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2021-12-26
Sempre più miliardari. Ma solo negli Usa sono «self made man»
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I nuovi miliardari sono più giovani ma meno ricchi dei predecessori. Il loro patrimonio si attesta infatti su 1,4 miliardi di dollari contro 1,9 miliardi dei veterani della ricchezza. Secondo il report: Wealth X bilionaire census 2021 pubblicato da WealthX i nuovi paperoni hanno un’età media di 59 anni contro i 66 degli appartenenti al club mondiale della ricchezza. La novità è che sono aumentati i miliardari che possono vantare questo titolo con meno di 50 anni (20,4%, rispetto al 11,2 degli anni passati). Mentre c’è stato un calo tra i nuovi entrati per chi ha più di 70 anni (23% rispetto al 40%). Stessa dinamica per gli ultra miliardari; l’11,7% ha meno di 50 anni, il 56% tra i 50 e i 70 e il 31% più di 70 anni. Inoltre i nuovi arrivati per il 70,2% si sono auto prodotti la propria ricchezza (contro un 60%), vedendo dunque ridursi la percentuale che deve la propria fortuna ad un’eredità (7,4% contro l’11%). La costruzione della ricchezza è però fortemente influenzata anche dal contesto in cui si vive. Ci sono infatti fattori a livello Paese come la struttura economica, la politica, la demografia, il clima imprenditoriale e l’entità di ricchezza tra le generazioni che possono rendere più facile la scalata verso l’olimpo ereditando una fortuna o aprendo una propria azienda di successo. Se si analizzano per esempio Cina e Russia si nota come negli ultimi decenni sono emerse importanti opportunità di rapidi guadagni. E infatti il 96,4% (Russia) e il 92,9% (Cina) dei miliardari si è fatto da sé. Solo una piccola quota (3,6 Russia e 3,2 Cina) ha eredità la fortuna. Queste realtà sono però in netto contrasto con la Svizzera o la Germania dove c’è una forte ricchezza tra le famiglie. E infatti solo il 22% in Germania si è auto prodotto il patrimonio (41% in Svizzera), mentre il 60% dipende da un mix tra eredità e proprie capacità imprenditoriali (47% Svizzera), e il 17,7% è nel club dei paperoni solo grazie alla propria famiglia (11,8% Svizzera). Gli Usa sono invece una terra che rappresenta il giusto mix. Per il 66,6% i miliardari sono diventati tali grazie alle loro capacità, mentre per il 14% per l’eredità.
Se si vuole spostare il focus sul genere si nota come la percentuale di peperoni donne è in crescita, ma la quota predominante rimane sempre in mano maschile. E infatti anche tra i nuovi miliardari troviamo 87,4% degli uomini e il 12,6% delle donne. Aspetto interessante è notare come al salire della fortuna, e quindi quando parliamo di «ultra miliardari» la percentuale femminile cresce al 16% e quella maschile scende al 84%. Il ruolo delle donne all’interno della ricchezza mondiale si sta sviluppando sempre di più anche grazie a un cambiamento culturale che sta iniziando a dare i suo frutti. E dunque sono sempre di più le figlie che sostituiscono i padri ai vertici dell’impresa di famiglia o che fondano una propria realtà. Un’altra differenza tra uomini e le donne miliardarie è il modo in cui sono arrivati al patrimonio. Negli uomini, sottolinea il report, la maggior part (75%) ha ottenuto da sé la propria ricchezza, contro un 37% femminile, e solo un 4,3% dipende dall’eredità della famiglia. Le donne presentano invece in questo caso un percentuale molto più alta, vicino al 30%.
Ci sono 5 settori che hanno fatto nascere la maggior parte dei miliardari nel mondo. In generale i paperoni provengono per il 21% dal mondo bancario/finanziario, per il 10,7% dai conglomerati industriali, per il 7,5% dell’immobiliare, per il 7% dal mondo della tecnologia e per il 6,2% dalla manifattura. I nuovi miliardari hanno però portato alla ribalta la tecnologia. E infatti nel top 10 degli uomini più ricchi al mondo troviamo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Mark Zuckerberg (Facebook) e Larry Page (Google). I nuovi paperoni provengono dunque per l’12% proprio dall’industria tecnologica. Una grossa fetta rimane ancorato al mondo della finanza (18,4%) e l’8% all’immobiliare. È cresciuta anche la manifattura, con il 7,6% dei nuovi miliardari. E poi proprio spinta dalla pandemia è entrata nei settori che sfornano i paperoni del futuro il mondo legato alla medicina (7%).
Entro il 2030, 680.000 individui trasferiranno 18,3 trilioni di dollari. Significa dunque che quasi un quarto della popolazione ricca globale trasferirà il proprio patrimonio alle generazioni successive. Secondo il report in media un paperone andrà a trasferire circa 27 milioni di dollari alla sua discendenza. Il valore delle proprietà varierà però notevolmente in base ai livelli di ricchezza di partenza. E dunque poco più della metà di tutti i trasferimenti avverrà da individui con un patrimonio netto complessivo tra i 5 e i 10 milioni di euro, e un terzo riguarderà le fortune comprese tra i 10 e i 30 milioni. La classe degli «ultra miliardari» farà infine la parte del leone, con un trasferimento di circa 12,2 trilioni di dollari. Si parla di una media di circa 135 milioni a testa. Se si sposta il focus sulla geografia delle ridistribuzione si nota come il 91% delle eredità sarà concentrata tra il Nord America (10,6 trilioni), l’Europa (3,4 trilioni) e l’Asia (2,5 trilioni).
I 15 Paesi con i migliori regimi fiscali
Isole Vergini, Cayman, Qatar, Irlanda e Bermuda. Paesi che spesso finiscono all’interno delle classifiche internazionali dei paradisi fiscali ma che se analizzati più attentamente hanno molto spesso creato sistemi che attirano i paperoni di tutto il mondo grazie all’esistenza di un rapporto tasse/patrimonio che non soffoca la ricchezza. Ma attenzione però perché non tutte le giurisdizioni che sono classificate come «tax havens» per le multinazionali lo sono anche per i singoli. Merchant Machine, un società di pagamenti del Regno Unito, analizzando diversi territori tipicamente contrassegnati come paradisi fiscali ha evidenziato proprio questo aspetto, facendo emerge le realtà che hanno il miglior fisco per gli individui.
La classifica
Al primo posto c’è il Qatar, il paese con le tasse individuali più basse in assoluto. Secondo la ricerca il costo della vita per una persona è basso, circa sulle 637,16 sterline al mese. E si ha uno stipendio medio mensile di 3.000 sterline. La tassazione personale è del 10%, così come quella sulle eventuali plusvalenze. Da aggiungere come l’imposta di successione e i contributi previdenziali sono praticamente vicino allo 0. Al secondo posto ci sono le Isole Cayman. A differenza del Quatar non ci sono tasse personali da pagare se decidi di vivere nel territorio d’oltremare inglese. Il reddito mensile è però più basso (stipendio medio di circa 2.800 euro mensili) e il costo della vita è più alto (circa 1.000 al mese).
Medaglia di bronzo per le isole Vergini Britanniche. Qui lo stipendio medio mensile si abbassa al 1.328 euro, il costo della vita si aggira sulle 622 sterline e dal punto di vista fiscale devi pagare il 4% di tasse per la sicurezza sociale e l’1,5% sulla proprietà. Al quarto posto troviamole Bahamas e al quinto gli Emirati Arabi che hanno uno stipendio medio di 3.800 euro ma un livello di tassazione, soprattutto per i contributi previdenziali, l’Iva e la tassa di proprietà più altro rispetto agli altri in classifica.
Ci sono poi diversi paesi che rientrano ogni anno nella classifica dei paradisi fiscali ma che se analizzati più nel dettaglio non sono così favorevoli per i singoli. Molte giurisdizioni entrano in queste classifiche perché offrono dei regimi interessanti per le società (ma non per i paperoni). E infatti secondo i ricercatori l’Olanda, per esempio, è il paese peggiore in cui andare a vivere, nonostante sia considerato da sempre uno dei maggiori paradisi fiscali nel cuore dell’Ue. Partiamo dal fatto che lo stipendio medio mensile è di 4.000 sterline (si colloca nella media dei paesi analizzati). I residenti pagano tra il 10 e il 50% di imposte sul reddito e il 27,65% di contributi previdenziali. Per capire meglio la situazione: le tasse sul reddito personale che si pagano in Olanda sono il 9,45% più alte rispetto all’Irlanda e il 4,5% in più del Regno Unito. Da sottolineare che comunque Uk ha un Irpef che va a scaglioni in base al reddito e applica il 45% a quelli più alti. Stessa sorte l’Irlanda con un 40%. E dunque, i paesi dove è meglio non trasferirsi se si vogliono pagare meno tasse, stando alla ricerca sono: Olanda, Irlanda, Uk, Lussemburgo e Taiwan. Giurisdizioni che dunque son più volte finite all’interno di scandali fiscali internazionali, a causa delle agevolazione concesse alle multinazionali, ma che non presentano enormi vantaggi per i singoli individui.
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Secondo il report pubblicato da WealthX i nuovi paperoni hanno un’età media di 59 anni contro i 66 degli appartenenti al club mondiale della ricchezza. Rispetto agli anni passati sono aumentati del 9,2% gli individui che possono vantare questo titolo sotto i 50 anni.I 15 Paesi con i migliori regimi fiscali (dove il rapporto tra tasse e stipendio medio ti lascia un netto alto).Lo speciale contiene due articoli.I nuovi miliardari sono più giovani ma meno ricchi dei predecessori. Il loro patrimonio si attesta infatti su 1,4 miliardi di dollari contro 1,9 miliardi dei veterani della ricchezza. Secondo il report: Wealth X bilionaire census 2021 pubblicato da WealthX i nuovi paperoni hanno un’età media di 59 anni contro i 66 degli appartenenti al club mondiale della ricchezza. La novità è che sono aumentati i miliardari che possono vantare questo titolo con meno di 50 anni (20,4%, rispetto al 11,2 degli anni passati). Mentre c’è stato un calo tra i nuovi entrati per chi ha più di 70 anni (23% rispetto al 40%). Stessa dinamica per gli ultra miliardari; l’11,7% ha meno di 50 anni, il 56% tra i 50 e i 70 e il 31% più di 70 anni. Inoltre i nuovi arrivati per il 70,2% si sono auto prodotti la propria ricchezza (contro un 60%), vedendo dunque ridursi la percentuale che deve la propria fortuna ad un’eredità (7,4% contro l’11%). La costruzione della ricchezza è però fortemente influenzata anche dal contesto in cui si vive. Ci sono infatti fattori a livello Paese come la struttura economica, la politica, la demografia, il clima imprenditoriale e l’entità di ricchezza tra le generazioni che possono rendere più facile la scalata verso l’olimpo ereditando una fortuna o aprendo una propria azienda di successo. Se si analizzano per esempio Cina e Russia si nota come negli ultimi decenni sono emerse importanti opportunità di rapidi guadagni. E infatti il 96,4% (Russia) e il 92,9% (Cina) dei miliardari si è fatto da sé. Solo una piccola quota (3,6 Russia e 3,2 Cina) ha eredità la fortuna. Queste realtà sono però in netto contrasto con la Svizzera o la Germania dove c’è una forte ricchezza tra le famiglie. E infatti solo il 22% in Germania si è auto prodotto il patrimonio (41% in Svizzera), mentre il 60% dipende da un mix tra eredità e proprie capacità imprenditoriali (47% Svizzera), e il 17,7% è nel club dei paperoni solo grazie alla propria famiglia (11,8% Svizzera). Gli Usa sono invece una terra che rappresenta il giusto mix. Per il 66,6% i miliardari sono diventati tali grazie alle loro capacità, mentre per il 14% per l’eredità.Se si vuole spostare il focus sul genere si nota come la percentuale di peperoni donne è in crescita, ma la quota predominante rimane sempre in mano maschile. E infatti anche tra i nuovi miliardari troviamo 87,4% degli uomini e il 12,6% delle donne. Aspetto interessante è notare come al salire della fortuna, e quindi quando parliamo di «ultra miliardari» la percentuale femminile cresce al 16% e quella maschile scende al 84%. Il ruolo delle donne all’interno della ricchezza mondiale si sta sviluppando sempre di più anche grazie a un cambiamento culturale che sta iniziando a dare i suo frutti. E dunque sono sempre di più le figlie che sostituiscono i padri ai vertici dell’impresa di famiglia o che fondano una propria realtà. Un’altra differenza tra uomini e le donne miliardarie è il modo in cui sono arrivati al patrimonio. Negli uomini, sottolinea il report, la maggior part (75%) ha ottenuto da sé la propria ricchezza, contro un 37% femminile, e solo un 4,3% dipende dall’eredità della famiglia. Le donne presentano invece in questo caso un percentuale molto più alta, vicino al 30%.Ci sono 5 settori che hanno fatto nascere la maggior parte dei miliardari nel mondo. In generale i paperoni provengono per il 21% dal mondo bancario/finanziario, per il 10,7% dai conglomerati industriali, per il 7,5% dell’immobiliare, per il 7% dal mondo della tecnologia e per il 6,2% dalla manifattura. I nuovi miliardari hanno però portato alla ribalta la tecnologia. E infatti nel top 10 degli uomini più ricchi al mondo troviamo Jeff Bezos, fondatore di Amazon, Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Mark Zuckerberg (Facebook) e Larry Page (Google). I nuovi paperoni provengono dunque per l’12% proprio dall’industria tecnologica. Una grossa fetta rimane ancorato al mondo della finanza (18,4%) e l’8% all’immobiliare. È cresciuta anche la manifattura, con il 7,6% dei nuovi miliardari. E poi proprio spinta dalla pandemia è entrata nei settori che sfornano i paperoni del futuro il mondo legato alla medicina (7%).Entro il 2030, 680.000 individui trasferiranno 18,3 trilioni di dollari. Significa dunque che quasi un quarto della popolazione ricca globale trasferirà il proprio patrimonio alle generazioni successive. Secondo il report in media un paperone andrà a trasferire circa 27 milioni di dollari alla sua discendenza. Il valore delle proprietà varierà però notevolmente in base ai livelli di ricchezza di partenza. E dunque poco più della metà di tutti i trasferimenti avverrà da individui con un patrimonio netto complessivo tra i 5 e i 10 milioni di euro, e un terzo riguarderà le fortune comprese tra i 10 e i 30 milioni. La classe degli «ultra miliardari» farà infine la parte del leone, con un trasferimento di circa 12,2 trilioni di dollari. Si parla di una media di circa 135 milioni a testa. Se si sposta il focus sulla geografia delle ridistribuzione si nota come il 91% delle eredità sarà concentrata tra il Nord America (10,6 trilioni), l’Europa (3,4 trilioni) e l’Asia (2,5 trilioni).<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sempre-piu-miliardari-usa-selfmademan-2656073493.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-15-paesi-con-i-migliori-regimi-fiscali" data-post-id="2656073493" data-published-at="1640002539" data-use-pagination="False"> I 15 Paesi con i migliori regimi fiscali Isole Vergini, Cayman, Qatar, Irlanda e Bermuda. Paesi che spesso finiscono all’interno delle classifiche internazionali dei paradisi fiscali ma che se analizzati più attentamente hanno molto spesso creato sistemi che attirano i paperoni di tutto il mondo grazie all’esistenza di un rapporto tasse/patrimonio che non soffoca la ricchezza. Ma attenzione però perché non tutte le giurisdizioni che sono classificate come «tax havens» per le multinazionali lo sono anche per i singoli. Merchant Machine, un società di pagamenti del Regno Unito, analizzando diversi territori tipicamente contrassegnati come paradisi fiscali ha evidenziato proprio questo aspetto, facendo emerge le realtà che hanno il miglior fisco per gli individui. La classificaAl primo posto c’è il Qatar, il paese con le tasse individuali più basse in assoluto. Secondo la ricerca il costo della vita per una persona è basso, circa sulle 637,16 sterline al mese. E si ha uno stipendio medio mensile di 3.000 sterline. La tassazione personale è del 10%, così come quella sulle eventuali plusvalenze. Da aggiungere come l’imposta di successione e i contributi previdenziali sono praticamente vicino allo 0. Al secondo posto ci sono le Isole Cayman. A differenza del Quatar non ci sono tasse personali da pagare se decidi di vivere nel territorio d’oltremare inglese. Il reddito mensile è però più basso (stipendio medio di circa 2.800 euro mensili) e il costo della vita è più alto (circa 1.000 al mese).Medaglia di bronzo per le isole Vergini Britanniche. Qui lo stipendio medio mensile si abbassa al 1.328 euro, il costo della vita si aggira sulle 622 sterline e dal punto di vista fiscale devi pagare il 4% di tasse per la sicurezza sociale e l’1,5% sulla proprietà. Al quarto posto troviamole Bahamas e al quinto gli Emirati Arabi che hanno uno stipendio medio di 3.800 euro ma un livello di tassazione, soprattutto per i contributi previdenziali, l’Iva e la tassa di proprietà più altro rispetto agli altri in classifica.Ci sono poi diversi paesi che rientrano ogni anno nella classifica dei paradisi fiscali ma che se analizzati più nel dettaglio non sono così favorevoli per i singoli. Molte giurisdizioni entrano in queste classifiche perché offrono dei regimi interessanti per le società (ma non per i paperoni). E infatti secondo i ricercatori l’Olanda, per esempio, è il paese peggiore in cui andare a vivere, nonostante sia considerato da sempre uno dei maggiori paradisi fiscali nel cuore dell’Ue. Partiamo dal fatto che lo stipendio medio mensile è di 4.000 sterline (si colloca nella media dei paesi analizzati). I residenti pagano tra il 10 e il 50% di imposte sul reddito e il 27,65% di contributi previdenziali. Per capire meglio la situazione: le tasse sul reddito personale che si pagano in Olanda sono il 9,45% più alte rispetto all’Irlanda e il 4,5% in più del Regno Unito. Da sottolineare che comunque Uk ha un Irpef che va a scaglioni in base al reddito e applica il 45% a quelli più alti. Stessa sorte l’Irlanda con un 40%. E dunque, i paesi dove è meglio non trasferirsi se si vogliono pagare meno tasse, stando alla ricerca sono: Olanda, Irlanda, Uk, Lussemburgo e Taiwan. Giurisdizioni che dunque son più volte finite all’interno di scandali fiscali internazionali, a causa delle agevolazione concesse alle multinazionali, ma che non presentano enormi vantaggi per i singoli individui.
Thierry Breton (Ansa)
«Condanniamo fermamente la decisione degli Stati Uniti di imporre restrizioni di viaggio a cinque individui europei, tra cui l’ex commissario Thierry Breton. Reagiremo», è stato il commento postato sull’account X della Commissione, «la libertà di parola è il fondamento della nostra forte e vivace democrazia europea. Ne siamo orgogliosi. La proteggeremo. Perché la Commissione europea è la custode dei nostri valori», ha cinguettato con piglio autoreferenziale Ursula von der Leyen, cui ha fatto eco la sua vice Kaja Kallas: «La decisione degli Stati Uniti è un tentativo di sfidare la nostra sovranità. L’Europa continuerà a difendere i suoi valori: libertà di espressione, regole digitali eque e il diritto di regolamentare il nostro spazio». Sembrerebbero parole giuste e coraggiose, se non fosse che il bersaglio della decisione di Rubio è la stessa persona che della libertà di espressione ha fatto strame, ideando la famigerata legge del Dsa (Digital services act), che impone alle grandi piattaforme misure di moderazione arbitrarie che di fatto limitano il free speech.
È Breton che il 12 agosto 2024 ha vergato di suo pugno, su carta intestata dell’esecutivo Ue, una lettera senza precedenti in cui, alla vigilia di un’intervista di Elon Musk a Donald Trump su X, ha minacciato Musk di «censura preventiva». Una pesante interferenza nella campagna elettorale Usa due mesi prima delle presidenziali, coronata dalla gravosa multa di 120 milioni di euro comminata dall’Ue a Musk tre settimane fa per violazioni di obblighi di trasparenza previsti dal Dsa, indicando tra i «problemi rilevati» perfino il design della «spunta blu». E non è tutto: a gennaio scorso, Breton non si è fatto problemi nel dichiarare che l’Unione «ha gli strumenti per bloccare qualsiasi ingerenza straniera, come ha fatto in Romania (dove le elezioni sono state invalidate su pressione europea, ndr) e come dovrà fare, se necessario, anche in Germania».
Che il Dsa uccida non soltanto il Primo emendamento ma anche le aziende americane è un altro dato di fatto: l’Unione europea incassa più dalle multe (a Meta, Google, Apple e X) che dalle tasse pagate dalle aziende tecnologiche europee. Per l’amministrazione Trump, però, la questione è soprattutto di principio: «Per troppo tempo, gli ideologi in Europa hanno guidato iniziative organizzate per costringere le piattaforme Usa a punire i punti di vista americani a cui si oppongono.
L’amministrazione Trump non tollererà più questi vergognosi atti di censura extraterritoriale», ha scritto senza mezzi termini Rubio. Christopher Landau, vice segretario di Stato, ha ricordato la missiva di Breton come «una delle lettere più agghiaccianti che abbia mai letto», mentre l’ambasciatore americano presso l’Ue, Andrew Puzder, ha ricordato che «ironia della sorte, le aziende statunitensi che stanno soffrendo delle politiche oppressive di Bruxelles, delle multe e dell’eccedenza normativa sono proprio le aziende che possono portare l’Ue nell’economia dell’Ia (…) investendo e creando posti di lavoro, ma non a rischio di multe paralizzanti (…) che censurano la libertà di parola e ostacolano la crescita economica».
La revoca del visto impedirà a Breton di partecipare agli eventi pianificati negli Stati Uniti, comprese le conferenze tecnologiche. Chi di censura ferisce, di censura perisce.
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A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
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Il punto è che l’argento ha trovato il modo perfetto per piacere a tutti. Agli investitori spaventati dal debito mondiale fuori controllo che potrebbe incenerire il valore delle monete, ai gestori che temono la stagflazione (il mostro fatto da inflazione e recessione), a chi guarda con sospetto al dollaro e all’indipendenza della Fed. Ma anche - ed è qui la vera svolta - all’economia reale che corre verso l’elettrificazione, la digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale. Un metallo bipartisan, potremmo dire: piace ai falchi e alle colombe, ai trader e agli ingegneri.
Dietro il rally non c’è solo la solita corsa al riparo mentre i tassi Usa scendono fra le prudenze di Powell e le intemperanze di Trump. Il debito globale fa il giro del mondo senza mai fermarsi. C’è soprattutto una domanda industriale che cresce come l’appetito di un adolescente davanti a una pizza maxi. L’argento ha proprietà di conducibilità elettrica e termica che lo rendono insostituibile in una lunga serie di tecnologie chiave. E così, mentre il mondo si elettrifica, si digitalizza e si affida sempre più agli algoritmi, il metallo lucente diventa il filo conduttore - letteralmente - della nuova economia.
Prendiamo il fotovoltaico. Nel 2014 assorbiva appena l’11% della domanda industriale di argento. Dieci anni dopo siamo al 29%. Certo, i produttori di pannelli sono diventati più efficienti e riescono a usare meno metallo per modulo. Ma dall’altra parte della bilancia ci sono obiettivi sempre più ambiziosi: l’Unione europea punta ad almeno 700 gigawatt di capacità solare entro il 2030. Tradotto: anche con celle più parsimoniose, di argento ne servirà comunque a palate.
Poi ci sono le auto elettriche, che di sobrio hanno solo il rumore del motore. Ogni veicolo elettrico consuma tra il 67% e il 79% di argento in più rispetto a un’auto a combustione interna. Dai sistemi di gestione delle batterie all’elettronica di potenza, fino alle colonnine di ricarica, l’argento è ovunque. Oxford Economics stima che già entro il 2027 i veicoli a batteria supereranno le auto tradizionali come principale fonte di domanda di argento nel settore automotive. E nel 2031 rappresenteranno il 59% del mercato. Altro che rottamazione: qui è l’argento che prende il volante.
Capitolo data center e Intelligenza artificiale. Qui i numeri fanno girare la testa: la capacità energetica globale dell’IT è passata da meno di 1 gigawatt nel 2000 a quasi 50 gigawatt nel 2025. Un aumento del 5.252%. Ogni server, ogni chip, ogni infrastruttura che alimenta l’Intelligenza artificiale ha bisogno di metalli critici. E indovinate chi c’è sempre, silenzioso ma indispensabile? Esatto, l’argento. I governi lo hanno capito e trattano ormai i data center come infrastrutture strategiche, tra incentivi fiscali e corsie preferenziali. Il risultato è una domanda strutturale destinata a durare ben oltre l’ennesimo ciclo speculativo.
Intanto, sul fronte dell’offerta, la musica è tutt’altro che allegra. La produzione globale cresce a passo di lumaca, il riciclo aumenta ma non basta e il mercato è in deficit per il quinto anno consecutivo. Dal 2021 al 2025 il buco cumulato sfiora le 820 milioni di once (circa 26.000 tonnellate). Un dettaglio che aiuta a spiegare perché, nonostante qualche correzione, i prezzi restino ostinatamente alti e la liquidità sia spesso sotto pressione, con tassi di locazione da record e consegne massicce nei depositi del Chicago Mercantile Exchange, il più importante listino del settore.
Nel frattempo gli investitori votano con il portafoglio. Gli scambi sui derivati dell’argento sono saliti del 18% in pochi mesi. Il rapporto oro-argento è sceso, segnale che anche gli istituzionali iniziano a guardare al metallo bianco con occhi diversi. Non più solo assicurazione contro il caos, ma scommessa sulla trasformazione dell’economia globale.
Ecco perché l’argento oggi non si limita a brillare: racconta una storia. Quella di un mondo che cambia, che consuma più elettricità, più dati, più tecnologia. Un mondo che ha bisogno di metalli «di nuova generazione», come li definisce Oxford Economics. L’oro resta il re dei ben rifugio, ma l’argento si è preso il ruolo più ambizioso: essere il ponte tra la paura del presente e la scommessa sul futuro. E a giudicare dai prezzi, il mercato ha già deciso da che parte stare.
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