2022-09-06
Sentenza sul Covid: Facebook può oscurare i «no vax»
Un’utente bannata per aver condiviso contenuti contro i vaccini ricorre e perde. In America Biden va a processo per «censura».Facebook è al di sopra della Costituzione italiana? Questa, nei fatti, la conseguenza della controversa decisione assunta dal Tribunale di Varese, che ha respinto l’azione legale di un’utente sospesa dalla piattaforma di Zuckerberg. La ricorrente era stata «bannata» dal social per aver condiviso (senza commentarlo) il video di una parlamentare che, in Aula, in una diretta trasmessa dalla Rai, esprimeva la propria posizione sui vaccini anti-Covid definendoli «iniezioni letali». La donna si è rivolta al tribunale varesino contestando la violazione del contratto. Facebook concede all’utente l’accesso gratuito ai servizi della piattaforma e, in cambio, gestisce i suoi dati a fini pubblicitari: secondo la ricorrente, l’equilibrio delle controprestazioni sarebbe stato compromesso dalla piattaforma attraverso una «clausola vessatoria», che ha consentito al social di censurare insindacabilmente i contenuti che non rispettano «gli standard della community». Ho ceduto a Facebook i miei dati, ha contestato in pratica l’utente, ma mi ha privato del servizio, reprimendo la mia libertà di espressione. La giudice Marta Recalcati che ha emanato l’ordinanza ha rigettato l’istanza sostenendo che «Facebook presta un servizio, dietro a un corrispettivo, a determinate condizioni» tra cui «obblighi di comportamento» che «devono essere rispettati dall’utente». Facebook, insomma, è una piattaforma privata, e chi vuole entrare deve attenersi alle regole della casa. Ma le regole della casa, a loro volta, rispettano la Costituzione italiana? È la stessa Recalcati a convenire che non solo la Costituzione, ma anche la normativa internazionale, definiscono il diritto alla libertà d’espressione come un «diritto inviolabile, il più alto dei diritti primari e fondamentali». L’articolo 21 recita che «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» e che «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Il giudice riconosce anche che c’è un solo limite alla libertà di manifestazione del pensiero, fissato al comma 6 dell’articolo 21: il «buon costume». Come si passa dall’articolo 21 alla censura di un video del servizio pubblico che riprende un deputato nell’esercizio delle sue funzioni? L’ordinanza lo ha fatto ripescando alcune vecchie sentenze della Corte costituzionale che estendono i limiti dell’articolo 21 decretando che la libertà deve essere bilanciata anche con «i diritti della personalità (alla riservatezza, all’onorabilità e alla reputazione)» e con «gli interessi di natura pubblicistica relativi alla sicurezza dello Stato». Secondo il tribunale, le riserve di legge non si limitano, dunque, soltanto al buon costume e la clausola di Facebook non è vessatoria perché gli standard rispettano «leggi e diritti aventi rilevanza costituzionale». In quale modo queste leggi sarebbero state violate riproducendo la dichiarazione pubblica di un parlamentare? Ecco la spiegazione: dato che gli «standard» sono «finalizzati a limitare la diffusione di notizie false relative al Covid-19 e mirano a tutelare la salute pubblica», di fatto hanno quella «rilevanza costituzionale» di cui alle sentenze di oltre cinquant’anni fa. E qui viene il bello: «Anche se il pensiero dell’onorevole non può essere limitato», recita l’ordinanza, esso contiene però «affermazioni sui vaccini» definite «contrarie agli standard». Attenzione, non «false» ma contrarie. Quali? Soprattutto quella che «i vaccini uccidono o danneggiano gravemente le persone». Ma come: non è stata la stessa Aifa ad aver recentemente aggiornato il numero dei decessi correlabili alla vaccinazione a 29 persone soltanto in Italia e quello delle segnalazioni di eventi avversi gravi risultate correlabili alla vaccinazione a 7.506 persone? In quale modo dare informazioni verificate, riportate anche da istituzioni e Aifa, viola gli standard di Facebook, che comunque non è una società editrice? E come si concilia lo status di Facebook, che da un lato non si definisce editore ma dall’altro ne esercita tutti i diritti con discrezionalità, sospendendo perfino utenti che pubblicano documenti pubblici di agenzie federali come la Fda?In America, la violazione della libertà di espressione, soprattutto nel mondo scientifico, non è passata in cavalleria come in Italia. Dopo la frettolosa sospensione del famigerato «Ministero della Verità» durato l’espace d’un matin, lo scorso 19 luglio il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è stato citato in giudizio davanti alla corte distrettuale della Louisiana insieme con Anthony Fauci e cinque piattaforme social (Twitter, Facebook, Instagram, YouTube e LinkedIn) per violazione del Primo emendamento della Costituzione Usa, che garantisce la libertà di espressione. I ricorrenti, gli Stati del Missouri e della Louisiana, ed eminenti esponenti della comunità scientifica (Jay Bhattacharya della Stanford University, Martin Kulldorff, biostatistico ad Harvard, lo psichiatra Aaron Kheriaty, direttore di etica medica presso la Irvine School of Medicine e l’associazione Health Freedom Louisiana, rappresentati dalla New Civil Liberties Alliance) hanno denunciato Biden e Fauci per aver censurato, con la complicità delle piattaforme social, tutti i contenuti che hanno messo in discussione le politiche Covid del governo. La denuncia, che porta agli atti centinaia di documenti, coinvolge 45 funzionari federali di almeno 11 agenzie istituzionali che avrebbero «segretamente comunicato con le piattaforme social-media per censurare e sopprimere» informazioni scientifiche «potenzialmente dannose» in quanto non allineate con la linea governativa. I ricorrenti hanno denunciato «pressioni su larga scala: un vero e proprio esercito di burocrati federali coinvolto in attività di censura». Gli imputati si sono fermamente rifiutati di rispondere a interrogatori e richieste di documenti, ma a determinare l’esito del processo (con inevitabili effetti a cascata in tutto il mondo) saranno le elezioni di midterm previste a novembre, che attualmente vedono i repubblicani in vantaggio.
Giorgia Meloni ad Ancona per la campagna di Acquaroli (Ansa)
«Nessuno in Italia è oggetto di un discorso di odio come la sottoscritta e difficilmente mi posso odiare da sola. L'ultimo è un consigliere comunale di Genova, credo del Pd, che ha detto alla capogruppo di Fdi «Vi abbiamo appeso a testa in giù già una volta». «Calmiamoci, riportiamo il dibattito dove deve stare». Lo ha detto la premier Giorgia Meloni nel comizio di chiusura della campagna elettorale di Francesco Acquaroli ad Ancona. «C'é un business dell'odio» ha affermato Giorgia Meloni. «Riportiamo il dibattito dove deve stare. Per alcuni è difficile, perché non sanno che dire». «Alcuni lo fanno per strategia politica perché sono senza argomenti, altri per tornaconto personale perché c'e' un business dell'odio. Le lezioni di morale da questi qua non me le faccio fare».
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