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2024-05-17
Sequestro da record per la truffa sui bonus
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I lavori non venivano eseguiti e la cessione dei crediti finiva in scatole vuote. Raccontata così sembra la narrazione delle innumerevoli altre truffe legate ai bonus edilizi ideati dai pentastellati e voluti dall’ex premier Giuseppe Conte. In realtà quella portata alla luce ieri a Savona dalla Guardia di finanza, e che da lì si dirama in tutta Italia, è da record, perché ha prodotto un sequestro preventivo da 1 miliardo di euro. Una cifra monstre alla quale si è arrivati ficcando il naso nei cassetti fiscali di 311 furbetti. È saltato fuori di tutto: le aziende erano di fatto inesistenti, i prestanome godevano del reddito di cittadinanza (altra misura voluta e difesa dal Movimento 5 stelle) o erano dei pregiudicati, alcuni di loro pur non essendo fiscalmente in connessione risultavano parenti oppure avevano già commesso reati insieme, anche di tipo organizzato.
Tutto è partito dai sospetti su una società di Savona, la Alecarl Srl, che si era concentrata sul Superbonus 110 per cento (le truffe principali accertate nell’inchiesta però sono legate al Bonus facciate e all’Ecobonus). Partendo da lì si è scoperto che l’impresa aveva ottenuto quasi 300.000 euro di crediti d’imposta e non aveva mai eseguito alcun lavoro su ben tre immobili. Il titolare era anche già finito in più di una Segnalazione di operazione sospetta per «rischio riciclaggio», nonché si portava dietro alcune indagini per truffa e appropriazione indebita (e, coincidenza, pure il precedente rappresentante legale aveva un curriculum simile). Quando gli investigatori del colonnello Aldo Noceti hanno vivisezionato le attività della Alecarl hanno scoperto che la sua attività non era concentrata esclusivamente nel Savonese. I crediti oggetto di cessione nelle comunicazioni trasmesse dal commercialista che faceva da tramite tra l’azienda e l’Agenzia delle entrate ammontavano, sostiene l’accusa, a oltre 29 milioni di euro, di cui quasi 18 «non sospesi o confermati». I lavori, però, non erano mai stati eseguiti. Quando il pm ha convocato in Procura il legale rappresentante della Alecarl si è reso conto che si trattava di «una mera testa di legno». Che, però, nel frattempo aveva costituito una società all’estero proprio per farvi confluire «le operazioni finanziarie profitto dei reati», sostengono gli inquirenti. Controllo dopo controllo i finanzieri della Prima sezione operativa del Gruppo di Savona, guidati dal tenente Ilaria Censi, hanno messo nel mirino altre cinque partite Iva (quelle della Biancatech, della Omega e della Omega 1992, della San, della Gm e della Trigger), scoprendo che i crediti generati sarebbero inesistenti. Le società non possedevano immobili (condizione fondamentale per generare crediti d’imposta). Non solo: presentavano tutte, hanno valutato gli inquirenti, «le caratteristiche tipiche di imprese fiscalmente pericolose»: assenza di dichiarazioni fiscali, volume d’affari prossimo allo zero, assenza di utenze attive e (in alcuni casi) di personale dipendente. Scatole vuote, insomma. Due di queste addirittura condividevano la stessa sede legale romana in un business center.
Il cerchio si è chiuso quando gli investigatori hanno accertato che anche le società acquirenti dei crediti presentavano caratteristiche analoghe. E qui emerge l’inconsistenza del sistema pensato dai pentastellati: superato il primo controllo (sostanzialmente a campione) riguardante le cessioni dei crediti, «i fondi», evidenzia il gip Laura De Dominicis, che ha disposto il sequestro, «passavano di società in società senza essere più oggetto di analisi, sino ad arrivare a soggetti, magari del tutto ignari dell’esistenza a monte del credito, che hanno effettuato la compensazione concretizzando così il danno alle finanze pubbliche». Il particolare che permette di affermare che l’inchiesta non è finita qui è questo: nel decreto di sequestro il gip sottolinea che «le società appaiono sovente collegate tra loro, in un disegno globale criminoso». I rappresentanti legali e le sedi spesso si incrociano. Il che lascia supporre che tutto sia stato studiato a tavolino. È facile immaginare che l’inchiesta, dopo i sequestri, si concentrerà su questo. Ma anche su un altro aspetto: alcune società coinvolte avrebbero venduto a ulteriori imprese più crediti di quanti ne avevano acquistati. Altre avrebbero generato o accettato crediti da soggetti con cui avevano un legame di parentela. Se li sarebbero scambiati, insomma, tra marito e moglie e tra madre e figlio. Ma c’è anche un caso in cui uno degli indagati avrebbe acquistato crediti in qualità di persona fisica da una società da lui stesso rappresentata. Li avrebbe quindi venduti a se stesso.
«E mentre una parte dei soggetti coinvolti aveva già effettuato l’indebita compensazione, ottenendo importanti vantaggi fiscali», spiegano gli investigatori, «un’altra parte aveva acquistato blocchi di crediti fittizi dal valore nominale di centinaia di milioni di euro, a fronte di un irrisorio corrispettivo effettivamente versato». Chi indaga, però, ha già messo nel mirino un commercialista che si poneva come tramite tra una delle società e l’Agenzia delle entrate. Si ipotizza l’esistenza di una regia. Ieri, contestualmente al sequestro, sono state eseguite 85 perquisizioni tra Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Trentino Alto Adige, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Puglia. E il giro potrebbe allargarsi in modo impressionante.
Renzi fa dietrofront sul decreto. Tajani: vogliamo essere interpellati
Un giorno nella maggioranza, per poi tornare prontamente nei ranghi dell’opposizione. Matteo Renzi e la sua Italia viva, dopo aver salvato il governo in commissione al Senato tre giorni fa sul Superbonus, non si sono spinti fino a votare la fiducia all’esecutivo, ma ciò non ha impedito loro di essere il bersaglio principale degli interventi dei parlamentari d’opposizione ieri in aula a Palazzo Madama. Dove la fiducia sul decreto che ha fatto arrabbiare Forza Italia, tanto da non farla votare col resto del centrodestra, è passata con 101 sì, 64 no e nessun astenuto. Non c’è stato nemmeno il ventilato Aventino degli azzurri nel voto di ieri: i numeri hanno retto, le presenze sono state congrue, il caso politico può ritenersi chiuso, anche se la questione di merito, rispetto alla norma voluta a tutti i costi dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che spalma su dieci anni le rateizzazioni delle deduzioni relative al Superbonus a partire dal 2024, per Fi non è chiusa, come fatto presente da Antonio Tajani.
«Sul Superbonus», ha detto il ministro degli Esteri e vicepremier, «continuiamo ad avere molte perplessità. Avremmo preferito una maggiore collegialità. Siamo contro qualsiasi ipotesi di legge retroattiva, in qualunque settore, è una questione di principio. Noi non rinunciamo alle difesa dei nostri principi. Detto questo», ha proseguito, «per un emendamento che non condividiamo non viene assolutamente meno la fiducia nel governo. Voteremo sempre la fiducia a questo governo di cui siamo parte protagonista ma continueremo sempre a dire quello che pensiamo con grande trasparenza e lealtà».
La questione, come detto, sarebbe stata ben più ingarbugliata se la senatrice renziana Dafne Musolino non avesse tolto le castagne dal fuoco al governo votando in commissione Finanze assieme al centrodestra, e se alla votazione non avesse irritualmente preso parte il presidente Massimo Garavaglia. Renzi, intervenendo in aula, ha spiegato le ragioni di questa scelta: «Dopo il voto in Commissione», ha detto l’ex premier, «in cui grazie al nostro sostegno abbiamo impedito di innalzare la sugar tax siamo stati accusati di favorire questo governo. Dico forte e chiaro che siamo contro questo governo, non votiamo la fiducia e rimarchiamo le divisioni interne di una maggioranza che si atteggia a populista ed è in campagna elettorale permanente. Noi non siamo la stampella del governo», ha concluso, «ma siamo quelli che se hanno una stampella da dare la danno agli imprenditori italiani». Nonostante ciò, sono arrivati gli attacchi del Pd e del M5s: il pentastellato Stefano Patuanelli ha accusato Renzi di aver sventato la crisi di governo, mentre il capogruppo dem Francesco Boccia si è soffermato sulle contraddizioni interne alla maggioranza: «In questi giorni», ha detto, «abbiamo assistito alla guerra tra Lega e Fi. La fiducia posta a questo provvedimento è una fiducia posta sulla stessa maggioranza». Tesi contestata dal ministro per i Rapporti col Parlamento, Luca Ciriani, per il quale «101 voti a favore e 64 contrari sono numeri che non lasciano dubbi né interpretazioni: la maggioranza era presente, erano assenti solo gli assenti giustificati, questo conferma che non c’è nessun problema politico e che la maggioranza non e mai stata in discussione, né il governo». «Le questioni interne e il dibattito sul Superbonus», ha concluso, «si è risolto senza né vincitori né vinti ma con soddisfazione di tutti». Il leghista Garavaglia, entrando nel merito del provvedimento (che scade il 28 e deve essere nuovamente approvato alla Camera) ha difeso l’operato di Giorgetti: «Sul Superbonus era necessario mettere uno stop. Potevamo fare un altro giro di valzer sul Titanic per prendere qualche voto in più? Secondo noi, no. Ha fatto bene il ministro Giorgetti. La serietà paga. La festa è finita», ha concluso, «ogni misura va coperta con tagli di spesa o più tasse».
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Maxi operazione della Guardia di finanza: a Savona la centrale di smistamento dei crediti fiscali, ma le attività dell’organizzazione si estendevano da Nord a Sud. I prestanome delle ditte fantasma incassavano il reddito di cittadinanza oppure erano pregiudicati.Matteo Renzi fa dietrofront sul decreto. Dopo il primo ok, Iv vota contro la norma che spalma in 10 anni le deduzioni sui lavori.Lo speciale contiene due articoli.I lavori non venivano eseguiti e la cessione dei crediti finiva in scatole vuote. Raccontata così sembra la narrazione delle innumerevoli altre truffe legate ai bonus edilizi ideati dai pentastellati e voluti dall’ex premier Giuseppe Conte. In realtà quella portata alla luce ieri a Savona dalla Guardia di finanza, e che da lì si dirama in tutta Italia, è da record, perché ha prodotto un sequestro preventivo da 1 miliardo di euro. Una cifra monstre alla quale si è arrivati ficcando il naso nei cassetti fiscali di 311 furbetti. È saltato fuori di tutto: le aziende erano di fatto inesistenti, i prestanome godevano del reddito di cittadinanza (altra misura voluta e difesa dal Movimento 5 stelle) o erano dei pregiudicati, alcuni di loro pur non essendo fiscalmente in connessione risultavano parenti oppure avevano già commesso reati insieme, anche di tipo organizzato. Tutto è partito dai sospetti su una società di Savona, la Alecarl Srl, che si era concentrata sul Superbonus 110 per cento (le truffe principali accertate nell’inchiesta però sono legate al Bonus facciate e all’Ecobonus). Partendo da lì si è scoperto che l’impresa aveva ottenuto quasi 300.000 euro di crediti d’imposta e non aveva mai eseguito alcun lavoro su ben tre immobili. Il titolare era anche già finito in più di una Segnalazione di operazione sospetta per «rischio riciclaggio», nonché si portava dietro alcune indagini per truffa e appropriazione indebita (e, coincidenza, pure il precedente rappresentante legale aveva un curriculum simile). Quando gli investigatori del colonnello Aldo Noceti hanno vivisezionato le attività della Alecarl hanno scoperto che la sua attività non era concentrata esclusivamente nel Savonese. I crediti oggetto di cessione nelle comunicazioni trasmesse dal commercialista che faceva da tramite tra l’azienda e l’Agenzia delle entrate ammontavano, sostiene l’accusa, a oltre 29 milioni di euro, di cui quasi 18 «non sospesi o confermati». I lavori, però, non erano mai stati eseguiti. Quando il pm ha convocato in Procura il legale rappresentante della Alecarl si è reso conto che si trattava di «una mera testa di legno». Che, però, nel frattempo aveva costituito una società all’estero proprio per farvi confluire «le operazioni finanziarie profitto dei reati», sostengono gli inquirenti. Controllo dopo controllo i finanzieri della Prima sezione operativa del Gruppo di Savona, guidati dal tenente Ilaria Censi, hanno messo nel mirino altre cinque partite Iva (quelle della Biancatech, della Omega e della Omega 1992, della San, della Gm e della Trigger), scoprendo che i crediti generati sarebbero inesistenti. Le società non possedevano immobili (condizione fondamentale per generare crediti d’imposta). Non solo: presentavano tutte, hanno valutato gli inquirenti, «le caratteristiche tipiche di imprese fiscalmente pericolose»: assenza di dichiarazioni fiscali, volume d’affari prossimo allo zero, assenza di utenze attive e (in alcuni casi) di personale dipendente. Scatole vuote, insomma. Due di queste addirittura condividevano la stessa sede legale romana in un business center. Il cerchio si è chiuso quando gli investigatori hanno accertato che anche le società acquirenti dei crediti presentavano caratteristiche analoghe. E qui emerge l’inconsistenza del sistema pensato dai pentastellati: superato il primo controllo (sostanzialmente a campione) riguardante le cessioni dei crediti, «i fondi», evidenzia il gip Laura De Dominicis, che ha disposto il sequestro, «passavano di società in società senza essere più oggetto di analisi, sino ad arrivare a soggetti, magari del tutto ignari dell’esistenza a monte del credito, che hanno effettuato la compensazione concretizzando così il danno alle finanze pubbliche». Il particolare che permette di affermare che l’inchiesta non è finita qui è questo: nel decreto di sequestro il gip sottolinea che «le società appaiono sovente collegate tra loro, in un disegno globale criminoso». I rappresentanti legali e le sedi spesso si incrociano. Il che lascia supporre che tutto sia stato studiato a tavolino. È facile immaginare che l’inchiesta, dopo i sequestri, si concentrerà su questo. Ma anche su un altro aspetto: alcune società coinvolte avrebbero venduto a ulteriori imprese più crediti di quanti ne avevano acquistati. Altre avrebbero generato o accettato crediti da soggetti con cui avevano un legame di parentela. Se li sarebbero scambiati, insomma, tra marito e moglie e tra madre e figlio. Ma c’è anche un caso in cui uno degli indagati avrebbe acquistato crediti in qualità di persona fisica da una società da lui stesso rappresentata. Li avrebbe quindi venduti a se stesso.«E mentre una parte dei soggetti coinvolti aveva già effettuato l’indebita compensazione, ottenendo importanti vantaggi fiscali», spiegano gli investigatori, «un’altra parte aveva acquistato blocchi di crediti fittizi dal valore nominale di centinaia di milioni di euro, a fronte di un irrisorio corrispettivo effettivamente versato». Chi indaga, però, ha già messo nel mirino un commercialista che si poneva come tramite tra una delle società e l’Agenzia delle entrate. Si ipotizza l’esistenza di una regia. Ieri, contestualmente al sequestro, sono state eseguite 85 perquisizioni tra Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Trentino Alto Adige, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Campania e Puglia. E il giro potrebbe allargarsi in modo impressionante.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sequestro-record-truffa-bonus-2668294357.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="renzi-fa-dietrofront-sul-decreto-tajani-vogliamo-essere-interpellati" data-post-id="2668294357" data-published-at="1715945786" data-use-pagination="False"> Renzi fa dietrofront sul decreto. Tajani: vogliamo essere interpellati Un giorno nella maggioranza, per poi tornare prontamente nei ranghi dell’opposizione. Matteo Renzi e la sua Italia viva, dopo aver salvato il governo in commissione al Senato tre giorni fa sul Superbonus, non si sono spinti fino a votare la fiducia all’esecutivo, ma ciò non ha impedito loro di essere il bersaglio principale degli interventi dei parlamentari d’opposizione ieri in aula a Palazzo Madama. Dove la fiducia sul decreto che ha fatto arrabbiare Forza Italia, tanto da non farla votare col resto del centrodestra, è passata con 101 sì, 64 no e nessun astenuto. Non c’è stato nemmeno il ventilato Aventino degli azzurri nel voto di ieri: i numeri hanno retto, le presenze sono state congrue, il caso politico può ritenersi chiuso, anche se la questione di merito, rispetto alla norma voluta a tutti i costi dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che spalma su dieci anni le rateizzazioni delle deduzioni relative al Superbonus a partire dal 2024, per Fi non è chiusa, come fatto presente da Antonio Tajani. «Sul Superbonus», ha detto il ministro degli Esteri e vicepremier, «continuiamo ad avere molte perplessità. Avremmo preferito una maggiore collegialità. Siamo contro qualsiasi ipotesi di legge retroattiva, in qualunque settore, è una questione di principio. Noi non rinunciamo alle difesa dei nostri principi. Detto questo», ha proseguito, «per un emendamento che non condividiamo non viene assolutamente meno la fiducia nel governo. Voteremo sempre la fiducia a questo governo di cui siamo parte protagonista ma continueremo sempre a dire quello che pensiamo con grande trasparenza e lealtà». La questione, come detto, sarebbe stata ben più ingarbugliata se la senatrice renziana Dafne Musolino non avesse tolto le castagne dal fuoco al governo votando in commissione Finanze assieme al centrodestra, e se alla votazione non avesse irritualmente preso parte il presidente Massimo Garavaglia. Renzi, intervenendo in aula, ha spiegato le ragioni di questa scelta: «Dopo il voto in Commissione», ha detto l’ex premier, «in cui grazie al nostro sostegno abbiamo impedito di innalzare la sugar tax siamo stati accusati di favorire questo governo. Dico forte e chiaro che siamo contro questo governo, non votiamo la fiducia e rimarchiamo le divisioni interne di una maggioranza che si atteggia a populista ed è in campagna elettorale permanente. Noi non siamo la stampella del governo», ha concluso, «ma siamo quelli che se hanno una stampella da dare la danno agli imprenditori italiani». Nonostante ciò, sono arrivati gli attacchi del Pd e del M5s: il pentastellato Stefano Patuanelli ha accusato Renzi di aver sventato la crisi di governo, mentre il capogruppo dem Francesco Boccia si è soffermato sulle contraddizioni interne alla maggioranza: «In questi giorni», ha detto, «abbiamo assistito alla guerra tra Lega e Fi. La fiducia posta a questo provvedimento è una fiducia posta sulla stessa maggioranza». Tesi contestata dal ministro per i Rapporti col Parlamento, Luca Ciriani, per il quale «101 voti a favore e 64 contrari sono numeri che non lasciano dubbi né interpretazioni: la maggioranza era presente, erano assenti solo gli assenti giustificati, questo conferma che non c’è nessun problema politico e che la maggioranza non e mai stata in discussione, né il governo». «Le questioni interne e il dibattito sul Superbonus», ha concluso, «si è risolto senza né vincitori né vinti ma con soddisfazione di tutti». Il leghista Garavaglia, entrando nel merito del provvedimento (che scade il 28 e deve essere nuovamente approvato alla Camera) ha difeso l’operato di Giorgetti: «Sul Superbonus era necessario mettere uno stop. Potevamo fare un altro giro di valzer sul Titanic per prendere qualche voto in più? Secondo noi, no. Ha fatto bene il ministro Giorgetti. La serietà paga. La festa è finita», ha concluso, «ogni misura va coperta con tagli di spesa o più tasse».
C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.
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Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
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Non è detto che non accada. Intanto siete già riusciti a risvegliare dal lungo sonno il sottosegretario Alberto Barachini, che non è poco, anche se forse non basta di fronte alla grande battaglia, che avete lanciato, per salvare il «pensiero critico». Il punto è chiaro: un conto è se viene venduto un altro giornale, magari persino di destra, che allora ben gli sta; un conto è se viene venduto il quotidiano che andava in via Veneto e dettava la linea alla sinistra. Allora qui non sono soltanto in gioco posti di lavoro e copie in edicola. Macché: sono in gioco le «garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese» e soprattutto «la sopravvivenza stessa di un pensiero critico». Non si discute, insomma, del futuro di Repubblica, si discute del futuro della repubblica, come è noto è fondata sul lavoro di Eugenio Scalfari.
Del resto come potremmo fare, cari colleghi, senza quel pensiero critico che in questi anni abbiamo imparato ad ammirare sulle vostre colonne? Come faremo senza le inchieste di Repubblica per denunciare lo smantellamento dell’industria automobilistica italiana ad opera degli editori Elkann? Come faremo senza le dure interviste al segretario Cgil Maurizio Landini che attacca, per questo, la ex Fiat in modo spietato? Come faremo senza gli scoop sulle inchieste relative all’evasione fiscale di casa Agnelli? Il fatto che tutto ciò non ci sia mai stato è un piccolo dettaglio che nulla toglie al vostro pensiero critico. E che dire del Covid? Lì il pensiero critico di Repubblica è emerso in modo chiarissimo trasformando Burioni in messia e il green pass in Vangelo. E sulla guerra? Pensiero critico lampante, nella sua versione verde militare e, ovviamente, con elmetto d’ordinanza. Ora ci domandiamo: come potrà tutto questo pensiero critico, così avverso al mainstream, sopravvivere all’orda greca?
Lo so che si tratta solo di un cambio di proprietà, non di una chiusura. Ma noi siamo preoccupati lo stesso: per mesi abbiamo letto sulle vostre colonne che c’era il rischio di deriva autoritaria nel nostro Paese, il fascismo meloniano incombente, la libertà di stampa minacciata dal governo antidemocratico. E adesso, invece, scopriamo che il governo antidemocratico è l’ancora di salvezza per salvare baracca e Barachini? E scopriamo che il vero nemico arriva dalla Grecia? Più che mai urge pensiero critico, cari colleghi. E, magari, un po’ meno di boria.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
Il cambio di rotta, secondo quanto rivelato dal Financial Times e da Reuters, è stato annunciato dallo stesso leader di Kiev in una chat su Whatsapp con i giornalisti. Ha spiegato che «fin dall’inizio, il desiderio dell'Ucraina è stato quello di aderire alla Nato», ma pare aver gettato la spugna visto che «alcuni partner non hanno sostenuto questa direzione». Ha quindi svelato che ora si parla «di garanzie di sicurezza bilaterali tra Ucraina e Stati Uniti, vale a dire garanzie simili all’articolo 5, nonché di garanzie di sicurezza da parte dei nostri partner europei e di altri Paesi come Canada, Giappone e altri».
Prima del vertice di Berlino, Zelensky ha poi dichiarato di non aver ricevuto le risposte della Casa Bianca sulle ultime proposte inviate dalla delegazione ucraina, ma ha già messo le mani avanti sull’offerta degli Stati Uniti inerente al Donbass. Washington ha infatti suggerito che Kiev si ritiri dalla «cintura delle fortezze» delle città nel Donbass che non sono state conquistate da Mosca. Sostenendo che non sia «giusto», il presidente ucraino ha commentato: «Se le truppe ucraine si ritirano tra i cinque e dieci chilometri per esempio, allora perché le truppe russe non si devono ritirare nelle zone dei territori occupati della stessa distanza?». Dunque, la linea ucraina resta quella del cessate il fuoco: «fermarsi» sulle posizioni attuali per poi «risolvere le questioni più ampie attraverso la diplomazia». Ma è plausibile che questa proposta americana venga rifiutata anche dalla Russia, visto che il consigliere del Cremlino, Yuri Ushakov, aveva già riferito che Mosca è disposta ad accettare solo il controllo totale del Donbass.
Ma l’attenzione ieri, oltre al dietrofront di Kiev sulla Nato, è stata rivolta ai colloqui di Berlino tra la delegazione ucraina e quella americana. Dopo aver «lavorato attentamente su ogni punto di ogni bozza», Zelensky è stato accolto nella capitale tedesca dal cancelliere Friedrich Merz. Il presidente ucraino ha condiviso alcune immagini inerenti alle trattative sul piano di pace: nel lungo tavolo ovale, al fianco di Zelensky compaiono Merz e il negoziatore ucraino Rustem Umerov, mentre sul lato opposto sono seduti Witkoff e Kushner. Ma secondo la Bild, a essere presente in modo «indiretto» ai negoziati è stata anche la Russia. Pare che l’inviato americano sia stato infatti in contatto con Ushakov. In ogni caso, il leader di Kiev, su X, ha spiegato poco prima lo scopo dei colloqui: concentrarsi «su come garantire in modo affidabile la sicurezza dell’Ucraina». Il dialogo proseguirà anche oggi: è previsto un vertice a cui prenderanno parte dieci leader europei, il segretario generale della Nato, Mark Rutte, e il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.
A restare scettica sulle iniziative europee è la Russia. Ushakov, ricordando che Mosca non ha ancora visionato le modifiche di Bruxelles e di Kiev al piano, ha comunque detto che non saranno accettati i cambiamenti. D’altronde, è «improbabile che gli ucraini e gli europei diano un contributo costruttivo ai documenti». Sempre il consigliere del Cremlino ha anche rivelato che non è mai stata affrontata «la possibilità di replicare l’opzione coreana» per porre fine alla guerra. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha poi definito «irresponsabili» le parole pronunciate giovedì dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, secondo cui la Russia si prepara ad attaccare l’Europa.
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