2025-02-04
«Migranti spediti nei lager albanesi». Stavolta Segre inciampa sulla Shoah
La sopravvissuta ad Auschwitz critica il Cpr di Gjadër e le «deportazioni» di Trump. Paragone pericoloso. Infatti lei, quando i no green pass evocavano l’Olocausto, si indignava. E li snobbava: «Sono una minoranza».75190: è il numero che i nazisti tatuarono sul braccio di Liliana Segre nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, dove fu deportata nel 1944, a 13 anni, dopo cinque passati a patire l’ingiustizia delle leggi razziali fasciste. Ieri, intervistata dalla Stampa, la senatrice a vita ha ribadito: «Non potrò mai dimenticare quello che mi è successo». L’onorevole è un monumento vivente e ogni sua parola sulla lotta alle discriminazioni e la memoria dell’Olocausto pesa una tonnellata. Ecco perché sono sembrate per lo meno incaute quelle che ha affidato al quotidiano torinese, nel giorno del summit vaticano sui diritti dei bambini, in cui il Papa l’ha ricevuta in udienza. «Vedo “spettacoli”», ha lamentato la Segre, «come le deportazioni di Trump; i respingimenti; campi in cui rinchiudere persone colpevoli solo di essere nate altrove; vediamo decidere che persone in arrivo sono da rispedire indietro o da collocare in un altro piccolo lager in una città semisconosciuta di un’Albania non lontana».Perdersi nelle traduzioni è una licenza che le si concede volentieri: lasciamo stare, dunque, la querelle sulla deportation del presidente americano, che non è il trasporto di una minoranza etnica in un carcere per lavori forzati ed esecuzioni, bensì uno dei tanti rimpatri eseguiti anche dai democratici Bill Clinton, Barack Obama e Joe Biden. Ciò che colpisce è un altro termine: «lager». Anche perché la senatrice a vita lo ha associato alla struttura realizzata a Gjadër dal governo Meloni. Può reggere un raffronto del genere? È comprensibile che la Segre ricordi «la sensazione, il dolore di non essere voluti». Sì, c’è una parte di umanità alla quale l’Occidente non può più spalancare le porte. Lo ha fatto. E le conseguenze sono state disastrose. Il sistema dell’accoglienza è fallito; spesso, ha alimentato gli affari degli speculatori, anziché le speranze dei sofferenti; e gli accolti hanno ripagato troppe volte gli ospitanti con crimini e violenze. Ma davvero si può affermare, come fa la senatrice, che adesso c’è «la stessa indifferenza di allora, quel voler nascondere il problema»? Davvero i richiedenti asilo che vengono portati nel Cpr balcanico, solo se sono uomini adulti e non vulnerabili, si trovano in una situazione lontanamente paragonabile a quella degli ebrei durante il nazifascismo? Davvero le condizioni del loro trattenimento - così lo si definisce in giuridichese - sono simili a quelle di un «lager»? Anche in Albania, in una struttura nuova di zecca, per noti motivi utilizzata pochissimo e affidata non a feroci SS, ma a nostri poliziotti?Bengalesi ed egiziani non sono mai stati condotti sull’altra sponda dell’Adriatico per spaccare pietre o fabbricare munizioni - il compito che fu imposto alla Segre durante la prigionia ad Auschwitz. C’è chi sostiene che i loro diritti siano stati compressi. Eppure, gli stranieri hanno trovato - vivaddio - istituzioni garantiste. Sulla Verità abbiamo criticato le decisioni dei giudici che li hanno fatti riportare in Italia e liberare. L’approccio restrittivo che le toghe intendono adottare, chiedendo un verdetto della Corte Ue, comprometterebbe la possibilità di regolamentare i flussi migratori e di limitare gli ingressi. E voler governare l’immigrazione non è mica fanatismo hitleriano. Dopodiché, l’esistenza di un dibattito e la necessità di rispettare certe procedure sono la dimostrazione del contrario di ciò che ha affermato la senatrice a vita: è proprio perché abbiamo imparato la tragica lezione della storia che non «deportiamo» nessuno, non opprimiamo nessuno, non riapriamo nessun «lager».Avventurarsi in controverse comparazioni, semmai, rischia di pregiudicare il valore della memoria di un’ecatombe. Essa, in sé, non è irripetibile; tuttavia è stata unica nel suo genere. Ecco. Le comunità ebraiche da sempre insistono sull’unicità della Shoah. Una catastrofe inedita, sia per le sue radici ideologiche sia per le modalità della sua esecuzione: scaturita da un’ideologia che si servì dei metodi della scienza e degli strumenti della tecnologia per perpetrare uno sterminio razzista.La stessa Liliana Segre, quattro anni fa, si pronunciò in merito. Era il periodo delle proteste contro il green pass. Uno dei momenti più tesi della storia della nostra Repubblica, durante il quale una frangia dei manifestanti si spinse troppo in là, equiparando all’Olocausto i diktat vaccinali. La senatrice condannò quelle tesi, parlando di «follie, gesti in cui il cattivo gusto si incrocia con l’ignoranza». Sia chiaro: ciò che combinarono Mario Draghi e Roberto Speranza è inescusabile. Soltanto, fu una «persecuzione» imparagonabile alla macelleria nazifascista. Il punto vero è un altro: se la campanella d’allarme delle vittime di una carneficina «unica» si attiva osservando uomini e donne che si sentono «non voluti», be’, nel 2021, la Segre avrebbe avuto ottimi motivi per indignarsi. Ai «non voluti» venne proibito persino di lavorare e guadagnarsi lo stipendio. Invece, l’onorevole si consolava pensando che i no pass erano «una minoranza», perché «come si fa a non vaccinarsi con una malattia terribile che ha ucciso senza distinzioni?». Ma cosa si poteva fare di peggio ai non vaccinati? «Deportarli» in Albania?
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
A Fuori dal coro Raffaella Regoli mostra le immagini sconvolgenti di un allontanamento di minori. Un dramma che non vive soltanto la famiglia nel bosco.
Le persone sfollate da El Fasher e da altre aree colpite dal conflitto sono state sistemate nel nuovo campo di El-Afadh ad Al Dabbah, nello Stato settentrionale del Sudan (Getty Images)