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2021-12-26
Sempre più miliardari. Ma solo negli Usa sono «self made man»
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I nuovi miliardari sono più giovani ma meno ricchi dei predecessori. Il loro patrimonio si attesta infatti su 1,4 miliardi di dollari contro 1,9 miliardi dei veterani della ricchezza. Secondo il report: Wealth X bilionaire census 2021 pubblicato da WealthX i nuovi paperoni hanno un’età media di 59 anni contro i 66 degli appartenenti al club mondiale della ricchezza. La novità è che sono aumentati i miliardari che possono vantare questo titolo con meno di 50 anni (20,4%, rispetto al 11,2 degli anni passati). Mentre c’è stato un calo tra i nuovi entrati per chi ha più di 70 anni (23% rispetto al 40%). Stessa dinamica per gli ultra miliardari; l’11,7% ha meno di 50 anni, il 56% tra i 50 e i 70 e il 31% più di 70 anni. Inoltre i nuovi arrivati per il 70,2% si sono auto prodotti la propria ricchezza (contro un 60%), vedendo dunque ridursi la percentuale che deve la propria fortuna ad un’eredità (7,4% contro l’11%). La costruzione della ricchezza è però fortemente influenzata anche dal contesto in cui si vive. Ci sono infatti fattori a livello Paese come la struttura economica, la politica, la demografia, il clima imprenditoriale e l’entità di ricchezza tra le generazioni che possono rendere più facile la scalata verso l’olimpo ereditando una fortuna o aprendo una propria azienda di successo. Se si analizzano per esempio Cina e Russia si nota come negli ultimi decenni sono emerse importanti opportunità di rapidi guadagni. E infatti il 96,4% (Russia) e il 92,9% (Cina) dei miliardari si è fatto da sé. Solo una piccola quota (3,6 Russia e 3,2 Cina) ha eredità la fortuna. Queste realtà sono però in netto contrasto con la Svizzera o la Germania dove c’è una forte ricchezza tra le famiglie. E infatti solo il 22% in Germania si è auto prodotto il patrimonio (41% in Svizzera), mentre il 60% dipende da un mix tra eredità e proprie capacità imprenditoriali (47% Svizzera), e il 17,7% è nel club dei paperoni solo grazie alla propria famiglia (11,8% Svizzera). Gli Usa sono invece una terra che rappresenta il giusto mix. Per il 66,6% i miliardari sono diventati tali grazie alle loro capacità, mentre per il 14% per l’eredità.
Se si vuole spostare il focus sul genere si nota come la percentuale di peperoni donne è in crescita, ma la quota predominante rimane sempre in mano maschile. E infatti anche tra i nuovi miliardari troviamo 87,4% degli uomini e il 12,6% delle donne. Aspetto interessante è notare come al salire della fortuna, e quindi quando parliamo di «ultra miliardari» la percentuale femminile cresce al 16% e quella maschile scende al 84%. Il ruolo delle donne all’interno della ricchezza mondiale si sta sviluppando sempre di più anche grazie a un cambiamento culturale che sta iniziando a dare i suo frutti. E dunque sono sempre di più le figlie che sostituiscono i padri ai vertici dell’impresa di famiglia o che fondano una propria realtà. Un’altra differenza tra uomini e le donne miliardarie è il modo in cui sono arrivati al patrimonio. Negli uomini, sottolinea il report, la maggior part (75%) ha ottenuto da sé la propria ricchezza, contro un 37% femminile, e solo un 4,3% dipende dall’eredità della famiglia. Le donne presentano invece in questo caso un percentuale molto più alta, vicino al 30%.
Ci sono 5 settori che hanno fatto nascere la maggior parte dei miliardari nel mondo. In generale i paperoni provengono per il 21% dal mondo bancario/finanziario, per il 10,7% dai conglomerati industriali, per il 7,5% dell’immobiliare, per il 7% dal mondo della tecnologia e per il 6,2% dalla manifattura. I nuovi miliardari hanno però portato alla ribalta la tecnologia. E infatti nel top 10 degli uomini più ricchi al mondo troviamo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Mark Zuckerberg (Facebook) e Larry Page (Google). I nuovi paperoni provengono dunque per l’12% proprio dall’industria tecnologica. Una grossa fetta rimane ancorato al mondo della finanza (18,4%) e l’8% all’immobiliare. È cresciuta anche la manifattura, con il 7,6% dei nuovi miliardari. E poi proprio spinta dalla pandemia è entrata nei settori che sfornano i paperoni del futuro il mondo legato alla medicina (7%).
Entro il 2030, 680.000 individui trasferiranno 18,3 trilioni di dollari. Significa dunque che quasi un quarto della popolazione ricca globale trasferirà il proprio patrimonio alle generazioni successive. Secondo il report in media un paperone andrà a trasferire circa 27 milioni di dollari alla sua discendenza. Il valore delle proprietà varierà però notevolmente in base ai livelli di ricchezza di partenza. E dunque poco più della metà di tutti i trasferimenti avverrà da individui con un patrimonio netto complessivo tra i 5 e i 10 milioni di euro, e un terzo riguarderà le fortune comprese tra i 10 e i 30 milioni. La classe degli «ultra miliardari» farà infine la parte del leone, con un trasferimento di circa 12,2 trilioni di dollari. Si parla di una media di circa 135 milioni a testa. Se si sposta il focus sulla geografia delle ridistribuzione si nota come il 91% delle eredità sarà concentrata tra il Nord America (10,6 trilioni), l’Europa (3,4 trilioni) e l’Asia (2,5 trilioni).
I 15 Paesi con i migliori regimi fiscali
Isole Vergini, Cayman, Qatar, Irlanda e Bermuda. Paesi che spesso finiscono all’interno delle classifiche internazionali dei paradisi fiscali ma che se analizzati più attentamente hanno molto spesso creato sistemi che attirano i paperoni di tutto il mondo grazie all’esistenza di un rapporto tasse/patrimonio che non soffoca la ricchezza. Ma attenzione però perché non tutte le giurisdizioni che sono classificate come «tax havens» per le multinazionali lo sono anche per i singoli. Merchant Machine, un società di pagamenti del Regno Unito, analizzando diversi territori tipicamente contrassegnati come paradisi fiscali ha evidenziato proprio questo aspetto, facendo emerge le realtà che hanno il miglior fisco per gli individui.
La classifica
Al primo posto c’è il Qatar, il paese con le tasse individuali più basse in assoluto. Secondo la ricerca il costo della vita per una persona è basso, circa sulle 637,16 sterline al mese. E si ha uno stipendio medio mensile di 3.000 sterline. La tassazione personale è del 10%, così come quella sulle eventuali plusvalenze. Da aggiungere come l’imposta di successione e i contributi previdenziali sono praticamente vicino allo 0. Al secondo posto ci sono le Isole Cayman. A differenza del Quatar non ci sono tasse personali da pagare se decidi di vivere nel territorio d’oltremare inglese. Il reddito mensile è però più basso (stipendio medio di circa 2.800 euro mensili) e il costo della vita è più alto (circa 1.000 al mese).
Medaglia di bronzo per le isole Vergini Britanniche. Qui lo stipendio medio mensile si abbassa al 1.328 euro, il costo della vita si aggira sulle 622 sterline e dal punto di vista fiscale devi pagare il 4% di tasse per la sicurezza sociale e l’1,5% sulla proprietà. Al quarto posto troviamole Bahamas e al quinto gli Emirati Arabi che hanno uno stipendio medio di 3.800 euro ma un livello di tassazione, soprattutto per i contributi previdenziali, l’Iva e la tassa di proprietà più altro rispetto agli altri in classifica.
Ci sono poi diversi paesi che rientrano ogni anno nella classifica dei paradisi fiscali ma che se analizzati più nel dettaglio non sono così favorevoli per i singoli. Molte giurisdizioni entrano in queste classifiche perché offrono dei regimi interessanti per le società (ma non per i paperoni). E infatti secondo i ricercatori l’Olanda, per esempio, è il paese peggiore in cui andare a vivere, nonostante sia considerato da sempre uno dei maggiori paradisi fiscali nel cuore dell’Ue. Partiamo dal fatto che lo stipendio medio mensile è di 4.000 sterline (si colloca nella media dei paesi analizzati). I residenti pagano tra il 10 e il 50% di imposte sul reddito e il 27,65% di contributi previdenziali. Per capire meglio la situazione: le tasse sul reddito personale che si pagano in Olanda sono il 9,45% più alte rispetto all’Irlanda e il 4,5% in più del Regno Unito. Da sottolineare che comunque Uk ha un Irpef che va a scaglioni in base al reddito e applica il 45% a quelli più alti. Stessa sorte l’Irlanda con un 40%. E dunque, i paesi dove è meglio non trasferirsi se si vogliono pagare meno tasse, stando alla ricerca sono: Olanda, Irlanda, Uk, Lussemburgo e Taiwan. Giurisdizioni che dunque son più volte finite all’interno di scandali fiscali internazionali, a causa delle agevolazione concesse alle multinazionali, ma che non presentano enormi vantaggi per i singoli individui.
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Secondo il report pubblicato da WealthX i nuovi paperoni hanno un’età media di 59 anni contro i 66 degli appartenenti al club mondiale della ricchezza. Rispetto agli anni passati sono aumentati del 9,2% gli individui che possono vantare questo titolo sotto i 50 anni.I 15 Paesi con i migliori regimi fiscali (dove il rapporto tra tasse e stipendio medio ti lascia un netto alto).Lo speciale contiene due articoli.I nuovi miliardari sono più giovani ma meno ricchi dei predecessori. Il loro patrimonio si attesta infatti su 1,4 miliardi di dollari contro 1,9 miliardi dei veterani della ricchezza. Secondo il report: Wealth X bilionaire census 2021 pubblicato da WealthX i nuovi paperoni hanno un’età media di 59 anni contro i 66 degli appartenenti al club mondiale della ricchezza. La novità è che sono aumentati i miliardari che possono vantare questo titolo con meno di 50 anni (20,4%, rispetto al 11,2 degli anni passati). Mentre c’è stato un calo tra i nuovi entrati per chi ha più di 70 anni (23% rispetto al 40%). Stessa dinamica per gli ultra miliardari; l’11,7% ha meno di 50 anni, il 56% tra i 50 e i 70 e il 31% più di 70 anni. Inoltre i nuovi arrivati per il 70,2% si sono auto prodotti la propria ricchezza (contro un 60%), vedendo dunque ridursi la percentuale che deve la propria fortuna ad un’eredità (7,4% contro l’11%). La costruzione della ricchezza è però fortemente influenzata anche dal contesto in cui si vive. Ci sono infatti fattori a livello Paese come la struttura economica, la politica, la demografia, il clima imprenditoriale e l’entità di ricchezza tra le generazioni che possono rendere più facile la scalata verso l’olimpo ereditando una fortuna o aprendo una propria azienda di successo. Se si analizzano per esempio Cina e Russia si nota come negli ultimi decenni sono emerse importanti opportunità di rapidi guadagni. E infatti il 96,4% (Russia) e il 92,9% (Cina) dei miliardari si è fatto da sé. Solo una piccola quota (3,6 Russia e 3,2 Cina) ha eredità la fortuna. Queste realtà sono però in netto contrasto con la Svizzera o la Germania dove c’è una forte ricchezza tra le famiglie. E infatti solo il 22% in Germania si è auto prodotto il patrimonio (41% in Svizzera), mentre il 60% dipende da un mix tra eredità e proprie capacità imprenditoriali (47% Svizzera), e il 17,7% è nel club dei paperoni solo grazie alla propria famiglia (11,8% Svizzera). Gli Usa sono invece una terra che rappresenta il giusto mix. Per il 66,6% i miliardari sono diventati tali grazie alle loro capacità, mentre per il 14% per l’eredità.Se si vuole spostare il focus sul genere si nota come la percentuale di peperoni donne è in crescita, ma la quota predominante rimane sempre in mano maschile. E infatti anche tra i nuovi miliardari troviamo 87,4% degli uomini e il 12,6% delle donne. Aspetto interessante è notare come al salire della fortuna, e quindi quando parliamo di «ultra miliardari» la percentuale femminile cresce al 16% e quella maschile scende al 84%. Il ruolo delle donne all’interno della ricchezza mondiale si sta sviluppando sempre di più anche grazie a un cambiamento culturale che sta iniziando a dare i suo frutti. E dunque sono sempre di più le figlie che sostituiscono i padri ai vertici dell’impresa di famiglia o che fondano una propria realtà. Un’altra differenza tra uomini e le donne miliardarie è il modo in cui sono arrivati al patrimonio. Negli uomini, sottolinea il report, la maggior part (75%) ha ottenuto da sé la propria ricchezza, contro un 37% femminile, e solo un 4,3% dipende dall’eredità della famiglia. Le donne presentano invece in questo caso un percentuale molto più alta, vicino al 30%.Ci sono 5 settori che hanno fatto nascere la maggior parte dei miliardari nel mondo. In generale i paperoni provengono per il 21% dal mondo bancario/finanziario, per il 10,7% dai conglomerati industriali, per il 7,5% dell’immobiliare, per il 7% dal mondo della tecnologia e per il 6,2% dalla manifattura. I nuovi miliardari hanno però portato alla ribalta la tecnologia. E infatti nel top 10 degli uomini più ricchi al mondo troviamo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Mark Zuckerberg (Facebook) e Larry Page (Google). I nuovi paperoni provengono dunque per l’12% proprio dall’industria tecnologica. Una grossa fetta rimane ancorato al mondo della finanza (18,4%) e l’8% all’immobiliare. È cresciuta anche la manifattura, con il 7,6% dei nuovi miliardari. E poi proprio spinta dalla pandemia è entrata nei settori che sfornano i paperoni del futuro il mondo legato alla medicina (7%).Entro il 2030, 680.000 individui trasferiranno 18,3 trilioni di dollari. Significa dunque che quasi un quarto della popolazione ricca globale trasferirà il proprio patrimonio alle generazioni successive. Secondo il report in media un paperone andrà a trasferire circa 27 milioni di dollari alla sua discendenza. Il valore delle proprietà varierà però notevolmente in base ai livelli di ricchezza di partenza. E dunque poco più della metà di tutti i trasferimenti avverrà da individui con un patrimonio netto complessivo tra i 5 e i 10 milioni di euro, e un terzo riguarderà le fortune comprese tra i 10 e i 30 milioni. La classe degli «ultra miliardari» farà infine la parte del leone, con un trasferimento di circa 12,2 trilioni di dollari. Si parla di una media di circa 135 milioni a testa. Se si sposta il focus sulla geografia delle ridistribuzione si nota come il 91% delle eredità sarà concentrata tra il Nord America (10,6 trilioni), l’Europa (3,4 trilioni) e l’Asia (2,5 trilioni).<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sempre-piu-miliardari-usa-selfmademan-2656073493.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-15-paesi-con-i-migliori-regimi-fiscali" data-post-id="2656073493" data-published-at="1640002539" data-use-pagination="False"> I 15 Paesi con i migliori regimi fiscali Isole Vergini, Cayman, Qatar, Irlanda e Bermuda. Paesi che spesso finiscono all’interno delle classifiche internazionali dei paradisi fiscali ma che se analizzati più attentamente hanno molto spesso creato sistemi che attirano i paperoni di tutto il mondo grazie all’esistenza di un rapporto tasse/patrimonio che non soffoca la ricchezza. Ma attenzione però perché non tutte le giurisdizioni che sono classificate come «tax havens» per le multinazionali lo sono anche per i singoli. Merchant Machine, un società di pagamenti del Regno Unito, analizzando diversi territori tipicamente contrassegnati come paradisi fiscali ha evidenziato proprio questo aspetto, facendo emerge le realtà che hanno il miglior fisco per gli individui. La classificaAl primo posto c’è il Qatar, il paese con le tasse individuali più basse in assoluto. Secondo la ricerca il costo della vita per una persona è basso, circa sulle 637,16 sterline al mese. E si ha uno stipendio medio mensile di 3.000 sterline. La tassazione personale è del 10%, così come quella sulle eventuali plusvalenze. Da aggiungere come l’imposta di successione e i contributi previdenziali sono praticamente vicino allo 0. Al secondo posto ci sono le Isole Cayman. A differenza del Quatar non ci sono tasse personali da pagare se decidi di vivere nel territorio d’oltremare inglese. Il reddito mensile è però più basso (stipendio medio di circa 2.800 euro mensili) e il costo della vita è più alto (circa 1.000 al mese).Medaglia di bronzo per le isole Vergini Britanniche. Qui lo stipendio medio mensile si abbassa al 1.328 euro, il costo della vita si aggira sulle 622 sterline e dal punto di vista fiscale devi pagare il 4% di tasse per la sicurezza sociale e l’1,5% sulla proprietà. Al quarto posto troviamole Bahamas e al quinto gli Emirati Arabi che hanno uno stipendio medio di 3.800 euro ma un livello di tassazione, soprattutto per i contributi previdenziali, l’Iva e la tassa di proprietà più altro rispetto agli altri in classifica.Ci sono poi diversi paesi che rientrano ogni anno nella classifica dei paradisi fiscali ma che se analizzati più nel dettaglio non sono così favorevoli per i singoli. Molte giurisdizioni entrano in queste classifiche perché offrono dei regimi interessanti per le società (ma non per i paperoni). E infatti secondo i ricercatori l’Olanda, per esempio, è il paese peggiore in cui andare a vivere, nonostante sia considerato da sempre uno dei maggiori paradisi fiscali nel cuore dell’Ue. Partiamo dal fatto che lo stipendio medio mensile è di 4.000 sterline (si colloca nella media dei paesi analizzati). I residenti pagano tra il 10 e il 50% di imposte sul reddito e il 27,65% di contributi previdenziali. Per capire meglio la situazione: le tasse sul reddito personale che si pagano in Olanda sono il 9,45% più alte rispetto all’Irlanda e il 4,5% in più del Regno Unito. Da sottolineare che comunque Uk ha un Irpef che va a scaglioni in base al reddito e applica il 45% a quelli più alti. Stessa sorte l’Irlanda con un 40%. E dunque, i paesi dove è meglio non trasferirsi se si vogliono pagare meno tasse, stando alla ricerca sono: Olanda, Irlanda, Uk, Lussemburgo e Taiwan. Giurisdizioni che dunque son più volte finite all’interno di scandali fiscali internazionali, a causa delle agevolazione concesse alle multinazionali, ma che non presentano enormi vantaggi per i singoli individui.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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