2022-02-25
Simone Weil, l’intellettuale afflitta dalla vocazione all’annientamento
Simone Weil (Getty Images)
La filosofa volle lavorare nei campi come «garzone di fattoria» per sperimentare la miseria umana. Chiese addirittura di poter dormire all’aperto: nella sua umiltà si riteneva indegna di essere amata.Per gentile concessione dell’editrice Mimesis, pubblichiamo un estratto dalla nuova edizione del volume Simone Weil. Come l’abbiamo conosciuta, scritto da Joseph-Marie Perrin e Gustave Thibon (174 pagine, 18 euro). In queste pagine gli autori, che frequentarono la scrittrice e filosofa francese negli anni giovanili, attraverso il racconto del cammino percorso assieme a lei aiutano a comprendere la complessa personalità dell’intellettuale ebrea morta a soli 34 anni portando con sé tutte le inquietudini del Novecento.Cercherò di parlare di Simone Weil facendo astrazione dall’immenso alone di commenti, discussioni e leggende che circondano oggi la sua figura. Dimenticherò anche momentaneamente la sua opera, per risuscitare questo essere sconosciuto e, per così dire, «caduto dal cielo», che per un momento condivise la mia esistenza. […]Il mio amico di sempre, padre Perrin, mi aveva chiesto di accoglierla a casa mia per iniziarla alla vita agricola. Non mi sono oggi molto chiari i motivi che mi hanno fatto rispondere di sì. Il primo era forse il desiderio di non rifiutare niente a un amico. Bisogna anche dire, poiché la benevolenza allo stato puro è rara, che mi trovavo ancora in quell’età della vita in cui si è avidi di nuove conoscenze. Nelle poche lettere che allora Simone Weil mi indirizzò per precisarmi le esigenze della sua momentanea vocazione di «garzona di fattoria», trasparivano già i due grandi, contraddittori impulsi la cui tensione suscitò in lei l’esperienza più patetica della miseria umana e della croce e le impedì allo stesso tempo di pervenire alla suprema serenità: da una parte un bisogno di cancellazione assoluta, un’apertura senza limiti alla realtà, anche nelle sue forme più dure, e, dall’altra, una terribile volontà propria nel cuore stesso della privazione, il desiderio inflessibile che questa privazione fosse opera sua e si realizzasse attraverso le vie che lei aveva tracciato, la tentazione divorante di verificare tutto dal di dentro, di tutto provare - nei due sensi del termine - in sé stessa e fuori di sé stessa. […]Dopo un breve scambio di corrispondenza, vidi arrivare Simone Weil (le avevo proposto di trascorrere qualche settimana a casa mia per iniziarsi ai diversi lavori agricoli, in attesa di divenire davvero garzona di fattoria presso un grosso proprietario dei dintorni). Come narrare questo primo colloquio? Non voglio parlare del suo aspetto fisico (non era brutta, come si è detto, ma prematuramente ingobbita e invecchiata a causa dell’ascetismo e della malattia, e solo i suoi ammirevoli occhi restavano a galla in quel naufragio della bellezza), né del suo abbigliamento bizzarro e del suo inverosimile bagaglio (ignorava magnificamente non soltanto i canoni dell’eleganza, ma perfino le elementari abitudini che permettono di passare inosservati); dirò solo che quel contatto iniziale suscitò in me sentimenti molto differenti, forse dell’antipatia, ma almeno altrettanto penosi. Ebbi l’impressione di trovarmi di fronte a un essere radicalmente estraneo a ogni mio modo di sentire e di pensare, a tutto ciò che per me rappresenta il senso e il sapore della vita. Fu, in una parola, la rivelazione dei miei antipodi: mi trovavo spaesato davanti a una terra nuova e a stelle sconosciute. Ignoravo ancora che, se non fossimo guidati dagli stessi astri, le nostre anime si congiungerebbero nello stesso cielo. La mia sola impressione positiva fu un sentimento di rispetto incondizionato per un essere di cui, attraverso tutte le nostre divergenze intellettuali e affettive, presagivo oscuramente la grandezza unica. Questo sentimento di «venerazione» si accrebbe ulteriormente quando, dopo averla lasciata qualche istante per ricevere un visitatore, la ritrovai davanti alla casa, seduta su un tronco, immersa nella contemplazione della valle del Rodano. Vidi allora il suo sguardo emergere a poco a poco dalla visione per ritornare alla vista; l’intensità, la purezza di quello sguardo erano tali che si sentiva che contemplava abissi interiori, contemporaneamente allo splendido orizzonte che si apriva ai suoi piedi, e che la bellezza della sua anima corrispondeva alla delicata maestà del paesaggio.Un aspetto più ruvido del suo carattere emerse non appena bisognò procedere alla sua sistemazione in casa. Trovando la nostra umile casa troppo confortevole, rifiutò la camera che le offrivo e volle a ogni costo dormire all’aperto. Allora mi arrabbiai e, dopo lunghe discussioni, finii per cedere. Il giorno seguente si giunse a un compromesso: i miei suoceri possedevano all’epoca una casetta semidistrutta sulle rive del Rodano, nella quale la sistemammo, non senza qualche complicazione per tutti: altrimenti tutto sarebbe stato tanto più semplice! Potrei citare cento episodi dello stesso tipo: lei che, per il suo piacere o il suo bisogno, non avrebbe accettato il più piccolo sacrificio del prossimo, sembrava non tener conto delle complicazioni, e persino delle sofferenze, che introduceva nella vita degli altri non appena si trattava di realizzare la sua vocazione all’annientamento. La sua ricerca della scomodità nelle piccole cose e della sventura nelle grandi le faceva trascurare le conseguenze incresciose in termini di scomodità e di sventura che potevano ricadere su quanti le erano accanto. Forse la sua umiltà pensava pure che, non essendo degna di essere amata, non rischiava di far soffrire molto. Un giorno, dopo avermi pregato di intervenire presso le autorità di Vichy in favore di un rifugiato spagnolo deportato in Algeria, mi chiese bruscamente di giurarle che non avrei fatto niente qualora fosse stata imprigionata a sua volta. Protestai (i suoi genitori, il giorno prima, mi avevano fatto promettere esattamente il contrario) e, infine, le dissi: «Invertiamo i ruoli: vi farebbe piacere che, essendo voi libera, io fossi in prigione?». Alzò leggermente la testa e mi rispose con un lampo smorzato nello sguardo: «Non lo sopporterei». Furono, credo, le parole più affettuose che mi abbia detto. Ma perché, di fronte alla stessa possibilità di sofferenza - assistere passivamente alla sventura di una persona amata - usava, per me e lei, criteri di valutazione così diversi? Ebbi come un gelido segnale dell’egoismo trascendentale dell’eroe. Ho appena pronunciato una parola severa, e che esige tante più sfumature in quanto è in parte vera. L’uomo religioso non pensa che a sé stesso, diceva Nietzsche. È giusto in tutti i sensi per quei devoti di qualità inferiore che trascurano i loro doveri più evidenti per seguire una vocazione chimerica, ed è ancora giusto, in un certo senso, per gli eroi e i santi che non hanno realizzato in essi la suprema spoliazione. So bene che non è egoismo obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, e che i grandi ispirati hanno altro da fare che preoccuparsi dei graffi e delle ferite che la loro docilità allo Spirito può provocare nei poveri esseri che il caso ha messo loro accanto. So, altresì, che questo aspetto disagevole del carattere di Simone Weil è tipico di molte anime eroiche […]: un Francesco d’Assisi, una Giovanna d’Arco, non esitarono mai a far soffrire il loro prossimo vicino per rispondere all’appello della loro vocazione lontana. E tuttavia penso, nel caso preciso di Simone Weil, che questa tensione, questa rigidità nell’obbedienza alla propria vocazione costituissero un segno, non certo di inautenticità, ma di asprezza, di immaturità della sua vita spirituale. I frutti migliori restano duri finché sono acerbi. Questa nozione di immaturità mi sembra particolarmente preziosa per chiarire certi contrasti della condotta e del pensiero di Simone Weil e, in primo luogo, l’enigma del suo duplice atteggiamento nei confronti di sé stessa e del prossimo. Voleva dimenticare sé stessa e si ritrovava persino in questo oblio; amava il prossimo con tutto il suo essere, ma la sua abnegazione troppo spesso passava a lato dei veri desideri e dei veri bisogni degli altri.
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco