2025-04-19
Sindacalista denuncia aggressione fascista. Poi inizia l’inchiesta e la versione cambia
Una manifestazione della Fillea-Cgil (Ansa)
Dopo i primi accertamenti il segretario genovese della Fillea Cgil ha ritirato la querela, dando la colpa alla «pressione emotiva».All’inizio era stata rappresentata come un’aggressione squadrista. E il sindacato si era lanciato in una denuncia pubblica con toni da anni di piombo.Il segretario genovese della Fillea Cgil, Fabiano Mura, aveva raccontato di essere stato inseguito da un’auto mentre stava raggiungendo un cantiere per incontrare alcuni operai, accerchiato da due uomini, insultato come «comunista di merda», colpito, schiaffeggiato, sputato e intimidito con saluti romani. E a poco più di una settimana dal 25 aprile. Subito si era gridato al rigurgito fascista.La Cgil locale, quella regionale, i vertici nazionali e perfino Maurizio Landini in diretta tv da Giovanni Floris avevano alzato un muro contro la nuova orda nera da fermare con urgenza. «Sai cosa è successo questa mattina a Genova a un nostro segretario che girava con una macchina con simboli del referendum? Gli si sono avvicinati due al grido di “sporco comunista”», ha argomentato Landini sposando la ricostruzione di Mura: «Gli hanno sputato addosso e lo hanno aggredito. È la prima volta che nazisti e fascisti aggrediscono un uomo del nostro sindacato». Poi, tutti compatti a Genova in un presidio convocato in fretta, nel cuore di Sestri Ponente, per dire «no» alla violenza e «no» al fascismo.Poco dopo, però, è arrivata la realtà. Gelida. Fatale. Una nota della Cgil fa sobbalzare chi aveva già scritto articoli, affisso manifesti, arringato le piazze. Il sindacalista che aveva denunciato l’aggressione, si legge, «pur confermando i fatti, ha ritirato la denuncia». Perché? «A causa della forte pressione emotiva». Una giustificazione che ha il sapore dell’imbarazzo, più che della coerenza. Anche perché, nel frattempo il pm della Procura genovese, Federico Manotti, e gli agenti della Digos dopo le prime incongruenze devono aver cominciato a fiutare qualcosa di strano. L’auto con la quale il sindacalista ha detto di essere uscito alle 7.15, stando ai filmati delle telecamere, era saldamente in garage fino alle 7.45. Tempo che sembra coprire ampiamente anche il momento dell’aggressione, indicata alle 7.30. Altre telecamere, poi, lo inquadrano in via San Giovanni d’Acri, nelle vicinanze della sede della Cgil, alle 8.15.Ma non è l’unico aspetto che non torna. I presunti aggressori sembrano svaniti nel nulla. Le urla «fasciste» mai intercettate da alcun testimone. Gli operai che il sindacalista avrebbe dovuto raggiungere quando è stato aggredito non sono identificabili. E, dettaglio non da poco, sull’auto non c’è traccia degli adesivi pro-referendum su lavoro e cittadinanza, ovvero quelli che avrebbero fatto da esca per il denunciato agguato politico. Gli investigatori, insomma, stanno lavorando su una scansione temporale che appare incompatibile (e anche priva di riscontri oggettivi) rispetto alla ricostruzione fornita. Mura dice di essere stato picchiato, ma all’ospedale Villa Scassi gli danno cinque giorni di prognosi. I magistrati guardano i video. Seguono le traiettorie. Confrontano gli orari. Cercano il cantiere, che non c’è. E, pezzo dopo pezzo, il castello costruito sull’indignazione collettiva sembra cominciare a sgretolarsi.Dalla Cgil regionale, nonostante tutto, provano un ennesimo soccorso rosso, esprimendo «assoluta fiducia negli organismi inquirenti, nella magistratura e nelle istituzioni» ma, allo stesso tempo, si dicono «fortemente preoccupati per la fuoriuscita di notizie che potrebbero mettere a rischio le stesse indagini». In realtà, a rischio c’era solo la credibilità della narrazione e di chi gli è andato dietro cercando di sostenerla nonostante le criticità. E anche la politica ha preso una sbandata. Il centrosinistra aveva fatto subito quadrato intorno al presunto aggredito. In prima fila, insieme con i vertici della sinistra locale, c’era la dem Silvia Salis, candidata sindaco. Che adesso tenta un dietrofront imbarazzato: «Nel momento in cui un sindacato denuncia un fatto così grave è giusto esserci», dice Salis che, però, subito dopo precisa: «Poi rimangono delle responsabilità personali, individuali di chi ha riportato l’evento, sulle quali ovviamente non abbiamo nessuna responsabilità». E conclude con un «ma poi sarà da verificare tutto».E mentre in Procura non resta che valutare se, dopo la remissione di querela, ci sono i presupposti per proseguire l’indagine di ufficio, la Cgil cerca di mantenersi in equilibrio sostenendo che le indagini «non vadano interrotte» e anche che «devono fare completa luce su quanto accaduto con l’obiettivo di fare chiarezza su un episodio di estrema gravità». Ma la frittata ormai è fatta. E in casa Fillea non hanno fatto in tempo a riprendersi dalla precedente figuraccia. Meno di un anno fa finiva nell’inchiesta su Giovanni Toti tale Venanzio Maurici detto Ezio, classe 1960, un passato importante nella Fillea, un presente nei pensionati (fino alla sua sospensione). E un cognome pesante. Un suo parente, Giacomo Maurici, era noto come «Labico», cugino del boss Pino Cammarata, esponente della mafia siciliana. Una relazione denunciata da quasi 20 anni dalla Casa della legalità. Ezio e don Giacomo, stando alle ricostruzioni, si frequentavano. Pranzi, cene, ricorrenze. Foto. Nel 2008, l’inchiesta Pandora portò alla ribalta una serie di appalti sospetti legati alla ‘ndrangheta dei Raso-Gullace-Albanese di Cittanova. All’epoca, Maurici era subito sceso in campo chiedendo di «non criminalizzare l’azienda in base a fonti poco credibili». Il sindacato, però, lo ha sempre difeso. Come con Mura. Anche quando la realtà faceva a pugni con la versione ufficiale.
(Guardia di Finanza)
In particolare, i Baschi verdi del Gruppo Pronto Impiego, hanno analizzato i flussi delle importazioni attraverso gli spedizionieri presenti in città, al fine di individuare i principali importatori di prodotti da fumo e la successiva distribuzione ai canali di vendita, che, dal 2020, è prerogativa esclusiva dei tabaccai per i quali è previsto il versamento all’erario di un’imposta di consumo.
Dall’esame delle importazioni della merce nel capoluogo siciliano, i finanzieri hanno scoperto come, oltre ai canali ufficiali che vedevano quali clienti le rivendite di tabacchi regolarmente autorizzate da licenza rilasciata dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, ci fosse un vero e proprio mercato parallelo gestito da società riconducibili a soggetti extracomunitari.
Infatti, è emerso come un unico grande importatore di tali prodotti, con sede a Partinico, rifornisse numerosi negozi di oggettistica e articoli per la casa privi di licenza di vendita. I finanzieri, quindi, seguendo le consegne effettuate dall’importatore, hanno scoperto ben 11 esercizi commerciali che vendevano abitualmente sigarette elettroniche, cartine e filtri senza alcuna licenza e in totale evasione di imposta sui consumi.
Durante l’accesso presso la sede e i magazzini sia dell’importatore che di tutti i negozi individuati in pieno centro a Palermo, i militari hanno individuato la presenza di poche scatole esposte per la vendita, in alcuni casi anche occultate sotto i banconi, mentre il grosso dei prodotti veniva conservato, opportunamente nascosto, in magazzini secondari nelle vicinanze dei negozi.
Pertanto, oltre al sequestro della merce, i titolari dei 12 esercizi commerciali sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria e le attività sono state segnalate all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, per le sanzioni accessorie previste, tra le quali la chiusura dell’esercizio commerciale.
La vendita attraverso canali non controllati e non autorizzati da regolare licenza espone peraltro a possibili pericoli per la salute gli utilizzatori finali, quasi esclusivamente minorenni, che comprano i prodotti a prezzi più bassi ma senza avere alcuna garanzia sulla qualità degli stessi.
L’operazione segna un importante colpo a questa nuova forma di contrabbando che, al passo con i tempi, pare abbia sostituito le vecchie “bionde” con i nuovi prodotti da fumo.
Le ipotesi investigative delineate sono state formulate nel rispetto del principio della presunzione d’innocenza delle persone sottoposte a indagini e la responsabilità degli indagati dovrà essere definitivamente accertata nel corso del procedimento e solo ove intervenga sentenza irrevocabile di condanna.
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