2024-04-17
Sermone di Draghi per ribaltare l’Ue: unione bancaria sul modello francese
Mister Bce vuole convogliare capitali privati su progetti comuni. Intanto le imprese soffrono per la crisi della Germania.Da che esiste l’Unione europea ogni crisi è occasione per dire che bisogna cambiare. Che stavolta è la volta buona. Eppure fino a oggi nessuno è mai riuscito a prevenirne una. Ci riferiamo sia alla Commissione sia ai vertici del Consiglio. Adesso a lanciare la sfida è Mario Draghi, il non politico che piace a tutti i politici purché stia lontano dalle loro poltrone. Ieri in una delle tappe del tour necessarie alla scrittura del report sulla competitività Ue, dopo aver incassato anche la stima e l’ok di Viktor Orbán al ruolo di commissario («In Commissione? Mi piace») ha annunciato l’idea di un cambio radicale degli equilibri Ue. «Abbiamo bisogno di un’Unione europea che sia pronta per il mondo di oggi e di domani. Quello che propongo nel report è un cambiamento radicale, che è ciò di cui abbiamo bisogno» ha detto l’ex premier in occasione di un evento sul pilastro europeo dei diritti sociali a La Hulpe, in Belgio. Draghi ha poi spiegato che «abbiamo bisogno di raggiungere la trasformazione dell’economia europea, di affidarci a un sistema energetico indipendente e decarbonizzato, di integrare sistemi di Difesa adeguati e manifattura interna nei settori più innovativi, e acquisire leadership nel deep tech e nell’innovazione digitale». A posteriori mister Bce fa notare anche che al Vecchio continente è sempre mancato un patto industriale come quello che unisce gli Usa. «Non abbiamo avuto un industrial deal a livello europeo, nonostante la Commissione stia facendo ogni suo sforzo per colmare questo gap. Nonostante le iniziative positive in corso, ci manca ancora una strategia complessiva per rispondere in queste strategie», ha aggiunto sottolineando che l’Ue investe «meno di Stati Uniti e Cina nel digitale e nelle tecnologie avanzate, compresa la Difesa. Ci sono solo quattro top player europei tra le prime 50 aziende globali. Ci manca una strategia su come proteggere le nostre industrie tradizionali da una competitività iniqua causata da asimmetrie in regole, sussidi e politiche commerciali». Da qui la prima proposta di forzare la mano sull’Unione bancaria con una idea che ricorda molto da vicino quella lanciata poco più di un mese fa da Bruno Le Maire, ministro francese dell’Economia. «È essenziale procedere con l’unione dei mercati di capitali», ha commentato sempre ieri Draghi. Se non sarà possibile farlo a 27, bisognerà procedere con i Paesi che sono d’accordo, ha continuato l’ex presidente della Bce precisando che «non abbiamo il lusso di poter rinviare le decisioni. Per assicurare coerenza tra i diversi strumenti e rilanciare la competitività dell’Ue occorre un nuovo strumento strategico per coordinare le politiche economiche, e se troviamo che non sarà possibile dobbiamo considerare di procedere con un gruppo di Paesi nel quadro della cooperazione rafforzata quale via per il completamento dell’unione del mercato dei capitali». E qui siamo come al solito al punto dolente. La concorrenza interna è un tema assai delicato. Applicare l’Unione bancaria in un modo piuttosto che in un altro impatterà sul futuro dei singoli sistemi bancari. Quello italiano sarà protetto dall’assalto francese? Certo, la stessa domanda se la porranno altri governi e altri Parlamenti. Proprio perché non è una domanda campata per aria. Basti pensare a quanto è accaduto sulle concessioni idroelettriche. Il modello imposto dal Draghi premier sta mettendo a rischio la sovranità energetiche del settore idroelettrico e aprirà enormi interrogativi sugli investimenti da mettere a terra. Figuriamoci affrontare una Unione bancaria con le stesse logiche di quell’impianto concorrenziale: finiremmo per perdere il controllo delle enormi masse gestite e dei risparmi degli italiani. A meno che questa non sia una delle opzioni messe sul tavolo. D’altronde non è la prima volta che l’ex premier (e su questo è d’accordo anche Enrico Letta, autore del report sulla concorrenza chiesto dal Consiglio Ue) fa diretto accenno alla necessità di convogliare i capitali privati sui progetti comunitari. Per cui se siamo d’accordo sulla necessità di un approccio comune alle guerre, agli approvvigionamenti di materie prime, alla tecnologia ci viene da porre un alert quando tutto ciò si deve fare anche con i soldi dei privati. E se i cittadini non fossero d’accordo che si fa? La domanda è retorica. Temiamo di scoprire la risposta. Così come nel frattempo desidereremmo scoprire quali siano le posizioni di chi studia il mercato comune sulle nuove dinamiche di import ed export. Ieri l’Istat ha diffuso i dati aggiornati sull’inflazione (non benissimo) e quelli sulla bilancia commerciale. Il saldo è positivo e il nostro export sta crescendo in modo importante. Purtroppo il dato verso i Paesi Ue però segna un misero +0,6%, mentre le nazioni extra Ue sono sempre più importanti. L’export verso gli Usa ha superato il 20% di crescita. Mentre i grandi della Terra studiano il mercato unico, gli imprenditori si domandano come affrontare il tema Germania. I distretti italiani soffrono perché Berlino è in crisi. Perché l’industria tedesca è in difficoltà. Da qui bisogna partire per far risalire il Pil. Altrimenti i grandi piani quinquennali europei rischiano di essere un enorme Pnrr, tutto a debito. E se l’Europa si basa solo sul debito è chiaro che i risparmi dei cittadini faranno sempre più gola. Siamo però stanchi di un’Europa che punta sempre a ridistribuire le ricchezze. Se va fatta una rivoluzione che allora sia di un’Europa che stimoli la ricchezza dei privati e degli imprenditori e quindi il segreto sarà meno Europa e non più Europa.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)