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2021-07-26
Sindacati fantasma. Dietro la sigla nazionale? Un solo dipendente
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Quando i piccoli hanno deciso di emulare i grandi, le regole sono saltate. Quando lo spazio nelle grandi confederazioni o nelle associazioni di categoria più importanti si è assottigliato, si sono create le condizioni per la proliferazione di centinaia di contratti collettivi nazionali di lavoro, con il sistema che è prossimo a raggiungere il punto di rottura. La frammentazione è così esasperata che, tra i sindacati e i consiglieri del Cnel, non ci si nasconde più: «L'elenco dei contratti depositati e registrati è cresciuto a tal punto da diventare una giungla imbarazzante».
Al 30 giugno del 2021, data dell'ultimo report semestrale, al Consiglio nazionale dell'Economia e del lavoro risultano depositati 985 contratti collettivi nazionali, 50 in più rispetto all'ultima rilevazione messa a punto lo scorso dicembre. Secondo un'elaborazione dell'ufficio studi della Cgia di Mestre, quattro contratti su dieci sono stati firmati da organizzazioni sindacali o associazioni datoriali sulla cui rappresentatività è sorto più di un dubbio. «Sindacati fantasma», li definiscono. «La libertà sindacale è un diritto inviolabile, ma negli ultimi anni abbiamo passato il segno. Non si può esagerare in questo modo», racconta Paolo Zabeo, coordinatore dell'ufficio studi di Cgia. «Ci sono associazioni che non rappresentano nessuno, o comunque un numero molto limitato di lavoratori, con un grave danno per le organizzazioni datoriali serie e per i diritti dei lavoratori».
Infilandosi in un vuoto normativo che negli ultimi 40 anni non è mai stato colmato, associazioni di imprese datoriali e organizzazioni di rappresentanza «di comodo» hanno percorso la strada dei micro accordi per modificare i contratti nazionali di riferimento e adattarli alle proprie realtà: le aziende risparmiano sulle condizioni di impiego, soprattutto sui salari; i lavoratori si ritrovano quasi costretti a firmare se vogliono lavorare. «I contratti pirata generano due fenomeni deleteri», ragiona con La Verità Lorenzo Medici, segretario generale della Cisl Funzione pubblica Campania. «Da una parte c'è la concorrenza sleale di chi applica un contratto a ribasso e ottiene un vantaggio enorme; dall'altra c'è il famoso dumping contrattuale: operai che lavorano fianco a fianco, ma si ritrovano a fare i conti con una retribuzione differente».
Spesso, questi tipi di accordi erodono i diritti più elementari, favorendo la precarietà, e incidono sulle condizioni di sicurezza all'interno delle aziende. Non è un caso che le irregolarità riscontrate dagli ispettori dell'Inail abbiano raggiunto livelli notevoli: nel 2020, secondo la relazione annuale presentata dal presidente dell'Istituto, Franco Bettoni, oltre l'86% delle 7.486 aziende ispezionate risultano non a norma.
In Italia, nonostante i tentativi si rincorrano da diversi anni, non esiste una legge sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali: l'ultima proposta, a firma delle deputate Chiara Gribaudo e Carla Cantone (Pd), è ferma da più di un anno a Montecitorio. «La commissione Lavoro ha analizzato il testo in comitato ristretto già nel 2020, ma la presidenza non ha più fissato il termine per la presentazione degli emendamenti», ricorda Gribaudo.
Senza precisi criteri di definizione del grado di rappresentatività riconosciuto alle organizzazioni sindacali, l'unica possibilità per individuare i «sindacati fantasma» è affidarsi ai numeri. Quelli che Cnel e Inps hanno iniziato a raccogliere nel giugno del 2018 per «fornire informazioni quantitative sulle centinaia di contratti collettivi nazionali di lavoro censiti».
L'idea è quella di individuare le organizzazioni firmatarie comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, cioè quelle che mettono insieme un elevato numero di datori e di lavoratori. Dall'insieme dei database dei due istituti, spuntano fuori casi piuttosto particolari, che con l'idea di rappresentatività sembrano avere poco o nulla a che fare. Il 29 maggio del 2019, le sigle Adli, Famar Confamar e Coop italiane sottoscrivono un contratto per lavoratori dipendenti delle imprese chimica, conciaria, materie plastiche, gomma, vetro e ceramica, che modifica leggermente quello di riferimento per il settore, firmato dalle grande organizzazioni datoriali e sindacali come Federchimica, Farmindustria, Filctem Cgil. A oggi, a sottoscrivere quel contratto sono appena 4 associazioni datoriali e 7 lavoratori. Numeri ben distanti dagli oltre 200.000 lavoratori e 3.640 datori che hanno scelto di seguire il contratto di riferimento.
E c'è chi riesce a fare ancora peggio: nel 2016, associazioni del settore alimentare come For Italy, Aic, Fagri sottoscrivono un contratto che ha messo insieme appena 1 associazione datoriale e 1 lavoratore. Il contratto di riferimento per gli alimentaristi, firmato, tra gli altri, da Federalimentare, Assolatte e Fai Cisl, di lavoratori ne mette insieme 203.631. Nel settore tessile, c'è perfino un contratto che nessuno ha mai sottoscritto: i contraenti sono Conflavoro Pmi, Fesica Confsal e altri, ma di lavoratori e datori di lavoro che hanno deciso di firmarlo neanche l'ombra.
«Nell'elenco si trova un po' di tutto, anche soggetti improbabili: ci sono sigle datoriali che fanno riferimento a consulenti del lavoro o a liberi professionisti. In altre occasioni, sono spuntati fuori anche legami di parentela tra i rappresentanti delle associazioni che firmano per i lavoratori e i datori di lavoro», rivela Carlo Podda, segretario Slc Cgil di Roma e Lazio e consigliere del Cnel. «Nel vuoto normativo, tanti imprenditori spregiudicati hanno trovato il modo di scegliere il contratto che vogliono. La pandemia ha messo in evidenza tutti nodi che il Paese si trascina da anni, anche nel mondo del lavoro. Il Pnrr dovrebbe essere l'occasione per iniziare a districare i principali».
In attesa di una legge sulla rappresentatività, per mettere un freno ai contratti «creati in laboratorio» con lo scopo di giocare sul costo del lavoro, la Cgia di Mestre auspica un maggiore potere decisionale in capo al Cnel, che oggi può solo limitarsi a una funzione di «raccolta». A Villa Lubin, sede del Consiglio, vige l'obbligo di registrazione di tutti i contratti sottoscritti in Italia, anche quelli che riguardano una sola persona. «Al Cnel», scrive Cgia in una delle sue ultime note, «va riconosciuto il compito di “bollinare" i contratti, che non potranno essere applicati fino a che le parti non decideranno di rispettare tutti i requisiti minimi richiesti».
«La deriva la vediamo. Ci manca soltanto il potere di giudicare»

Tiziano Treu (Ansa)
Neanche la pandemia è riuscita a fermare la moltiplicazione dei contratti nazionali del lavoro. Quasi ogni giorno nella sede del Cnel arrivano nuovi testi, spesso sottoscritti da «associazioni fantasma» di cui non si conosce quasi nulla, neanche da chi siano state costituite. «Sono ormai diventati troppi», ammette Tiziano Treu, il presidente del Consiglio nazionale dell'Economia e del lavoro, professore emerito di Diritto del lavoro e già ministro nei governi Dini, Prodi e D'Alema.
Presidente Treu, in soli 6 mesi il Cnel ha registrato 50 nuovi contratti collettivi di lavoro. Il numero complessivo è arrivato a 985: orientarsi nell'elenco degli accordi sottoscritti in questi anni è un rebus complicato.
«Alcuni sono dei contratti veri, siglati da categorie strutturate e sottoscritti da un elevato numero di lavoratori. Di molti, invece, sappiamo poco o nulla: ne ho visti alcuni di cui è difficile comprendere la paternità, siglati da associazioni di cui non si conosce neanche l'indirizzo. Come istituto siamo tenuti a registrarli, ma non abbiamo il potere di giudicare. Sarebbe auspicabile un cambiamento in tal senso».
Come è stato possibile arrivare a una tale proliferazione?
«Da anni la struttura del mercato del lavoro e quella dei rapporti collettivi si sono frammentate. Lo spezzettamento ha colpito tutti, anche i grandi sindacati o le associazioni di riferimento, penso a Confindustria. Ciò ha facilitato la nascita di micro associazioni provinciali. Dal momento che in Italia vige il principio della libertà sindacale, ognuno ha il diritto di creare l'associazione che vuole».
Paradossalmente, il rispetto di questo diritto ha posto le basi per quella che la Cgia di Mestre ha definito una situazione simile al «Far West»?
«Il principio della libertà sindacale ha portato a delle conseguenze assurde. Eppure, finché non fissiamo delle regole ben definite, non possiamo derogare a un diritto costituzionalmente garantito. Ognuno è nelle condizioni di dire “mi faccio il mio contratto". Se vale per 4 gatti, nessuno può dire nulla».
Siamo in un momento cruciale per il lavoro, tra licenziamenti, scioperi e mobilitazioni. Che tipo di ripercussioni può avere una presenza così massiccia di associazioni sindacali e datoriali «fantasma»?
«L'eccessiva frammentazione mi preoccupa, le ricadute sulle condizioni di lavoro non sono da sottovalutare. I rapporti di lavoro oggi sono precari, i salari scarsi. Se guardiamo alla nostra storia, le regole dei rapporti di lavoro sono stabilite per legge per quanto riguarda i minimi. La vera regolazione, tuttavia, viene dai contratti nazionali: se sono solidi, bene; se i contratti sono deboli, perché insidiati da “pirati", allora la tendenza è preoccupante. Come Cnel abbiamo sempre chiesto regole certe, magari concordate tra le parti».
Quali altre misure avete previsto?
«Una delle proposte che abbiamo avanzato è stata tradotta in legge, vale a dire l'istituzione di un codice unico dei contratti».
Di che cosa si tratta?
«Tutti i contratti collettivi avranno un numero, una sorta di targa, che può essere usata dalle amministrazioni in modo da conoscere l'identikit dei contratti. Con Inps, siamo in grado di dire quali sono i contratti adottati da un determinato numero di aziende e sottoscritti da un particolare insieme di lavoratori. Solo così riusciremo a capire davvero quali sono i contratti che contano e chi invece rappresenta una minuzia».
Da anni si parla di una legge sulla rappresentatività dei sindacati. Per quale motivo non si è mai arrivati a un punto di sintesi?
«Fino alla fine degli anni Novanta, quando la struttura del lavoro era solida e la rappresentatività delle organizzazioni maggiori era riconosciuta, c'era il principio del mutuo riconoscimento: le parti più grandi, associazioni datoriali e sindacali, si riconoscevano tra di loro».
Poi il sistema si è inceppato.
«La causa è da ricercare nella globalizzazione, che ha portato a una frammentazione del mercato del lavoro. Le parti sociali hanno sottovalutato l'impatto che questa “balcanizzazione" avrebbe potuto avere sulla loro rappresentatività. Per tanto tempo, sindacati e associazioni datoriali hanno fatto finta di niente».
Si aspetta una svolta?
«Una spinta può venire dall'Europa: la proposta di direttiva della Commissione europea sul salario minimo ne prevede un'introduzione per legge, come accade in buona parte dei Paesi europei. Chi non vuole la legge, può scegliere la strada dei contratti collettivi, che però devono avere un'efficacia effettiva. Se esistono settori regolati da contratti inadeguati, allora serve una qualche forma di rafforzamento erga omnes. Per questo occorre avere delle regole certe sulla rappresentatività: politica, sindacati e datori di lavoro non possono continuare a voltarsi dall'altra parte».
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Quattro contratti su dieci sono firmati da associazioni che non rappresentano nessuno, o quasi. Così ci troviamo di fronte a centinaia di accordi collettivi che sono perfettamente validi e legali ma anziché i lavoratori proteggono i padroni furbetti.Il capo del Cnel, Tiziano Treu: «Il fenomeno colpa anche dell'inerzia delle parti sociali. Noi registriamo tutto, ma il vuoto di leggi ci lega le mani».Lo speciale contiene due articoli.Quando i piccoli hanno deciso di emulare i grandi, le regole sono saltate. Quando lo spazio nelle grandi confederazioni o nelle associazioni di categoria più importanti si è assottigliato, si sono create le condizioni per la proliferazione di centinaia di contratti collettivi nazionali di lavoro, con il sistema che è prossimo a raggiungere il punto di rottura. La frammentazione è così esasperata che, tra i sindacati e i consiglieri del Cnel, non ci si nasconde più: «L'elenco dei contratti depositati e registrati è cresciuto a tal punto da diventare una giungla imbarazzante». Al 30 giugno del 2021, data dell'ultimo report semestrale, al Consiglio nazionale dell'Economia e del lavoro risultano depositati 985 contratti collettivi nazionali, 50 in più rispetto all'ultima rilevazione messa a punto lo scorso dicembre. Secondo un'elaborazione dell'ufficio studi della Cgia di Mestre, quattro contratti su dieci sono stati firmati da organizzazioni sindacali o associazioni datoriali sulla cui rappresentatività è sorto più di un dubbio. «Sindacati fantasma», li definiscono. «La libertà sindacale è un diritto inviolabile, ma negli ultimi anni abbiamo passato il segno. Non si può esagerare in questo modo», racconta Paolo Zabeo, coordinatore dell'ufficio studi di Cgia. «Ci sono associazioni che non rappresentano nessuno, o comunque un numero molto limitato di lavoratori, con un grave danno per le organizzazioni datoriali serie e per i diritti dei lavoratori».Infilandosi in un vuoto normativo che negli ultimi 40 anni non è mai stato colmato, associazioni di imprese datoriali e organizzazioni di rappresentanza «di comodo» hanno percorso la strada dei micro accordi per modificare i contratti nazionali di riferimento e adattarli alle proprie realtà: le aziende risparmiano sulle condizioni di impiego, soprattutto sui salari; i lavoratori si ritrovano quasi costretti a firmare se vogliono lavorare. «I contratti pirata generano due fenomeni deleteri», ragiona con La Verità Lorenzo Medici, segretario generale della Cisl Funzione pubblica Campania. «Da una parte c'è la concorrenza sleale di chi applica un contratto a ribasso e ottiene un vantaggio enorme; dall'altra c'è il famoso dumping contrattuale: operai che lavorano fianco a fianco, ma si ritrovano a fare i conti con una retribuzione differente». Spesso, questi tipi di accordi erodono i diritti più elementari, favorendo la precarietà, e incidono sulle condizioni di sicurezza all'interno delle aziende. Non è un caso che le irregolarità riscontrate dagli ispettori dell'Inail abbiano raggiunto livelli notevoli: nel 2020, secondo la relazione annuale presentata dal presidente dell'Istituto, Franco Bettoni, oltre l'86% delle 7.486 aziende ispezionate risultano non a norma. In Italia, nonostante i tentativi si rincorrano da diversi anni, non esiste una legge sulla rappresentatività delle organizzazioni sindacali: l'ultima proposta, a firma delle deputate Chiara Gribaudo e Carla Cantone (Pd), è ferma da più di un anno a Montecitorio. «La commissione Lavoro ha analizzato il testo in comitato ristretto già nel 2020, ma la presidenza non ha più fissato il termine per la presentazione degli emendamenti», ricorda Gribaudo.Senza precisi criteri di definizione del grado di rappresentatività riconosciuto alle organizzazioni sindacali, l'unica possibilità per individuare i «sindacati fantasma» è affidarsi ai numeri. Quelli che Cnel e Inps hanno iniziato a raccogliere nel giugno del 2018 per «fornire informazioni quantitative sulle centinaia di contratti collettivi nazionali di lavoro censiti». L'idea è quella di individuare le organizzazioni firmatarie comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, cioè quelle che mettono insieme un elevato numero di datori e di lavoratori. Dall'insieme dei database dei due istituti, spuntano fuori casi piuttosto particolari, che con l'idea di rappresentatività sembrano avere poco o nulla a che fare. Il 29 maggio del 2019, le sigle Adli, Famar Confamar e Coop italiane sottoscrivono un contratto per lavoratori dipendenti delle imprese chimica, conciaria, materie plastiche, gomma, vetro e ceramica, che modifica leggermente quello di riferimento per il settore, firmato dalle grande organizzazioni datoriali e sindacali come Federchimica, Farmindustria, Filctem Cgil. A oggi, a sottoscrivere quel contratto sono appena 4 associazioni datoriali e 7 lavoratori. Numeri ben distanti dagli oltre 200.000 lavoratori e 3.640 datori che hanno scelto di seguire il contratto di riferimento. E c'è chi riesce a fare ancora peggio: nel 2016, associazioni del settore alimentare come For Italy, Aic, Fagri sottoscrivono un contratto che ha messo insieme appena 1 associazione datoriale e 1 lavoratore. Il contratto di riferimento per gli alimentaristi, firmato, tra gli altri, da Federalimentare, Assolatte e Fai Cisl, di lavoratori ne mette insieme 203.631. Nel settore tessile, c'è perfino un contratto che nessuno ha mai sottoscritto: i contraenti sono Conflavoro Pmi, Fesica Confsal e altri, ma di lavoratori e datori di lavoro che hanno deciso di firmarlo neanche l'ombra.«Nell'elenco si trova un po' di tutto, anche soggetti improbabili: ci sono sigle datoriali che fanno riferimento a consulenti del lavoro o a liberi professionisti. In altre occasioni, sono spuntati fuori anche legami di parentela tra i rappresentanti delle associazioni che firmano per i lavoratori e i datori di lavoro», rivela Carlo Podda, segretario Slc Cgil di Roma e Lazio e consigliere del Cnel. «Nel vuoto normativo, tanti imprenditori spregiudicati hanno trovato il modo di scegliere il contratto che vogliono. La pandemia ha messo in evidenza tutti nodi che il Paese si trascina da anni, anche nel mondo del lavoro. Il Pnrr dovrebbe essere l'occasione per iniziare a districare i principali». In attesa di una legge sulla rappresentatività, per mettere un freno ai contratti «creati in laboratorio» con lo scopo di giocare sul costo del lavoro, la Cgia di Mestre auspica un maggiore potere decisionale in capo al Cnel, che oggi può solo limitarsi a una funzione di «raccolta». A Villa Lubin, sede del Consiglio, vige l'obbligo di registrazione di tutti i contratti sottoscritti in Italia, anche quelli che riguardano una sola persona. «Al Cnel», scrive Cgia in una delle sue ultime note, «va riconosciuto il compito di “bollinare" i contratti, che non potranno essere applicati fino a che le parti non decideranno di rispettare tutti i requisiti minimi richiesti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/sindacati-fantasma-sigla-nazionale-2653958977.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-deriva-la-vediamo-ci-manca-soltanto-il-potere-di-giudicare" data-post-id="2653958977" data-published-at="1627236181" data-use-pagination="False"> «La deriva la vediamo. Ci manca soltanto il potere di giudicare» Tiziano Treu (Ansa) Neanche la pandemia è riuscita a fermare la moltiplicazione dei contratti nazionali del lavoro. Quasi ogni giorno nella sede del Cnel arrivano nuovi testi, spesso sottoscritti da «associazioni fantasma» di cui non si conosce quasi nulla, neanche da chi siano state costituite. «Sono ormai diventati troppi», ammette Tiziano Treu, il presidente del Consiglio nazionale dell'Economia e del lavoro, professore emerito di Diritto del lavoro e già ministro nei governi Dini, Prodi e D'Alema. Presidente Treu, in soli 6 mesi il Cnel ha registrato 50 nuovi contratti collettivi di lavoro. Il numero complessivo è arrivato a 985: orientarsi nell'elenco degli accordi sottoscritti in questi anni è un rebus complicato. «Alcuni sono dei contratti veri, siglati da categorie strutturate e sottoscritti da un elevato numero di lavoratori. Di molti, invece, sappiamo poco o nulla: ne ho visti alcuni di cui è difficile comprendere la paternità, siglati da associazioni di cui non si conosce neanche l'indirizzo. Come istituto siamo tenuti a registrarli, ma non abbiamo il potere di giudicare. Sarebbe auspicabile un cambiamento in tal senso». Come è stato possibile arrivare a una tale proliferazione? «Da anni la struttura del mercato del lavoro e quella dei rapporti collettivi si sono frammentate. Lo spezzettamento ha colpito tutti, anche i grandi sindacati o le associazioni di riferimento, penso a Confindustria. Ciò ha facilitato la nascita di micro associazioni provinciali. Dal momento che in Italia vige il principio della libertà sindacale, ognuno ha il diritto di creare l'associazione che vuole». Paradossalmente, il rispetto di questo diritto ha posto le basi per quella che la Cgia di Mestre ha definito una situazione simile al «Far West»? «Il principio della libertà sindacale ha portato a delle conseguenze assurde. Eppure, finché non fissiamo delle regole ben definite, non possiamo derogare a un diritto costituzionalmente garantito. Ognuno è nelle condizioni di dire “mi faccio il mio contratto". Se vale per 4 gatti, nessuno può dire nulla». Siamo in un momento cruciale per il lavoro, tra licenziamenti, scioperi e mobilitazioni. Che tipo di ripercussioni può avere una presenza così massiccia di associazioni sindacali e datoriali «fantasma»? «L'eccessiva frammentazione mi preoccupa, le ricadute sulle condizioni di lavoro non sono da sottovalutare. I rapporti di lavoro oggi sono precari, i salari scarsi. Se guardiamo alla nostra storia, le regole dei rapporti di lavoro sono stabilite per legge per quanto riguarda i minimi. La vera regolazione, tuttavia, viene dai contratti nazionali: se sono solidi, bene; se i contratti sono deboli, perché insidiati da “pirati", allora la tendenza è preoccupante. Come Cnel abbiamo sempre chiesto regole certe, magari concordate tra le parti». Quali altre misure avete previsto? «Una delle proposte che abbiamo avanzato è stata tradotta in legge, vale a dire l'istituzione di un codice unico dei contratti». Di che cosa si tratta? «Tutti i contratti collettivi avranno un numero, una sorta di targa, che può essere usata dalle amministrazioni in modo da conoscere l'identikit dei contratti. Con Inps, siamo in grado di dire quali sono i contratti adottati da un determinato numero di aziende e sottoscritti da un particolare insieme di lavoratori. Solo così riusciremo a capire davvero quali sono i contratti che contano e chi invece rappresenta una minuzia». Da anni si parla di una legge sulla rappresentatività dei sindacati. Per quale motivo non si è mai arrivati a un punto di sintesi? «Fino alla fine degli anni Novanta, quando la struttura del lavoro era solida e la rappresentatività delle organizzazioni maggiori era riconosciuta, c'era il principio del mutuo riconoscimento: le parti più grandi, associazioni datoriali e sindacali, si riconoscevano tra di loro». Poi il sistema si è inceppato. «La causa è da ricercare nella globalizzazione, che ha portato a una frammentazione del mercato del lavoro. Le parti sociali hanno sottovalutato l'impatto che questa “balcanizzazione" avrebbe potuto avere sulla loro rappresentatività. Per tanto tempo, sindacati e associazioni datoriali hanno fatto finta di niente». Si aspetta una svolta? «Una spinta può venire dall'Europa: la proposta di direttiva della Commissione europea sul salario minimo ne prevede un'introduzione per legge, come accade in buona parte dei Paesi europei. Chi non vuole la legge, può scegliere la strada dei contratti collettivi, che però devono avere un'efficacia effettiva. Se esistono settori regolati da contratti inadeguati, allora serve una qualche forma di rafforzamento erga omnes. Per questo occorre avere delle regole certe sulla rappresentatività: politica, sindacati e datori di lavoro non possono continuare a voltarsi dall'altra parte».
Ansa
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
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Brigitte Bardot guarda Gunter Sachs (Ansa)
Ora che è morta, la destra la vorrebbe ricordare. Ma non perché in passato aveva detto di votare il Front National. Semplicemente perché la Bardot è stata un simbolo della Francia, come ha chiesto Eric Ciotti, del Rassemblement National, a Emmanuel Macron. Una proposta scontata, alla quale però hanno risposto negativamente i socialisti. Su X, infatti, Olivier Faure ha scritto: «Gli omaggi nazionali vengono organizzati per servizi eccezionali resi alla Nazione. Brigitte Bardot è stata un'attrice emblematica della Nouvelle Vague. Solare, ha segnato il cinema francese. Ma ha anche voltato le spalle ai valori repubblicani ed è stata pluri-condannata dalla giustizia per razzismo». Un po’ come se esser stata la più importante attrice degli anni Cinquanta e Sessanta passasse in secondo piano a causa delle sue scelte politiche. Come se BB, per le sue idee, non facesse più parte di quella Francia che aveva portato al centro del mondo. Non solo nel cinema. Ma anche nel turismo. Fu grazie a lei che la spiaggia di Saint Tropez divenne di moda. Le sue immagini, nuda sulla riva, finirono sulle copertine delle riviste più importanti dell’epoca. E fecero sì che, ricchi e meno ricchi, raggiungessero quel mare limpido e selvaggio nella speranza di poterla incontrare. Tra loro anche Gigi Rizzi, che faceva parte di quel gruppo di italiani in cerca di belle donne e fortuna sulla spiaggia di Saint Tropez. Un amore estivo, che però lo rese immortale.
È vero: BB era di destra. Era una femmina che non poteva essere femminista. Avrebbe tradito sé stessa se lo avesse fatto. Del resto, disse: «Il femminismo non è il mio genere. A me piacciono gli uomini». Impossibile aggiungere altro.
Se non il dispiacere nel vedere una certa Francia voltarle le spalle. Ancora una volta. Quella stessa Francia che ha dimenticato sé stessa e che ha perso la propria identità. Quella Francia che oggi vuole dimenticare chi, Brigitte Bardot, le ricordava che cosa avrebbe potuto essere. Una Francia dei francesi. Una Francia certamente capace di accogliere, ma senza perdere la propria identità. Era questo che chiedeva BB, massacrata da morta sui giornali di sinistra, vedi Liberation, che titolano Brigitte Bardot, la discesa verso l'odio razziale.
Forse, nelle sue lettere contro l’islamizzazione, BB odiò davvero. Chi lo sa. Di certo amò la Francia, che incarnò. Nel 1956, proprio mentre la Bardot riempiva i cinema mondiali, Édith Piaf scrisse Non, je ne regrette rien (no, non mi pento di nulla). Lo fece per i legionari che combattevano la guerra d’Algeria. Una guerra che oggi i socialisti definirebbero colonialista. Quelle parole di gioia possono essere il testamento spirituale di BB. Che visse, senza rimpiangere nulla. Vivendo in un eterno presente. Mangiando la vita a morsi. Sparendo dalla scena. Ora per sempre.
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«Gigolò per caso» (Amazon Prime Video)
Un infarto, però, lo aveva costretto ad una lunga degenza e, insieme, ad uno stop professionale. Stop che non avrebbe potuto permettersi, indebitato com'era con un orologiaio affatto mite. Così, pur sapendo che avrebbe incontrato la riprova del figlio, già inviperito con suo padre, Giacomo aveva deciso di chiedergli una mano. Una sostituzione, il favore di frequentare le sue clienti abituali, consentendogli con ciò un'adeguata ripresa. La prima stagione della serie televisiva era passata, perciò, dalla rabbia allo stupore, per trovare, infine, il divertimento e una strana armonia. La seconda, intitolata La sex gurue pronta a debuttare su Amazon Prime video venerdì 2 gennaio, dovrebbe fare altrettanto, risparmiandosi però la fase della rabbia. Alfonso, cioè, è ormai a suo agio nel ruolo di gigolò. Non solo. La strana alleanza professionale, arrivata in un momento topico della sua vita, quello della crisi con la moglie Margherita, gli ha consentito di recuperare il rapporto con il padre, che credeva irrimediabilmente compromesso. Si diverte, quasi, a frequentare le sue clienti sgallettate. Peccato solo l'arrivo di Rossana Astri, il volto di Sabrina Ferilli. La donna è una fra le più celebri guru del nuovo femminismo, determinata ad indottrinare le sue simili perché si convincano sia giusto fare a meno degli uomini. Ed è questa convinzione che muove anche Margherita, moglie in crisi di Alfonso. Margherita, interpretata da Ambra Angiolini, diventa un'adepta della Astri, una sua fedele scudiera. Quasi, si scopre ad odiarli, gli uomini, dando vita ad una sorta di guerra tra sessi. Divertita, però. E capace, pure di far emergere le abissali differenze tra il maschile e il femminile, i desideri degli uni e le aspettative, quasi mai soddisfatte, delle altre.
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La nuova applicazione, in parte accessibile anche ai non clienti, introduce servizi innovativi come un assistente virtuale basato su Intelligenza artificiale, attivo 24 ore su 24, e uno screening audiometrico effettuabile direttamente dallo smartphone. L’obiettivo è duplice: migliorare la qualità del servizio clienti e promuovere una maggiore consapevolezza dell’importanza della prevenzione uditiva, riducendo le barriere all’accesso ai controlli iniziali.
Il lancio avviene in un contesto complesso per il settore. Nei primi nove mesi dell’anno Amplifon ha registrato una crescita dei ricavi dell’1,8% a cambi costanti, ma il titolo ha risentito dell’andamento negativo che ha colpito in Borsa i principali operatori del comparto. Lo sguardo di lungo periodo restituisce però un quadro diverso: negli ultimi dieci anni il titolo Amplifon ha segnato un incremento dell’80% (ieri +0,7% fra i migliori cinque del Ftse Mib), al netto dei dividendi distribuiti, che complessivamente sfiorano i 450 milioni di euro. Nello stesso arco temporale, tra il 2014 e il 2024, il gruppo ha triplicato i ricavi, arrivando a circa 2,4 miliardi di euro.
Il progetto della nuova app è stato sviluppato da Amplifon X, la divisione di ricerca e sviluppo del gruppo. Con sedi a Milano e Napoli, Amplifon X riunisce circa 50 professionisti tra sviluppatori, data analyst e designer, impegnati nella creazione di soluzioni digitali avanzate per l’audiologia. L’Intelligenza artificiale rappresenta uno dei pilastri di questa strategia, applicata non solo alla diagnosi e al supporto al paziente, ma anche alla gestione delle esigenze quotidiane legate all’uso degli apparecchi acustici.
Accanto alla tecnologia, resta centrale il ruolo degli audioprotesisti, figure chiave per Amplifon. Le competenze tecniche ed empatiche degli specialisti della salute dell’udito continuano a essere considerate un elemento insostituibile del modello di servizio, con il digitale pensato come strumento di supporto e integrazione, non come sostituzione del rapporto umano.
Fondato a Milano nel 1950, il gruppo Amplifon opera oggi in 26 Paesi con oltre 10.000 centri audiologici, impiegando più di 20.000 persone. La prevenzione e l’assistenza rappresentano i cardini della strategia industriale, e la nuova Amplifon App si inserisce in questa visione come leva per ampliare l’accesso ai servizi e rafforzare la relazione con i pazienti lungo tutto il ciclo di cura.
Il rilascio della nuova applicazione è avvenuto in modo progressivo. Dopo il debutto in Francia, Nuova Zelanda, Portogallo e Stati Uniti, la app è stata estesa ad Australia, Belgio, Germania, Italia, Olanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera, con l’obiettivo di garantire un’esperienza digitale omogenea nei principali mercati del gruppo.
Ma l’innovazione digitale di Amplifon non si ferma all’app. Negli ultimi anni il gruppo ha sviluppato soluzioni come gli audiometri digitali OtoPad e OtoKiosk, certificati Ce e Fda, e i nuovi apparecchi Ampli-Mini Ai, miniaturizzati, ricaricabili e in grado di adattarsi in tempo reale all’ambiente sonoro. Entro la fine del 2025 è inoltre previsto il lancio in Cina di Amplifon Product Experience (Ape), la linea di prodotti a marchio Amplifon già introdotta in Argentina e Cile e oggi presente in 15 dei 26 Paesi in cui il gruppo opera.
Già per Natale il gruppo aveva lanciato la speciale campagna globale The Wish (Il regalo perfetto) Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, oggi nel mondo circa 1,5 miliardi di persone convivono con una forma di perdita uditiva (o ipoacusia) e il loro numero è destinato a salire a 2,5 miliardi nel 2050.
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