerizzando una struttura di “muli", cioè soggetti che riescono a incassare profitti di campagne di phishing. Questa operazione può essere fatta soltanto da una forte organizzazione in grado di muovere persone sicure. Una gestione e un controllo che può avere solo la criminalità organizzata». Avete già sventato intrecci di questo tipo? «Il caso più recente è l'operazione internazionale Fontana-Almabahía che, in collaborazione con la polizia spagnola, ha smantellato un gruppo criminale a Santa Cruz di Tenerife composto prevalentemente da italiani dediti alle frodi online e al riciclaggio di denaro. Ne facevano parte oltre 150 persone». Come operavano? «Si avvalevano di hacker specializzati nell'impossessarsi delle credenziali bancarie di italiani, spagnoli, inglesi, tedeschi e irlandesi. Disponevano bonifici bancari per migliaia di euro in favore di 118 conti correnti spagnoli intestati a “muli" riciclatori, italiani residenti in Spagna. Con quei soldi venivano acquistate criptovalute o finanziate altre attività criminali: prostituzione, droga, armi. Un giro d'affari di oltre 10 milioni di euro solo nell'ultimo anno». Possiamo parlare di fenomeno criminale di alto livello? «Sì. Servono elevate competenze informatiche che stanno diventando appannaggio di diverse bande criminali». Come? «La criminalità agisce “in service": professionisti e organizzazioni malavitose sviluppano strumenti e servizi “pronti all'uso" acquistabili per attuare attacchi complessi anche senza le conoscenze tecniche necessarie. Ci sono bande che, dopo aver ingegnerizzato le metodologie di attacco, vendono i servizi in pacchetti». Che cosa manca in Italia? E che cosa va migliorato? «Bisognerebbe ripensare la normativa penale e quella processuale per fornire gli adeguati strumenti investigativi. Per alcuni reati informatici sono previste pene non commisurate all'effettivo danno. Occorre prevedere aggravanti. Va ripensato anche il criterio della competenza, che attualmente spetta alla Procura dove risiede il reo e non la vittima. Così le indagini nascono su un territorio e finiscono su un altro, si dilatano i tempi e non si tiene conto che il reato si concretizza dove la vittima riceve il danno. C'è poi un terzo ambito di intervento». Che intende? «La cooperazione internazionale, soprattutto di tipo giudiziario. Ormai non esiste più un attacco informatico o un'azione di cybercriminalità che non preveda l'ingaggio di un collaterale estero. Il mancato allineamento delle varie legislazioni complica enormemente l'attività di contrasto». Quali sono le situazioni più pericolose? «Sicuramente i casi in cui le vittime possono essere oggetto di maggiore pressione. La vittima ideale è quella che, al momento dell'attacco, non può vedersi bloccare l'erogazione di alcuni servizi. È la più esposta a ricatti». Eravamo preparati allo smart working in termini di sicurezza informatica? I rischi di cyberattacchi sono stati sottovalutati? «Il cambio repentino delle modalità lavorative ha spiazzato chi gestisce la sicurezza informatica di aziende e amministrazioni. Non si era pronti a gestire una tale mole di attività svolte da casa. Pensiamo a una banca: una sede fisica, la guardia giurata all'ingresso, i vetri blindati, i controlli di sicurezza. Ora chi decide di aggredire un patrimonio lo fa in maniera virtuale». Dove si concentrano i cyberattacchi? «Il maggior numero di vittime è al Nord. Nella pubblica amministrazione, invece, gli esempi virtuosi si trovano dappertutto: qui il discrimine non è la collocazione geografica ma la competenza dei manager pubblici». Che cosa consiglia per prevenire o almeno essere pronti a contrastare i pirati informatici? «Le aziende devono guardare alla sicurezza cibernetica come settore prioritario e investire. È fondamentale avere all'interno figure professionali cui affidare l'ingegnerizzazione dei processi di sicurezza senza affidarsi a servizi esterni che a loro volta possono diventare il veicolo di attacchi. Suggerisco anche di fare sistema e rivolgersi alle istituzioni anche in via consultiva. Ultima raccomandazione: la sicurezza non è solo un costo che evita altri costi: dare un servizio in sicurezza fa la differenza».
Ansa
Questo, infatti, «prevede un principio fondamentale del nostro ordinamento, non derogabile neppure da fonti internazionali. Insieme all’articolo 2», ossia quello che sancisce l’inviolabilità dei diritti umani, «può fungere da controlimite anche verso il diritto Ue, che non avrebbe ingresso in Italia».
Prodigi dell’ideologia: all’improvviso, il corpaccione di direttive e regolamenti europei non è più sacro, inviolabile, sistematicamente anteposto alle leggi nazionali; se di mezzo ci sono i rimpatri veloci, oppure l’idea che Egitto, Bangladesh e Tunisia siano Stati nei quali è lecito rispedire i migranti, i giudici riscoprono nella nostra Costituzione un argine. E anziché disapplicare le norme italiane, vietano l’«ingresso» a quelle europee.
Peraltro, Minniti, già candidato al Csm per Area, corrente di centrosinistra, nel 2021, era stato uno dei primi, un paio d’anni fa, a sconfessare la lista governativa dei Paesi sicuri: bocciò la decisione di infilarci dentro proprio la Tunisia. Va però segnalato che, a dispetto dell’omonimia con il ministro piddino, noto per aver messo un freno alle missioni delle Ong nel Mediterraneo, quello della Costituzione «come limite alla regressione e spinta al rafforzamento della protezione dello straniero» - citiamo il titolo di un suo articolo del 2018 - era un vecchio pallino di Minniti. Ne scrisse già sette anni fa, appunto, su Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica. Tanto per fugare ogni eventuale dubbio sulla sua neutralità politica.
La posizione delle toghe, dunque, è questa: se le leggi italiane sono più severe delle norme europee in materia di immigrazione, allora bisogna snobbare le leggi nazionali, in nome del primato del diritto Ue, autenticamente umanitario; ma se l’Ue, su impulso dell’Eurocamera e del Consiglio, impone un giro di vite, allora il primato del diritto europeo va a farsi benedire, perché gli subentra il controlimite della Costituzione. Oltre alla possibilità, accordata dalla Corte di Lussemburgo ai magistrati e rivendicata da Minniti, di questionare gli elenchi dei Paesi sicuri.
È un meccanismo che si mette in moto ogni volta che Roma o Bruxelles cercano di moderare i flussi migratori e di accelerare le espulsioni. Ed è un peccato che, tra i «principi fondamentali del nostro ordinamento, non derogabili neppure da fonti internazionali», di cui parlava Minniti al Manifesto, insieme alle prerogative degli stranieri, non vengano considerate quelle degli italiani.
Nel novero dei «diritti inviolabili», sancito dall’articolo 2 della Carta, dovrebbero rientrare tutti quelli indicati dalla Dichiarazione Onu del 1948. Compresi il diritto alla vita e alla «sicurezza della propria persona». Che, a quanto risulta dalle statistiche del Viminale, sono messi a repentaglio dall’invasione degli immigrati, i quali vengono arrestati o denunciati per il 60% dei reati predatori, senza contare il 44% delle violenze sessuali, benché gli stranieri siano solo il 9% della popolazione.
E poi, la Costituzione non afferma che la sovranità appartiene al popolo? Nell’esercitarla, i rappresentanti eletti in Parlamento non possono certo perpetrare degli abusi sulle minoranze. Ma in mezzo ai tanti diritti intoccabili di bengalesi, egiziani e subsahariani, possibile non ci sia uno spazietto per il diritto del popolo a regolamentare il fenomeno dell’immigrazione? A rendere più efficace e rapido il sistema dei rimpatri?
Non vogliamo spingerci fino a sostenere un argomento estremo: siccome la Costituzione fu sospesa durante la pandemia a detrimento degli italiani, rinchiusi, multati se circolavano dopo le dieci di sera, esclusi da lavoro e stipendio se non si vaccinavano, allora essa può ben essere sospesa allo scopo di controllare i confini e tutelare l’ordine pubblico. No, il punto è un altro: siamo così sicuri che rimandare a casa sua un adulto sano, che non rischia di essere perseguitato né ucciso in guerra, senza aspettare i consueti «due anni» che secondo Minniti impiegano le Corti per pronunciarsi, significhi fare carne di porco della nostra nobile civiltà giuridica? Va benissimo preoccuparsi della «protezione dello straniero». Ma gli italiani chi li protegge?
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Ansa
L’ordinanza, firmata dal giudice Ludovico Morello, dispone «la cessazione del trattenimento» nel Cpr, smentendo la convalida già emessa dalla stessa Corte e arrivando a smontarla, senza che nel frattempo sia accaduto nulla che non fosse già noto. E infatti gli uffici del ministero dell’Interno starebbero valutando di impugnare la decisione.
Il giudice, nella premessa, ricorda che il ricorso è ammesso «qualora si verifichino circostanze o emergano nuove informazioni che possano mettere in discussione la legittimità del trattenimento». Poi interpreta: «Seppure non possa parlarsi di revoca giurisdizionale della convalida, è da ritenere consentita comunque una domanda di riesame del trattenimento dello straniero e che, mancando una apposita disciplina normativa al riguardo, esso possa farsi valere con lo strumento generico del procedimento camerale […] per ottenere un diverso esame dei presupposti del trattenimento alla luce di circostanze di fatto nuove o non considerate nella sede della convalida». Alla base della decisione ci sarebbe quindi l’assenza «di un’apposita disciplina normativa». Ed ecco trovato il varco. Il primo elemento indicato riguarda i procedimenti penali richiamati nel decreto di convalida: uno, nato su segnalazione della Digos, per le parole pronunciate durante una manifestazione, il 9 ottobre, che sembravano giustificare il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, il secondo per un blocco stradale risalente allo scorso maggio al quale l’imam avrebbe partecipato insieme a un gruppo pro Pal. Il giudice scrive che «gli atti relativi a tali procedimenti non risultano essere stati secretati» e che l’assenza di segreto era stata, «contrariamente a quanto si pensava in un primo momento», ignorata nella decisione precedente, che aveva valorizzato proprio quel presupposto «a supporto del giudizio di pericolosità». Il primo procedimento, secondo il giudice, sarebbe stato «immediatamente archiviato (in data 16 ottobre, ndr) da parte della stessa Procura», perché le dichiarazioni del trattenuto sarebbero «espressione di pensiero che non integra estremi di reato». Ma se l’archiviazione è del 16 ottobre e la convalida è del 28 novembre, il fatto non è sopravvenuto. È precedente. Eppure viene trattato come elemento nuovo.
Non solo. La Corte precisa, citando la Costituzione, che le dichiarazioni dell’imam sarebbero «pienamente lecite» e aggiunge che la «condivisibilità o meno e la loro censurabilità etica e morale» è un giudizio che «non compete in alcun modo» alla Corte e «non può incidere di per sé solo sul giudizio di pericolosità in uno Stato di diritto».
«Parliamo di una persona che ha definito l’attacco del 7 ottobre un atto di “resistenza”, negandone la violenza», ha commentato sui social il premier Giorgia Meloni, aggiungendo: «Dalle mie parti significa giustificare, se non istigare, il terrorismo. Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». La stessa dinamica si ripete sul blocco stradale del 17 maggio 2025. La Corte afferma che «dall’esame degli atti emerge una condotta del trattenuto non connotata da alcuna violenza». Anche qui non viene indicato alcun fatto nuovo. Cambia solo il giudizio. Anche i contatti con soggetti indagati o condannati per terrorismo vengono ridimensionati. Nella precedente decisione a quelle relazioni era stato attribuito un certo peso specifico: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo, trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Nel 2018, in un’indagine su Elmahdi Halili (condannato nel 2019, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2022, per aver partecipato all’organizzazione terroristica dello Stato islamico), «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». Rapporti che ora diventano «isolati, decisamente datati» e «ampiamente spiegati e giustificati dal trattenuto nel corso della convalida». Spiegazioni che erano già state rese prima del 28 novembre, ma che allora non avevano impedito la convalida.
Nel decreto di Piantedosi, l’imam veniva indicato come un uomo «radicalizzato», «portatore di ideologia fondamentalista e antisemita». Ma, soprattutto, come vicino alla Fratellanza musulmana, movimento politico-religioso sunnita nato in Egitto nel 1928, che punta a costruire uno Stato ispirato alla legge islamica. Unico passaggio, quello sulla Fratellanza musulmana, al quale il giudice non fa cenno.
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Mohammad Shahin (Ansa)
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
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