- Da Milano alla Sicilia, aiutare gli altri per il Corpo nazionale sta diventando sempre più difficoltoso. Mancano pure spogliatoi per le donne. Gli effettivi fanno i pendolari da una Regione all’altra viaggiando di tasca propria.
- Il pompiere-rappresentante sindacale Paolo Cergnar: «Questi soldi coprono a malapena le attività ordinarie su Roma. Si fa quel che si può».
Lo speciale contiene due articoli
Il Corpo nazionale dei vigili del fuoco è considerato uno dei più apprezzati e stimati in Italia per il costante impegno al servizio dei cittadini. Andando, però, oltre l’immagine specchiata di uomini e donne fieri, preparati e pronti a mettere a rischio la propria vita per aiutare il prossimo, si arriva a una realtà difficile, fatta di carenze e problemi che ricadono direttamente su ognuno di noi. Un dato su tutti che ben fa comprendere la portata del problema sta nel numero di vigili del fuoco che operano in Italia. Ci sono 35.901 unità effettive a fronte di un organico teorico pari a 39.602 unità. In pratica c’è un vigile del fuoco operativo ogni 9.071 abitanti, con un’età media prossima ai 50 anni.
A Brindisi, per esempio, ogni turno di servizio conta solo 20 pompieri, in pratica un vigile del fuoco ogni 20.000 abitanti. A Roma a coprire il dispositivo di soccorso dovrebbero esserci 1.780 unità ma ce ne sono solamente 1.280 divise su quattro turni, quindi 320 vigili a turno. Questo in teoria, perché nella pratica si arriva a 140 vigili del fuoco: ne mancano 86 a turno. Rispetto alle norme europee che impongono un vigile del fuoco ogni 1.000 abitanti, Roma detiene la maglia nera del Paese, raggiungendo il rapporto di un pompiere ogni 30.000 abitanti. Non va meglio a Padova e Livorno, dove c’è una sola squadra completa per tutta la città.
Mancano, però, anche i mezzi. Per il Comune di Milano ci sono solo cinque autopompe operative, a Palermo funzionano solo due autoscale su tre. A Civitavecchia dovrebbero esserci due motobarche per il servizio antincendio in porto e navale, invece sono fuori uso e si ricorre a un gommone. A Roma ci sono 53 autovetture ferme, i pick-up restano inutilizzati per mancanza di personale con la necessaria patente e sono solamente tre le autoscale dentro il Grande raccordo anulare invece delle cinque previste. Insomma, un cane che si morde la coda: dove ci sono i mezzi non c’è il personale idoneo a guidarli e viceversa.
Un paradosso che farebbe sorridere se non si trattasse di personale e mezzi necessari per soccorrere i cittadini e, spesso, salvare loro la vita. E la vita, a Roma, il dentista Ernesto Tafuri l’ha persa: è morto il 5 aprile nel rogo del suo appartamento, nonostante abitasse di fronte alla caserma dei pompieri di Prati sprovvista, in quell’occasione, del mezzo per intervenire dall’esterno, ovvero l’autoscala. Mancano mezzi ma mancano anche le uniformi e dispositivi di protezione individuali (Dpi). A comunicarlo è una circolare della direzione centrale per le risorse logistiche strumentali del luglio 2024, in cui si informava della mancanza di uniformi estive da inviare ai magazzini territoriali di tutta Italia. Nella pratica ciò ha comportato il dover indossare le divise invernali, i pantaloni rotti, le magliette strappate e gli stivali scollati. Un problema, pare, tutt’altro che risolto.
Se per gli uomini la situazione è difficile, per le donne lo è forse di più. «Essere vigile del fuoco è un sogno che si è realizzato»: B.N. deve fare i conti con una parità che fatica ad arrivare a partire dalle piccole cose che, per un vigile del fuoco, significano però tutelare la vita. «Non è facile lavorare con divise pensate per gli uomini. Da quando il Corpo si è aperto anche alle donne non è stato fatto alcun adeguamento. Così ci troviamo a dover indossare divise di taglie non conformi a una donna, realizzate per gli uomini».
Per B.N., come per le altre 404 donne vigili del fuoco, questo comporta una duplice difficoltà: «Operiamo in aree difficili e con abbigliamento scomodo che rende anche pericoloso e più faticoso l’intervento, essendo la nostra divisa una seconda pelle… declinata però al maschile». Mancano persino gli spogliatoi.
Ma non è tutto. A chiudere il desolante quadro c’è il disagio di chi è costretto a fare il pendolare. A Roma sono circa 200 e, come si può immaginare, se viaggi in treno vivi tutti i disagi di un normale cittadino. Peccato, però, che in questo caso i nostri angeli sono costretti a percorrere quotidianamente e a proprie spese (se si viene da fuori Regione, Intercity e Alta velocità non sono comprese nelle convenzioni che rendono gratuiti, per i pompieri, alcuni treni regionali, ndr) centinaia di chilometri per svolgere un servizio di per sé già usurante. Essere vigile del fuoco è per molti una missione, lavorare nella Capitale un sogno che si realizza… ma nella realtà ci si ritrova a fare i conti con difficoltà economiche e psicofisiche. A raccontarlo è S.V.: «Sono pendolare da due anni. Viaggio ogni giorno dalla Campania dove ho famiglia e spese da sostenere. Prendo 1.650 euro di stipendio netto al mese e pagare un affitto a Roma è impossibile. Già devo mettere in conto la spesa per i viaggi che arriva anche a 500 euro. A questo si aggiunge lo stress delle ore in cui si bloccati in treno o in stazione per un guasto o uno sciopero per poi dover intervenire su un incendio». Disagi che ricadono sull’intero servizio quando ci si trova a fare i conti con il ritardo di 10-15 uomini da coprire.
Eppure il problema potrebbe risolversi. La legge n. 197/2022, all’articolo 1, comma 675, ha previsto «al fine di fare fronte alla carenza di alloggi di servizio da destinare al personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco» di istituire «nello stato di previsione del ministero dell’Interno, un fondo con la dotazione di 3 milioni di euro per il triennio 2023-2025». All’articolo 13 del decreto del Viminale («Nuovo regolamento sugli alloggi di servizio») si legge che «in ogni sede che disponga di aree idonee all’impiego anche periodico o saltuario ad alloggio temporaneo collettivo, tali aree sono individuate e la fruizione viene regolamentata dal rispettivo dirigente, salvaguardando le prioritarie esigenze di operatività della sede interessata». Quindi la possibilità di realizzare foresterie non è così lontana anche per i vigili del fuoco. Così come non lo è la possibilità, da parte dei comandi, di stipulare convenzioni per l’alloggiamento del personale dei vigili del fuoco non residenti, come ha fatto quello di Milano. Sempre a Milano il Comune ha destinato il 5% degli alloggi dei Servizi pubblici abitativi (Sap), alle forze di polizia e ai vigili del fuoco. La Regione Lombardia ne ha messi a disposizione altri 70 di Aler. La stessa cosa è avvenuta a Venezia, dove il comando ha stipulato una analoga convenzione con il Comune.
Alla luce dell’anno giubilare anche Roma dovrebbe e potrebbe muoversi per risolvere il problema soprattutto perché, se a oggi è difficile gestire l’ordinario, pare essere assai improbabile far fronte allo straordinario rappresentato dai milioni di fedeli previsti nella Capitale con i vigili del fuoco pendolari. Eppure l’argomento pare non interessare al primo cittadino Roberto Gualtieri a cui è stato chiesto, da parte di una rappresentanza del Corpo, un incontro il 9 aprile scorso. Missiva rimasta lettera morta. Eppure quando a bruciare è stata la «Roma bene», a fianco dei vigili del fuoco c’erano tutti.
Così come c’erano tutti, recentemente, in Emilia-Romagna all’arrivo del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a Bologna il 24 ottobre. Ad attenderlo c’era anche un’autobotte nuova mentre nello stesso momento ai vigili del fuoco che intervenivano a mani nude per aiutare la popolazione è stato dato in sostituzione un mezzo vetusto con più di 20 anni di servizio.
«Siamo così disperati che stiamo già usando i fondi per il Giubileo»
Nell’Italia delle perenni emergenze e della scarsa prevenzione aumentano le difficoltà che i vigili del fuoco devono affrontare, sebbene siano altamente efficienti nelle operazioni di soccorso e risposta alle criticità. A spiegarlo è il vigile coordinatore Paolo Cergnar, in servizio da 13 anni e rappresentante sindacale della Usb Vigili del fuoco.
«Fare il vigile del fuoco oggi significa essere in un Corpo tecnico dello Stato che affronta il soccorso a 360 gradi ma lo fa con armi spuntate e a metà delle sue potenzialità. Non riusciamo a fare il nostro lavoro come vorremmo».
Da cosa dipende?
«Innanzitutto dalla formazione che non viene erogata a tutti nella stessa maniera. Prevenzione e formazione sono due elementi imprescindibili per poter evitare i disastri ai quali ci stiamo troppo spesso abituando. Non avere formazione significa, ad esempio come avviene a Roma, dover tenere fermi mezzi indispensabili come le autobotti e le autoscale. O come il pick-up, che può essere guidato solo con una patente di seconda categoria. Un mezzo fondamentale durante gli incendi boschivi e per entrare nei piccoli centri abitati dove è altrimenti impossibile accedere per portare soccorso».
È solo una questione di formazione?
«Non solo, ma è tutto collegato. Ad esempio i corsi per soccorritori fluviali/alluvionali vengono fatti a singhiozzo. Parliamo della componente speleo-alpino-fluviale (Saf) il cui soccorso specializzato è stato fondamentale durante le alluvioni e gli allagamenti. Non va meglio per nautici, elicotteristi e aeronaviganti. L’antincendio nei porti è ridotto al lumicino. La nostra amministrazione non sta facendo nulla per incrementare questo importante settore. Se ne ricorda solamente nel momento del bisogno, quando purtroppo è tardi. Stesso dicasi per i sommozzatori, che fanno un lavoro impagabile e sono ormai in via d’estinzione. Dovrebbero essere 550 e in realtà c’è una carenza del 35-40% in tutta Italia. Fanno soccorso in scenari complessi e estremi, rischiando in prima persona la loro vita. Solo per ricordarne qualcuno: Il naufragio della Costa, la diga di Suviana (Bologna), il recupero dei lavoratori a Casteldaccia (Palermo) e il naufragio del Bayesian a Porticello (Palermo). Nuclei ormai ridotti sempre di più, che costringono a chiudere interi turni nei Comandi. Genova, Milano, Roma, Bologna. Sono stati soppressi nell’ultimo periodo quello di Viterbo e Salerno. Il Centro Addestramento Sommozzatori (CAS) a Capannelle è stato addirittura chiuso».
Tutto però si regge sugli uomini e le donne...
«Questo è un nervo scoperto del Corpo nazionale, perché di personale ce n’è sempre meno. A Roma mancano almeno 400 unità per coprire semplicemente l’ordinario. Senza uomini si fa quel che si può! Anche la sala operativa, cuore pulsante del Comando, questa estate è stata subissata da chiamate e, talvolta, ha dovuto decidere dove mandare prima una squadra, quindi scegliere cosa far bruciare e cosa non fare bruciare. Oltre a essere impiegati sull’incendio per tanto tempo, dobbiamo anche sbrigarci per renderci disponibili il prima possibile per andare su un altro intervento. Questa mancanza porta un aggravio di lavoro inimmaginabile, un sovraccarico di lavoro, turni massacranti e non riusciamo a coprire il fabbisogno ordinario neanche ricorrendo allo strumento dello straordinario. Un altro problema è che la norma prevede che ci deve essere un cambio di squadra sul posto ogni quattro ore. Purtroppo sovente non avviene e quindi ci sono squadre impegnate anche per 10 ore sullo stesso intervento».
In che termini le carenze interne ricadono sui cittadini?
«Intervenire senza mezzi e uomini significa combattere a mani nude e con armi spuntate. L’esempio più lampante è quello delle autoscale e delle autobotti. Spesso nelle comunicazioni radio sentiamo il capo squadra invocare l’arrivo delle autobotti perché manca l’acqua. E più volte i colleghi si sono trovati sugli incendi ad attenderne l’arrivo anche per un’ora e mezza... e in un’ora e mezza succede l’inverosimile. È accaduto quest’estate a Roma, su un incendio al Fosso della Magliana, perché non c’era fisicamente l’autista con l’intero equipaggio per portare fuori l’autobotte. Questo, a cascata, comporta che se il mezzo non esce il cittadino subisce il disagio: se dice bene arriviamo tardi, se ci dice male purtroppo il cittadino muore!».
Vi state preparando al Giubileo? E come?
«Giubileo? Stiamo già intaccando i fondi destinati alla formazione e agli addestramenti, che ad oggi vengono utilizzati per garantire a malapena il dispositivo di soccorso a Roma, attraverso gli straordinari, che da un lato ci permettono un maggiore guadagno ma quando questi fondi termineranno - e già ne abbiamo spesi a volontà - ci ritroveremo in una triste realtà che ci riporterà alla chiusura dei distaccamenti. Il lavoro straordinario, lo dice la parola stessa, è extra ordinario. Noi invece gli stiamo dando una connotazione strutturale che comporta solo aggravio di lavoro. Manca programmazione, manca strategia ma soprattutto manca a buonsenso».
- Rifiuti tossici, residui ospedalieri, amianto: nel quadrante sud est della Capitale c’è una bomba ecologica che minaccia i residenti. La giunta riceve ogni anno dei soldi per farsene carico, ma non è chiaro come li spenda.
- Parla l’assessore all’Ambiente Sabrina Alfonsi: «Abbiamo già rimosso una ventina di piccole e medie discariche. Gli odori sono stati abbattuti drasticamente, in prospettiva si azzereranno».
- L’esperto, Gianluca Timpone: «Il Comune non registra i benefit ambientali alla voce uscite: questo va contro le regole e può essere un reato».
Lo speciale contiene tre articoli.
C’è un’area, nel sudest del Lazio, caratterizzata per il 60% della sua estensione da una campagna che comprende numerose e vaste zone agricole e il Parco Archeologico di Gabii. Un territorio dalle grandi potenzialità e sul quale, negli anni, hanno messo occhi, mani e rifiuti in molti, anche con attività illecite che hanno fruttato affari d’oro. Difficile fissare la data di inizio dell’interramento illegale dei rifiuti nell’area dell’Agro Romano compresa fra i suburbi e i confini di Roma Capitale; è certo, però, che l’innesco di questa bomba ecologica è avvenuto nei primi anni Novanta. Correva l’anno 1994 quando, con l’inizio dei lavori per la realizzazione della linea ferroviaria ad Alta velocità Roma-Napoli, emersero i primi rifiuti tossici interrati nelle Cave dopo la loro dismissione.
Fu solo l’inizio perché, in quel momento, si comprese che non si trattava di un fenomeno di piccole dimensioni. Non a caso quel territorio, che ricade nel VI Municipio, salì agli onori della cronaca come la Terra dei Fuochi del Lazio. Nel 1967, proprio nel quadrante sudest della Capitale, è stato realizzato l’impianto di Rocca Cencia, All’inizio nato come inceneritore, con la trasformazione del ciclo rifiuti è diventato, nel 2006, un Tmb (dal 2023 Tm) gestito da Ama spa. E nel 2011 arrivarono anche l’impianto di trattamento meccanico del gruppo Porcarelli e quello trito-vagliatore.
Dal 1994 al 2024, incendi dolosi, rilevamenti e segnalazioni hanno dato origine a inchieste e portato a sequestri, ma poche sono state le bonifiche – effettuate perlopiù dai privati – sui terreni in cui vennero, tra il 2014 e il 2015, ritrovati interrati anche rifiuti sanitari e amianto. Quanti rifiuti speciali giacciono ancora lì, nonostante le denunce di numerosi cittadini, riuniti nel frattempo nel Cau (Comitati e associazioni uniti), e di chi, come Nicola Franco, in quel territorio è nato e ora lo amministra, è difficile da dirsi. «La zona», afferma il presidente del VI Municipio, «versa in condizioni preoccupanti. In passato i privati hanno fatto una piccola bonifica, ma non hanno scavato oltre i 50 centimetri, mentre qui si parla di rifiuti interrati a oltre un metro. Per questo chiediamo di setacciare il terreno in profondità, con le nuove tecniche geoelettriche. Sul suolo pubblico, invece, non è stato fatto nulla e parliamo di 46 ettari di terreno di cui un terzo di proprietà del Dipartimento Tutela Ambiente. L’ultimo incendio di luglio ha fatto emergere i rifiuti ospedalieri aggiungendo ulteriori preoccupazioni».
Secondo le analisi epidemiologiche eseguite dalla Regione Lazio, in questo Municipio (Distretto 6) il 25,8% di decessi è provocato da tumori maligni e di questi il 24,8% sono tumori della trachea, bronchi e polmoni (dati elaborati e pubblicati sul portale Open Salute Lazio riferiti al 2020) e, secondo un altro studio condotto dal Dipartimento di epidemiologia del Servizio sanitario regionale del Lazio, le aspettative di vita alla nascita sono di tre anni inferiori rispetto a quelle di chi vive nel centro della città. In una zona in cui le polveri sottili sono così tanto e così di frequente al di sopra dei limiti potrebbe aumentare – e di molto – il rischio di ammalarsi di tumore. Dalle rilevazioni effettuate il fattore di rischio a Rocca Cencia si aggirava, già nel 2019, tra l’11 e il 21% in più. È stato, inoltre, riscontrato che l’infarto acuto del miocardio, che molto ha a che fare con l’inquinamento atmosferico, sia ben più alto nel Municipio VI, rispetto al II, dove c’è più verde urbano. Anche l’Arpa ha effettuato, nel 2022, un monitoraggio durato 47 giorni, mettendo nero su bianco che, su 1.166 ore valide ai fini del calcolo dell’intensità di odore, per il 56% si sono verificati eventi con intensità di odore da discernibile a forte raggiungendo anche l’ultimo livello della scala: «intollerabile». Non si può associare con certezza l’insorgenza di tumori alla presenza di rifiuti anche speciali, ma l’esposizione a contaminanti emessi da rifiuti pericolosi non gestiti correttamente, la presenza di siti illegali non controllati di questi rifiuti, l’inquinamento atmosferico e il contesto socio-economico, possono determinare un impatto negativo sulla salute e sul benessere della popolazione.
Territori come il VI Municipio potrebbero contare sugli aiuti previsti dalla legge: dal Testo Unico Ambientale al Decreto n. 15 dell’11 marzo 2005 del Commissario straordinario per l’emergenza ambientale nel territorio della Regione Lazio, che prevede benefit ambientali fino al 5% della tariffa. Il decreto, però, specifica che sono erogabili quando i rifiuti provengono da altri Comuni diversi da quello dove ricade l’impianto.
Nel VI Municipio, oltre a quella di Roma, arriva tutta la spazzatura dei 52 Comuni della Città metropolitana e ci si aspetterebbe che gli importi, versati da Porcarelli, siano stati finalizzati a compensare i danni e migliorare l’ambiente dove ricade l’impianto. È avvenuto nel 2004, quando l’allora sindaco Veltroni, con la delibera di giunta n. 4288/04, destinò circa i 412.000 euro di benefit ad interventi di manutenzione e riqualificazione ambientale nei Municipi XV e XVI per la discarica di Malagrotta, non più funzionante. È un importante precedente.
Ma di quanti soldi si parla? E soprattutto figurano in bilancio? Da una verifica effettuata, la voce «benefit ambientali» figura solo tra le entrate. Porcarelli ha versato a Roma Capitale 253.285,60 euro nel 2022, 296.869,89 euro nel 2023 e 184.879,89 euro nel 2024. Somme importanti, soprattutto se si moltiplicano per gli anni precedenti. Giusto per fare due conti: solo in tre anni sono entrati nelle casse comunali 735.035,38 euro. Tanti soldi in entrata dei quali, però, non si trova traccia in uscita. Di certo non sono stati spesi per bonificare i 46 ettari del VI Municipio. E andando ancora a ritroso all’interno dell’avanzo di bilancio vincolato all’anno 2020, l’allora giunta Raggi lasciava in eredità oltre 800.000 euro di benefit ambientali non utilizzati nell’anno corrente. Soldi, però, non ben individuabili nei bilanci successi, ovvero non se ne vede traccia sotto la voce «benefit ambientali» dell’anno successivo. E siamo nell’era Gualtieri.
Negli anni, anche nel VI Municipio sono stati fatti interventi extra tari, ed è l’assessorato, attraverso il Dipartimento Ciclo rifiuti, a metterli nero su bianco per spiegare come sono stati spesi, negli ultimi tre anni, questi soldi. Interventi per la cui realizzazione sembra si sia sforata la cifra derivante dai benefit ambientali. Nessuno degli interventi, però, pare abbia interessato i rifiuti interrati e alcuni in elenco sembrano rientrare in altri progetti. Il lavoro più impegnativo in termini economici è quello in via dell’Archeologia (zona di Roma dove lo spaccio è il welfare per molti) con una spesa di 349.871,47 euro che dovrebbe essere già coperta dai fondi destinati al comparto R5, che beneficerà di lavori per un totale di 125 milioni di euro. La risposta, protocollata e ricevuta il 3 ottobre, non convince il minisindaco Nicola Franco: «Un elenco che richiede spiegazioni, soprattutto perché non è chiaro con quali soldi siano stati realizzati gli interventi, visto che alcuni sono stati effettuati in danno al trasgressore, altri utilizzando fondi del Pnrr».
In molti, da tempo, attendono risposte. Una voce che le racchiude tutte è quella di Federica Alessandrini del Comitato di quartiere Colle del Sole, uno dei 30 comitati e delle 15 associazioni che da anni chiedono la bonifica dell’area per «ritornare a vivere». «Ci spaventa», afferma, «l’abbandono da parte delle istituzioni (tutte) che dovrebbero tutelarci. Ad oggi le nostre denunce non hanno trovato riscontro. Il 13 marzo scorso, l’assessorato ai rifiuti del Comune di Roma ha assunto impegni, ma finora non li ha rispettati. La bonifica dei 46 ettari dove ci sono rifiuti speciali interrati e non è un nostro diritto. Chiediamo solo di avere gli stessi diritti alla salute in un ambiente nel quale si possa vivere con la libertà di morire di vecchiaia o di qualsiasi altro evento non legato all’inquinamento».
Temi delicati e situazioni complesse che richiedono un salto nel passato di almeno dieci anni. Un’attenzione – dovuta – alle persone e soprattutto al giro di denaro su cui c’è chi vuole vederci chiaro: è la Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su altri illeciti ambientali e agroalimentari, che ha già convocato gli organi amministrativi coinvolti.
«Da noi centinaia di interventi»
Sabrina Alfonsi, assessore all’Agricoltura, ambiente e ciclo dei rifiuti di Roma, ha risposto alle nostre domande su periferie, rifiuti interrati nel VI Municipio e benefit ambientali
Cosa è stato fatto negli ultimi anni su quel territorio dove ricadono gli impianti?
«La decisione di chiudere il Tmb Ama di Rocca Cencia ha rappresentato un fatto sicuramente molto significativo in termini di riduzione degli impatti olfattivi sull’ambiente circostante, che in prospettiva tenderanno ad azzerarsi. Oltre a questo, solo nel Municipio VI, dal 2022 ad oggi, sono stati fatti una ventina di interventi di rimozione di piccole e medie discariche».
Già dal 2014 è stata riscontata la presenza di rifiuti interrati, tra cui rifiuti sanitari. È stata effettuata una bonifica?
«L’interramento dei rifiuti prevede che, per la valutazione degli interventi da eseguire, vengano effettuate in via preventiva le operazioni per individuare la natura dei rifiuti presenti e le analisi delle matrici ambientali, allo scopo di verificare le eventuali contaminazioni da inquinanti. Gli interventi di bonifica si rendono necessari esclusivamente nel caso in cui venga riscontrata nel terreno e nelle acque di falda una concentrazione di inquinanti tale da costituire un pericolo per la salute umana. In tutti gli altri casi si parla di rimozione dei rifiuti. Sulla bonifica dei siti contaminati abbiamo posto una particolare attenzione, come dimostrano i 126 provvedimenti dirigenziali emanati nei tre anni del nostro mandato relativi a piani di indagine per la caratterizzazione ambientale, analisi di rischio sito specifiche e progetti di bonifica o messa in sicurezza permanente».
Sul tema dei benefit ambientali, quanti sono e come sono stati spesi?
«Le norme in materia stabiliscono che ai Comuni sede di discariche o impianti di trattamento di rifiuti indifferenziati spetta, da parte degli altri Comuni che utilizzano l’impianto, il riconoscimento di un benefit ambientale, che viene determinato in percentuale sulle tariffe di conferimento dei rifiuti ai diversi tipi di impianti. Tali somme devono essere corrisposte al gestore dell’impianto, che provvederà poi a restituirlo al Comune di appartenenza. Nel territorio di Roma Capitale il tema riguarda unicamente l’impianto di trattamento dei rifiuti urbani indifferenziati della società Porcarelli, che si trova nella zona di Rocca Cencia, dal quale Roma Capitale ha incassato il benefit ambientale a partire dal 2017, anno di autorizzazione Aia dell’impianto. Da quando si è insediata questa amministrazione, il benefit in entrata dall’impianto Porcarelli è stato pari a un totale di circa 735.000 euro. Risorse che sono state destinate alla rimozione delle discariche abusive e che noi in questi tre anni abbiamo integrato con finanziamenti cospicui per garantire interventi su tutta la città. La cifra di circa 400.000 euro riportata in una nota stampa del 29 agosto scorso rappresentava una stima sommaria delle spese. In realtà, dalle verifiche eseguite dal Dipartimento Ciclo dei Rifiuti, risulta che le somme spese sul territorio del Municipio delle Torri nel triennio 2022/2024 per la rimozione di piccole e medie discariche ammontano a complessivi 835.157 euro, quindi un importo maggiore di quello introitato con i benefit ambientali».
Sono stati rispettati gli impegni presi il 13 marzo con i cittadini del VI Municipio ed effettuati interventi per mitigare il problema dei miasmi?
«Il portone dell’impianto è stato riparato e la manutenzione dei biofiltri viene eseguita regolarmente. Inoltre anche a Rocca Cencia, come in tutte le altre strutture Ama, verrà installato uno speciale macchinario, già attivo presso l’impianto di Ostia Romagnoli, che consentirà di effettuare il lavaggio e l’igienizzazione dei mezzi in transito, abbattendo drasticamente i miasmi prodotti. Ricordo inoltre per mitigare il problema degli odori è stato implementato già dall’estate il servizio di pulizia e igienizzazione delle postazioni dei cassonetti stradali su tutto il territorio».
«Nei bilanci non c'è la destinazione dei fondi vincolati»
Gianluca Timpone, commercialista esperto in ambito fiscale e contabile, specializzato nella revisione degli enti locali, ci ha aiutato a capire di più la normativa ma soprattutto a leggere i bilanci
Nei bilanci dei Comuni se esiste la voce «benefit ambientali» in entrata dovrebbe esserci un corrispettivo in uscita?
«Sì. Nel Comune di Roma, si nota che i benefit ricevuti vengono registrati nelle entrate, ma non ci sono indicazioni chiare su come vengono utilizzati nelle uscite. A pag. 21 del Bilancio di Previsione delle spese 2021-2023 Missione 09 - “Sviluppo sostenibile e tutela del territorio” andavano distinti i benefit ambientali trattandosi di fondi a destinazione vincolata. Questo è in effetti un principio fondamentale della contabilità pubblica, in particolare quando si tratta di gestire fondi pubblici legati a compensazioni o benefici per impatti ambientali. I Comuni sono tenuti a rendere pubbliche informazioni relative all’uso dei fondi e ai progetti finanziati prevedendo all’interno dei propri bilanci delle voci specifiche».
Sono importi vincolati ?
«Sì. Queste sono spese obbligatorie. Le regole della Regione Lazio dicono che i comuni devono usare i soldi ricevuti come compensazione per l’inquinamento, per migliorare l’ambiente e la vita delle persone nel loro territorio. Questo significa che i fondi dovrebbero essere spesi nella zona dove si trova l’impianto. Tra l’altro spendere i soldi derivanti dai benefit nel territorio comunale ma lontano dai siti di stoccaggio e/o lavorazione dei rifiuti fa venire meno l’utilità dell’uso dei benefit».
Quali reati potrebbero profilarsi qualora non si rispettassero le disposizioni di legge?
«I reati più comuni che potrebbero essere ipotizzati sono: ingiustificato e improprio per l’utilizzo di fondi pubblici, può comportare responsabilità sia penali che contabili; reati contro l’ambiente che si potrebbero configurare se i fondi non vengono utilizzati per mitigare gli impatti ambientali e sanitari e ciò conduce a un aggravamento delle condizioni di salute e ambiente; responsabilità di danno erariale, che può portare a procedimenti sia penali che civili per il recupero delle somme non utilizzate secondo le normative di legge. Oltre alle responsabilità penali, gli enti locali possono subire sanzioni amministrative o la revoca dei fondi, una volta accertato l’uso improprio delle risorse. In conclusione, quindi, se i fondi destinati a compensazioni o interventi per mitigare impatti ambientali vengano impiegati per scopi non previsti dalla legge o, pur rimanendo nell’ambito dell’assessorato competente, non affrontino effettivamente i problemi ambientali e sanitari, si potrebbero configurare violazioni di legge importanti che comportano sia responsabilità penali che amministrative».
La struttura municipale di Roma e la delibera di giunta che nel 2014 firmò l’allora sindaco Veltroni, potrebbero aiutare a circoscrivere l’area di destinazione dei Benefit?
«Sì, viste nell’insieme esse formano un quadro normativo e amministrativo che circoscrive l’applicazione dei benefit ambientali ai territori specifici interessati dagli impatti degli impianti, in particolare a quelli del VI Municipio. Inoltre, la delibera del 2014 e la sua enfasi sull’uso dei fondi nel territorio interessato imposta una chiara cornice di riferimento. In tal senso, si sottolinea l’importanza di indirizzare le risorse verso le aree direttamente colpite dagli effetti degli impianti, per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni residenti, soprattutto alla luce dei ritrovamenti, su quell’area, di rifiuti interrati».
Ma come fa un cittadino a capire l’uso che si fa dei benefit ambientali?
«Le spese per i benefit ambientali devono essere scritte nel bilancio in una parte specifica, in modo da far vedere chiaramente a cosa servono. Nel bilancio di Roma Capitale ci sono soldi registrati in entrata, ma non ci sono voci specifiche che mostrano come vengono spesi. Di solito, per mostrare che questi soldi vengono usati per migliorare le aree con discariche, si devono usare categorie specifiche come “somme per investimenti ambientali”, “programmi di sostenibilità ambientale” o “spese per la tutela e salvaguardia ambientatale” voci, queste, che nei capitoli di spesa all’interno del bilancio risultano assenti».
- Una società di Roma è accusata di truccare gli esami sulla presenza di legionella e sostanze nocive in sedi sanitarie e istituzionali. Un sistema consolidato per lucrare sulle spese della manutenzione.
- Controlli inesistenti o alterati per evitare di compiere interventi. I computer erano programmati per mettere firme non regolari.
- L’esperto del Cnr Stefano Polesello: «Senza interventi periodici si creano pericoli anche se tutto sembra funzionare bene».
Lo speciale contiene tre articoli.
Dovevano analizzare l’acqua prelevata da ospedali pubblici, cliniche private e importanti istituzioni pubbliche del Lazio e della Puglia. Parliamo, tra gli altri, del policlinico Gemelli, dell’Umberto I e della sede centrale della Banca d’Italia a Roma. Lavoravano con il 90% degli ospedali della capitale. Il loro compito era ricercare l’eventuale presenza della legionella, un batterio presente nelle condutture e molto pericoloso se respirato. Oltre alla legionella, dovevano verificare la presenza di nitrato, arsenico e altri microrganismi nocivi alla salute. Però i valori a rischio venivano corretti per farli rientrare nella norma: almeno così è scritto nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, al termine di una complessa inchiesta della Procura di Roma su due società di analisi leader in questo settore nel Lazio, la Technodal e la Farm. Sette gli avvisi di garanzia: in caso di rinvio a giudizio, gli indagati dovranno rispondere a vario titolo di accuse pesantissime: falso in atto pubblico, falso in atti privati, frode in pubbliche forniture, associazione per delinquere e - ultimo ma non meno importante -truffa.
Le indagini, avviate nel 2018, riguardano analisi che sarebbero state falsificate, certificati rilasciati anche quando non venivano effettuati i prelievi, artifici e raggiri consistiti nell’aver falsificato rapporti di prova e averli consegnati alle strutture che, con regolare contratto, avevano affidato alla Technodal la gestione e manutenzione degli impianti di depurazione delle acque e la gestione dei rischi derivanti dalla presenza eccessiva di elementi chimici e microbiologici. Secondo il pubblico ministero Giuseppe Deodato, lo scopo era fare apparire adempiuti gli obblighi contrattuali per evitare la manutenzione e realizzare così un ingiusto profitto.
L’inchiesta è partita nel 2018 dall’esposto presentato da un ex dipendente, ma la pratica di truccare le analisi sarebbe continuata anche dopo che il Nucleo antisofisticazione e sanità (Nas) dei carabinieri, su disposizione del pm Deodato, aveva avviato i primi controlli. Secondo le testimonianze raccolte dagli inquirenti, il sistema funzionava almeno dal 2015, a memoria di alcuni ex dipendenti anche prima, e sarebbe continuato fino al 2022 nel Lazio in Puglia. I tecnici della Technodal effettuavano il prelievo dei campioni di acqua nelle strutture convenzionate, dove doveva garantire anche la manutenzione e il corretto funzionamento degli impianti di trattamento e depurazione delle acque. I campioni venivano inviati per l’analisi al laboratorio della Farm di Guidonia Montecelio, incaricata di analizzarli.
Se emergevano valori fuori norma, il laboratorio lo comunicava a Technodal prima di emettere il certificato definitivo, indicando anche il correttivo da fare. Il certificato riportava dunque valori diversi da quelli effettivamente risultanti dalle analisi. Con quel pezzo di carta, Technodal diceva ai clienti che era tutto a posto, che la gestione del rischio era corretta e non era dunque necessario compiere correttivi sugli impianti. In questo modo, poiché nei contratti erano già compresi i costi di manutenzione, la ditta risparmiava quelle spese.
Alcuni esempi. Il rapporto di prova del 4 febbraio 2018 con intestazione Farm relativo al campione di acqua prelevato nella clinica Siligato di Civitavecchia riportava un valore (falso) inferiore a 100 nella conta della legionella, ma dalle analisi risulta fosse pari a 4.600.
Il certificato relativo a un prelievo effettuato il 2 marzo 2018 nella casa di cura Villa Sandra di Roma evidenziava un valore (falso) di 0,3 del nitrato sebbene fosse pari a 5. Idem per il campione prelevato il 30 marzo 2018 all’ospedale Paolo Colombo di Velletri: l’arsenico era quotato a 7 mentre in realtà era 24. Il 30 gennaio 2018 all’Ifo di Roma risultava che la conta di legionella fosse inferiore a 100 quando dalle analisi era pari a 6.600. Analogo conteggio era stato svolto nella sede di largo Bastia 35 della Banca d’Italia il 3 ottobre 2017: il valore effettivo di 6.400 era stato corretto a mano per portarlo a meno di 100.
Tutto è racchiuso all’interno di un programma gestionale della Technodal, dove era stato elaborato un elenco di codici per classificare le certificazioni falsificate e quelle inventate di sana pianta, cioè per le quali non era stato nemmeno effettuato il prelievo nonostante che i certificati riportassero valori normali. Gli stessi certificati, almeno in parte, erano falsi pur essendo su carta intestata del laboratorio. Gli originali, infatti, vengono identificati da codici numerici mentre i falsi riportano codici alfanumerici. Sarebbe stata falsificata anche la firma dell’amministratore unico della Farm, Francesco Farinelli, come ha denunciato il diretto interessato. «Un brutto colpo per me, io stesso sono vittima di una frode», dice alla Verità l’amministratore unico del laboratorio di analisi incaricato dalla Technodal.
«A noi», aggiunge Farinelli, «arrivavano campioni di acqua prelevati dalla Technodal e non da nostro personale formato per i prelievi secondo i metodi ufficiali. Non ne conoscevamo la provenienza; il nostro compito era di analizzare quei campioni così come ci pervenivano e venivano dichiarati. Quando mi sono reso conto che la committenza manometteva i certificati da noi emessi, e mi sono nello stesso tempo accorto che la firma su alcuni certificati non era la mia, ho fatto subito denuncia e bloccato ogni rapporto con la Technodal».
La Verità ha interpellato anche gli amministratori della Technodal per conoscere la loro versione dei fatti. Gli indagati sono i fratelli Carlo, Manuel e Raffaele D’Alonzo, soci e amministratori di fatto, oltre che la madre Bruna Berselli, legale rappresentante della società. Essi tuttavia hanno preferito non rilasciare dichiarazioni: «Risponderemo nelle sedi opportune», hanno fatto sapere tramite i loro legali. L’udienza preliminare è stata fissata per il 12 maggio.
L’inchiesta, per il momento, riguarda il Lazio. Ma nuovi sviluppi potrebbero portare in Puglia, dove già qualcosa si è mosso, come conferma il direttore sanitario della Als Foggia, Franco Angelo Mezzadri. «Venuta a conoscenza dell’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto la ditta Technodal», ha scritto Mezzadri in una nota, «la direzione dell’Asl Foggia ha incaricato immediatamente gli uffici competenti di avviare una verifica sull’adempimento degli obblighi contrattuali da parte della suddetta ditta e, in particolare, sulle certificazioni di analisi rilasciate. In base agli esiti della verifica saranno adottati i conseguenziali provvedimenti».
La denuncia dell’ex dipendente: «Ho visto referti di prelievi mai fatti»
È il 4 dicembre 2018 quando viene notificato l’ordine di perquisizione alla Technodal srl e alla Farm srl. Nell’occasione vengono sequestrati certificati di analisi ed email del capotecnico e di tutti i soci. È l’inizio di un’inchiesta che ha cercato di fare luce su un sistema complesso e consolidato. Ad accendere i riflettori è un dipendente storico della Technodal, che per 23 anni si è occupato del trattamento delle acque nei centri di emodialisi e che ora conferma quanto è emerso nel corso delle indagini riguardo la manutenzione e le anomalie dei prelievi.
Si chiama Marco Stacconi e si è sempre ribellato al sistema che regnava in azienda finché, nel 2017, ha deciso di andare via. Stacconi capisce che qualcosa non va quando nota che, nonostante alcuni prelievi non fossero stati effettuati, spuntavano comunque i responsi. Inizialmente pensa a una svista o un errore, considerato che le indicazioni sui lavori da effettuare venivano riferite ai tecnici mediante una bolla sulla quale, accanto ai prelievi da non fare, figurava la dicitura «SC». L’attività non si limitava ai prelievi. Stacconi ricorda, ad esempio, la clinica Villa Tiberia, poi commissariata, dove per contratto era prevista la sostituzione di una membrana osmotica ogni mese, con un costo di circa 5.000 euro: per molti anni lui che si occupava della manutenzione non ha cambiato nemmeno una membrana. Che veniva comunque pagata dalla clinica alla Technodal. Stacconi dice che lo stesso avveniva negli ospedali romani San Camillo e Forlanini. Alle volte si andava nei reparti, si faceva firmare ai caposala la bolla di consegna di materiali che poi, tuttavia, non venivano mai lasciati pur essendo pagati dai clienti della Technodal.
A confermare la mancata manutenzione c’è anche un’anomalia tra le entrate e le uscite dei prodotti nel magazzino Technodal. Stacconi, ad esempio, ricorda che sul pc risultavano 100 filtri in entrata e 80 in uscita, ma quando veniva effettuato il controllo allo scaffale, di filtri non se ne trovavano 20 ma 40. E non esclude che forse qualcuno all’interno delle strutture sapesse o, comunque, avesse agito con leggerezza visto che di rado dagli uffici tecnici dei vari clienti Technodal venivano effettuati controlli sui lavori che spesso non venivano effettuati.
I responsabili, secondo il pubblico ministero che ha coordinato le indagini, sarebbero i D’Alonzo, i quali avrebbero commesso frode nell’esecuzione dei contratti di fornitura e di prestazione dei servizi inerenti a fornitura, manutenzione e assistenza tecnica degli impianti di trattamento idrico stipulati con le sedi istituzionali e strutture sanitarie pubbliche e private. L’azienda di cui sono soci e amministratori, la Technodal, non effettuava le necessarie manutenzioni degli impianti né interventi correttivi previsti nei contratti. Riuscivano a sottrarsi all’impegno dichiarando che tali interventi non erano necessari in base ai risultati alterati delle analisi di laboratorio sui campioni delle acque. Controlli che invece avrebbero richiesto la massima cura, visto che dovevano prevenire il diffondersi della legionellosi e verificare l’eccessiva presenza di elementi chimici e batteriologici nocivi.
Manutenzioni non eseguite, firme falsificate all’insaputa dei diretti interessati, certificati alterati: tutto questo per trarre profitto evitando una serie di spese (come la manutenzione o i pezzi di ricambio) che venivano però pagate dai committenti come da contratto. Lo sa bene un altro ex dipendente. Andrea Giardini si occupava della sicurezza aziendale fino al febbraio 2020, quando decise di dimettersi. Accortosi delle irregolarità, incontrò i responsabili dell’azienda, Carlo e Raffaele D’Alonzo. Cercò, senza risultati, di far capire che le attività messe in piedi erano deplorevoli e potenzialmente dannose nei confronti dei pazienti e avrebbero messo a rischio la sopravvivenza stessa della società. Perché le pratiche irregolari si erano protratte anche dopo che, nel 2019, in Technodal erano stati notificati i quattro avvisi di garanzia ai tre fratelli D’Alonzo e alla madre Bruna Berselli, rappresentante legale.
Gli inquirenti avevano cominciato a indagare anche all’interno e a quel punto Giardini, insieme con il capo tecnico Marco Boschino, finito anch’egli nel registro degli indagati pur dichiarandosi vittima più che complice, scoprirono che il programma gestionale Dalgest, realizzato da un dipendente - poi licenziato - sotto le direttive dei vertici Technodal, presentava anomalie nella attività. Interpellato dalla Verità, Giardini rivela: «Incontrai Raffaele D’Alonzo e lo incalzai con le domande. Lui mi confessò che le analisi batteriologiche e chimiche venivano modificate da lui con il software Acrobat online». Sia Giardini sia Boschino raccontarono di aver scoperto che di tutti i tecnici era stata digitalizzata la firma sul programma, e così pure erano state scannerizzate le firme dei clienti, in modo da utilizzarle a piacimento.
Boschino scoprirà in seguito che anche la sua firma e le firme dei tecnici potevano essere utilizzate per chiudere le lavorazioni in autonomia direttamente dal sistema. E ricorda anche di come sul gruppo di lavoro aperto su Whatsapp fossero gli stessi tecnici a lamentare la chiusura di alcuni interventi senza mai essersi recati dal cliente. Dopo la perquisizione dei Nas si scoprì che la stessa cosa potrebbe essere accaduta con le firme dei responsabili dei capi commessa dei clienti. Con questo sistema si facevano risultare chiuse lavorazioni mai eseguite.
«Gravi minacce per pazienti e lavoratori»
Quali rischi comporta, soprattutto per le persone fragili, frequentare ambienti in cui l’acqua presenta livelli fuori norma di arsenico e nitrati, oltre che la presenza del batterio della Legionella? Lo spiega Stefano Polesello, primo ricercatore dell’Istituto di ricerca sulle acque del Cnr.
Quanto è pericoloso esporsi alla legionellosi o bere acqua contaminata?
«Ogni superamento di limiti comporta rischi per chiunque, a maggior ragione per le persone malate e fragili. I più a rischio sono i dializzati, il cui organismo è già sottoposto a stress molto gravi con elevato rischio di infezione».
Che cosa significa che la conta della legionella presenta un valore pari a 4.600 mentre dai referti di analisi risulta (falsamente) inferiore a 100?
«Mette a rischio il personale che viene in contatto con l’acqua contaminata. Il batterio della legionella ha come principale veicolo di trasmissione per l’uomo l’aerosol perché colpisce le vie aeree. Ingerire acqua non comporta gravi rischi, anche se non fa certo bene, ma il peggio accade quando si apre il rubinetto e automaticamente vengono generate particelle che si disperdono nell’aria. Fare la doccia con acqua contaminata è più rischioso che berla, e teniamo conto che la legionellosi è fortemente contagiosa».
Cosa comporta il contatto continuato con questi batteri o le altre sostanze pericolose?
«Per la legionella non è importante il tempo di esposizione, quanto gli elementi contenuti. Una lunga e costante esposizione all’arsenico può portare a disfunzioni importanti essendo un elemento molto tossico. Il nitrato a sua volta è considerato una sostanza pericolosa in assunzione cronica, quindi continuata nel tempo, soprattutto per anziani e bambini».
Come possono rientrare nella norma gli eventuali livelli di tossicità?
«Attraverso il trattamento delle acque. Uno dei metodi principali è l’abbattimento attraverso assorbenti su sostanza solida come il carbone attivo, oppure lo scambio ionico. Ma questi materiali assorbenti a un certo punto si saturano».
E cosa significa?
«Che senza manutenzione e sostituzione periodica il sistema smette di funzionare, quindi non tratterrà più le sostanze tossiche. Nel caso della legionella, invece, sono necessari sistemi di disinfezione. Ogni membrana dove ristagna l’acqua può essere sorgente di formazione microbiologica e quindi di accumulo anche di altri agenti patogeni, come batteri e virus normalmente presenti in maniera molto diluita che lì crescono. Inoltre, resine e sostanze assorbenti da sostituire possono rilasciare quello che hanno trattenuto».
Quindi l’assenza di manutenzione può creare un rischio anche dove non c’è?
«Certo. Da una parte non vengono più trattenute le sostanze tossiche, e dall’altra diventano esse stesse sorgente di agenti contaminanti. I gestori delle acque potabili di solito usano il cloro per mantenere il livello di disinfezione sufficiente per tutta la rete. Ma se il sistema viene modificato con l’impiego di depuratori, indispensabili per strutture pubbliche come gli ospedali, non basta più la semplice clorazione: occorre una sanificazione per eliminare l’accumulo di batteri che oltre una certa concentrazione diventano patogeni».





