2025-06-21
«Chi declassa sono i loro tecnocrati»
Il teatro Goldoni di Venezia. Nel riquadro, il presidente del teatro Stabile del Veneto Giampiero Beltotto
Il presidente dello Stabile del Veneto Giampiero Beltotto: «Quello che succede in Toscana noi l’abbiamo già vissuto. E tutto nasce dal deep State della sinistra che s’annida dentro il ministero». Giampiero Beltotto dal 2018 è presidente del Teatro Stabile del Veneto, divenuto lo scorso anno una fondazione che gestisce il Goldoni di Venezia, il Verdi di Padova e il Del Monaco di Treviso. Una decina di anni fa ha dovuto affrontare lo stesso declassamento che riguarda oggi il Teatro della Pergola di Firenze.Quello che sta succedendo nel capoluogo toscano, per lei, parlando di teatro, è una replica.... «Ogni tre anni, sulla scorta di una valutazione ideata dal ministero tanti anni fa, da Roma ci dicono se una struttura resta un teatro nazionale oppure se passa a essere un teatro di rilevante interesse culturale (Tric). I primi prendono più soldi i secondi, ovviamente, ne prendono meno. Dieci anni fa noi del Teatro Stabile del Veneto venimmo declassati da Nazionale a Tric. Il ministro era Dario Franceschini. La commissione che, oggi come allora, valuta i teatri è la stessa. Cambiano i componenti, ovviamente, ma non l’organismo di controllo: il meccanismo è identico. All’epoca ci arrabbiamo moltissimo. Poi mi feci riceve dal ministro e mi rassicurò che lui e il ministero nulla centravano con la commissione che ci aveva giudicato negativamente, che era autonoma e si muoveva sulla base dell’algoritmo. Ma da chi è stato preparato questo algoritmo? Da quello che definisco il deep State della sinistra perché la struttura che preparò quel criterio di valutazione per noi sale teatrali era stata immaginata ai tempi del governo della sinistra».Che cosa fa, concretamente, questo algoritmo? «Se sei bravo ti schiaccia in basso, se non sei bravo ti porta in alto. Perché il ministero li vuole tutti uguali i teatri. Poi, però, se c’è qualcosa in cui sei manchevole, ti declassa. Quanto stanno passando a Firenze l’abbiamo vissuto noi, prima. Ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo smesso di frignare e siamo tornati a essere teatro nazionale in tre anni. Bisognava fare una cosa, subito: cambiare la governance. Potevamo anche fare ricorso».E cosa sarebbe accaduto, in questo caso? «Si sarebbe fermato tutto il teatro italiano. La stessa cosa succederebbe adesso se a Firenze dovessero decidere di ricorrere alle vie legali. Perché si bloccherebbero tutte le commissioni e, quindi, non ci arriverebbero soldi dallo Stato. Noi possiamo sopravvivere, perché siamo gestiti bene, ma le strutture che sono gestite male possono anche chiudere. Noi sapevamo questo scenario e decidemmo di accettare il declassamento e di non fare ricorso».La politica, quindi, non c’entra nulla? «No, non ho mai pensato che ci fosse un governo di centrosinistra che stava punendo un teatro di centrodestra perché non c’era un teatro dl centrodestra ma solo uno che lavorava. Probabilmente non lo facevamo secondo i criteri che volevano loro. I conti erano in ordine, si giocava e si gioca tutto sui criteri di qualità, che sono soggettivi. Conosco personalmente due componenti della commissione che ci giudica e sono due gentiluomini antichi del teatro italiano che non prendono ordini da nessuno. L’unica cosa da fare è darsi da fare, smettere di appellarsi al patriottismo di sinistra o di destra e chiamare dei bravi manager a governare i teatri e così si torna a essere dei nazionali. Devo dire: è un’impresa che fa bene. Abbiamo quadruplicato i soci, passati da tre a undici, gli spettacoli sono lievitati da poco più di 300 a oltre 500, abbiamo raddoppiato il numero degli spettatori così come gli incassi: siamo passati da 6,5 milioni di ricavi a più di 12. Abbiamo chiamato una manager come direttore generale che arriva dal porto di Venezia, sdoppiando il ruolo da quello della direzione artistica. Per la guida del teatro non ho mai pensato di prendere una figura che arrivasse dal mondo teatrale. Abbiamo fatto una lunga battaglia contro il corporativismo del mondo del teatro per evitare che ciò avvenisse. Non ci siamo affidati all’amicchettismo».Cosa pensa del caso del teatro della Pergola? «Non conosco la questione, so che è divenuto teatro nazionale quando c’era Matteo Renzi come premier. Ma che una commissione decida per motivi politici di declassare un teatro che va bene mi pare difficile. Primo, perché conosco alcuni dei componenti che piuttosto che fare una cosa così, si dimetterebbero. In secondo luogo, perché fra tre anni ti ritrovi a dover giudicare la Pergola, un grande teatro di una grande città. Ma non è che puoi basare tutto sulla tua storia, non è con il pedigree che fai l’azienda. Noi abbiamo molto lavorato con loro, Stefano Massini è un bravissimo attore-autore e viene regolarmente nel mio teatro con i suoi spettacoli. E continuerà, spero, a farlo perché è un bravissimo artista».Cosa dovrebbe fare in questa fase? «Ora è infuriato, come lo ero io perché senti che il tuo lavoro viene bocciato. Sbaglia a indicare il governo come causa di tutto questo. Io me la presi con la struttura e, ripeto, con il deep State che soggiace alla tecnostruttura del ministero della Cultura con un dispositivo di legge che ho sempre trovato demenziale per il modo in cui giudica i teatri. La politica ci è entrata, in questa storia, quando qualcuno ha voluto quel tipo di algoritmo per giudicarci. Alla base c’è un pensiero che non è di destra».
(Totaleu)
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