2021-10-16
Si è già aperta la stagione di caccia. Mani in tasca alle piccole aziende
In arrivo una stretta per cercare di azzerare il saldo primario, ora negativo per 107 miliardi, entro il 2024. Nel mirino anche le agevolazioni alle Pmi, come l'imposta sostitutiva sulla cessione delle partecipazioni.È cominciata la caccia grossa al patrimonio mobiliare e immobiliare degli italiani. Il colpo d'inizio è stato sparato con il varo del disegno di legge finalizzato a ottenere dal Parlamento la delega a legiferare in materia fiscale entro i prossimi 18 mesi. Tale ddl dovrebbe essere incardinato alla Camera ma vaga ramingo dal 5 ottobre in attesa dell'autorizzazione del Quirinale. Ma quando la caccia si fa grossa, si usa il machete anziché il bisturi, a discapito della precisione, come accaduto lunedì sull'Economia del Corriere della Sera in un articolo di Federico Fubini («Tasse, lo strano caso della “sostitutiva" all'11%. Incentivo all'investimento o regalo ai ricchi?»).Si parla della tassazione sulla plusvalenza derivante dalla cessione di partecipazioni societarie (quote o azioni) detenute da persone fisiche al di fuori dell'attività d'impresa, soggetta all'aliquota del 26%. Se questa è la regola generale, dal 2002 chi possiede partecipazioni non quotate può far eseguire una perizia per attestarne il valore di mercato, versare un'imposta pari oggi al 11% dell'intero valore (e non della mera plusvalenza) e poi, in caso di cessione, calcolare il capital gain partendo dal valore rivalutato. Un'operazione in grado di ridurre sostanzialmente a zero l'imponibile da assoggettare al 26%.Partita come una norma valida solo per un periodo limitato, è stata costantemente prorogata con ben 19 diverse leggi. Solo nel 2007, 2009 e 2011 non è stato possibile usufruirne. Da ultimo la legge di bilancio 2021 ha fissato il termine per l'esecuzione della perizia e il versamento della prima rata al 30 giugno, termine poi prorogato al prossimo 15 novembre. Fubini presenta questa norma come un «codicillo» per agevolare «grandi aziende manifatturiere di proprietà familiare, piccoli esercizi commerciali oppure magari società con un capitale originario di 1.000 euro alle quali vengono spesso intestati immobili residenziali di pregio». La solita Italia dei piccoli furbetti. Ma la foga di dipingere un quadro di agevolazioni da smantellare gioca un brutto scherzo al suo autore che incorre in diversi errori.Deve infatti essere chiaro che è errato paragonare due aliquote calcolate su basi diverse: l'11% sul valore rivalutato della partecipazione, che azzera così la plusvalenza, con il 26% di imposta sulla plusvalenza. Fatto 100 il costo iniziale della partecipazione, il pagamento dell'11% sul nuovo valore rivalutato conviene solo se la plusvalenza è superiore del 73% al costo iniziale, altrimenti conviene pagare il 26% sulla sola plusvalenza. E quali sono le partecipazioni su cui ci potrebbero essere plusvalenze così alte? Proprio quelle detenute da molto tempo a costi storici relativamente bassi relative alle Pmi a gestione familiare che resistono da diverse generazioni. Sono loro il bersaglio grosso. Dietro il prelievo fiscale «di favore», ci sono milioni di italiani che non usano strutture societarie piramidali (davvero opache), e che vorrebbero potere cedere le loro partecipazioni senza che il fisco si porti via tutto. Se le aziende circolano, restano in vita. Un conto è tassare al 26% le plusvalenze da compravendite in Borsa, ben altro è applicare tale aliquota a chi detiene quelle partecipazioni da decenni. È strano che Fubini dimentichi il vero «regalo ai ricchi»: a differenza delle persone fisiche, le società pagano l'Ires solo sul 5% della plusvalenza. Inoltre, se la rivalutazione all'11% fosse stata davvero un regalo, non avrebbe generato dal 2002 fino ad agosto 2021 un gettito di 15,5 miliardi.La confusione tra valore della partecipazione rivalutata e plusvalenza genera un disastro quando si mette in rapporto il gettito della rivalutazione con il valore delle partecipazioni rivalutate (circa 260 miliardi). Fubini deduce che «il prelievo medio» su quelli che «di fatto sono capital gain» è pari al 5,47%. Un'equivalenza non vera (valore della partecipazione pari alla plusvalenza) conduce a una percentuale priva di senso. Nessuno conosce quanto sia la plusvalenza (che avrebbe dovuto scontare il 26%) su 260 miliardi di valore rivalutato delle partecipazioni e fare il salto di rapportare un'imposta al ricavo e non alla plusvalenza implica che ricavo e utile si equivalgano. Così ovviamente non è.Da questa premessa errata, parte la filippica finale: «Nell'ipotesi che dal 2002 il prelievo medio sui capital gains delle partecipazioni non quotate fosse stato anche solo del 15% e non del 5,47% (come invece è avvenuto), allora i proprietari di quelle quote avrebbero pagato tasse in più per 25 miliardi. Quanti ospedali, quanti chilometri di banda larga nelle aree interne si sarebbero potuti costruire con 25 miliardi di entrate fiscali in più tassando quelle plusvalenze poco ma non pochissimo?».Fubini confonde nuovamente l'aliquota sulla rivalutazione con quella sul capital gain e quindi quei 25 miliardi non esistono, perché non si tassano i ricavi ma solo le plusvalenze. Inoltre, se dal 2002 l'intero gettito dell'imposta sostitutiva su tutta la massa di interessi, proventi vari e plusvalenze relativi a quasi tutti gli strumenti finanziari, è stato pari a 39,3 miliardi, com'è possibile pensare che le cessioni di partecipazioni non quotate avrebbero sottratto 25 miliardi di imposta?Se queste sono le premesse e il rigore metodologico e scientifico che si intendono utilizzare per mettere le mani nelle tasche degli italiani, allora è meglio dirlo subito, avendo il coraggio di ammettere a voce alta che un saldo primario di bilancio negativo per 107 miliardi nel 2021 deve essere praticamente azzerato nel 2024 e da qualche parte bisognerà prendere i soldi. Almeno eviteremo lo sforzo di spiegare che il sole sorge a Est e che la Terra gli gira intorno.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
Continua a leggereRiduci