2025-01-18
        Per i progressisti studiare le nostre origini significa minacciare l’integrazione
    
 
        Giuseppe Valditara (Imagoeconomica)
    
«Repubblica» attacca Valditara per le nuove linee guida della scuola che prevedono più spazio alla storia dell’Occidente. Meglio inglese e la paccottiglia globaloide....Un po’ viene da compiangerli perché sembra proprio che non si rendano conto di agire come i personaggi di un romanzo distopico. I cattivi, per la precisione. C’è, per dire, un bellissimo romanzo di Yoko Ogawa intitolato L’isola dei senza memoria, in cui l’autrice disegna un mondo in cui le persone smettono progressivamente di ricordare, e una temibile polizia segreta bracca e punisce i pochi che riescono a mantenere qualche ricordo. Ecco, sembra che i progressisti odierni agiscano come questa polizia: battagliano costantemente per riscrivere o cancellare il passato, passano al setaccio la storia e pretendono di purgarla eliminandone quelle che ritengono essere impurità. Non è un caso che siano impazziti non appena il ministro Giuseppe Valditara ha annunciato sommariamente le indicazioni che nel 2026-2027 le scuole dovranno seguire per impostare i programmi. Lo studio del latino e le poesie mandate a memoria inquietano molti, ma un po’ per non fare brutta figura, un po’ perché è difficile contestare due pilastri dell’istruzione di ogni epoca, i progressisti ingoiano il rospo. Quel che proprio non digeriscono è l’idea che si possa dedicare più attenzione alla tradizione europea e cristiana. È qui che inizia la vera lotta contro la memoria, la guerra contro il passato.Su Repubblica, Annalisa Cuzzocrea è scatenata: «Il punto è quel che Valditara ha detto sulla storia dell’Occidente e dei popoli italici da privilegiare, della cristianità, del cattolicesimo, dei miti nordici che un po’ di Signore degli anelli ci sta bene sempre», scrive. «L’idea che i programmi scolastici debbano parlare della nostra identità lontana, o di quella coltivata nel mondo di fantasilandia della destra, e non delle identità diverse che ogni giorno nelle scuole si incontrano, intrecciano rapporti, dialogano, si conoscono. Valditara dipinge una scuola che pretende di imporre una cultura dominante, l’unica degna di essere studiata approfonditamente. Separare geografia e storia va benissimo, per studiarle meglio. Ma di quale spazio vogliamo parlare? Quale punto di vista vogliamo assumere? Davvero pensiamo ancora abbia senso studiare solo l’Occidente, come se intorno esistesse solo barbarie? E non crediamo invece che dovremmo capire di più l’Oriente, il Medio Oriente, la Cina e il Giappone, l’India, Paesi la cui forza demografica e la cui spinta economica stanno cambiando il mondo?». Beh, se gli amici di Repubblica davvero prestassero attenzione al resto del mondo si renderebbero conto che è quasi totalmente disinteressato ai loro valori liberal, quando non li disprezza apertamente. Le «culture altre» che Cuzzocrea celebra un tanto al chilo sono per lo più potentemente identitarie, spesso profondamente religiose e di solito non gradiscono il relativismo, specie se affettato. In ogni caso, non si capisce per quale motivo si dovrebbe approfondire, che so, la filosofia cinese, ma si dovrebbero schifare le saghe nordiche. Perché puzzano di destra? Perché i vichinghi richiamano i vecchi leghisti a Pontida con l’elmo cornuto di plastica? L’argomentazione e il pregiudizio sono di una superficialità imbarazzante. Il punto vero, tuttavia, è sempre lo stesso: la benedetta quanto fantomatica integrazione. Posto che a nessuno viene in mente di evitare lo studio di tradizioni differenti (quella musulmana, per esempio, fatalmente intrecciata alla nostra) come si pretende che i figli di stranieri divengano «nuovi italiani» se si teme di spiegare loro che cosa sia l’Italia e da quale impasto di idee, filosofia e fede derivi? Sempre per restare sulla vibrazione della superficialità, Cuzzocrea cita capolavori a sproposito: «L’incubo della sottomissione all’islam immaginato dai romanzi di Houellebecq in Francia si rovescia qui nel suo contrario. Come se non esistesse altro rapporto possibile, tra diversità, che quello dello scontro. Che poi, è la negazione più forte dei valori occidentali in cui ci siamo illusi di crescere: i diritti per tutti, l’inclusione al posto della discriminazione, un mondo grande in cui camminare consapevoli di chi siamo e curiosi di chi è l’altro. Va benissimo il latino, ma servirebbero insegnanti di inglese formati e preparati, visto che non tutti possono permettersi college e scuole private». In realtà, Houellebecq immagina una conversione di massa all’islam prodotta proprio dalla rinuncia volontaria alla cultura europea, percepita come moribonda (cosa che in effetti è). Non vi è alcuno scontro con il mondo musulmano, e nessuno scontro sarebbe alimentato dallo studio del cristianesimo o del latino. Gli amici progressisti, tuttavia, prediligono l’acculturazione: più insegnanti di inglese, più omologazione, più appiattimento. Come se il problema vero non fosse, semmai, riuscire a trasmettere qualche rudimento di grammatica italiana a generazioni anestetizzare dai supporti elettronici. La scrittrice Viola Ardone fa quasi di meglio. A suo dire dobbiamo abbandonare le «nostalgie del passato» e insegnare ai giovani come procedere al fact checking, come padroneggiare le nuove tecnologie. E poi, ovviamente, ci si dovrebbe occupare dell’emergenza femminicidi, investire stabilmente in «corsi di educazione relazionale e sessuale». Ancora una volta, si scarica sulla scuola l’intera responsabilità della formazione dei giovani, quasi che i poveri insegnanti dovessero anche supplire alle famiglie in via di dissoluzione e a tutte le storture dell’universo circostante. Si critica l’approccio di Valditara perché sarebbe troppo politicizzato, e si propone di sostituirlo con la paccottiglia globaloide: Internet, inglese e impresa peggio che ai tempi del berlusconismo ruggente (perché almeno la cultura d’impresa lì era valorizzata un filino). Fa sorridere amaramente che gli spocchiosi sinistrorsi svelino finalmente la loro pochezza dopo essersi presentati per anni quali unici difensori della cultura e delle arti liberali. Ora si mostrano per quello che sono: distruttori della storia, nemici dello studio faticoso e agonistico, sradicati che vogliono sradicare il poco che resta ancora piantato a terra. Sono peggio dell’incubo di Houellebecq, perché pretendono che ci sottomettiamo al vuoto. Sono i sostenitori del nulla che avanza e cancella. Il Nulla della Storia infinita. Capolavoro che probabilmente non avranno letto perché odora di melonismo.
        Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
    
        La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
    
        Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
    
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico. 
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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