2024-09-24
«La storia di Lyle ed Erik Menendez». Su Netflix tornano le vicende di «Monsters»
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«Monsters. La storia di Lyle ed Erik Menendez» (Netflix)
A due anni di distanza della messa in onda della prima stagione, la scorsa settimana Netflix ha reso disponibile, per intero, il secondo capitolo di Monsters. Sottotitolo: La storia di Lyle ed Erik Menendez.Due anni fa, era stato Jeffrey Dahmer. Ryan Murphy lo aveva scelto per inaugurare un ciclo inedito: serialità antologica, dedicata al racconto dei peggiori serial killer che abbiano messo piede su suolo statunitense. Dahmer, con qualche polemica ad accompagnarlo, era stato il primo. Poi, più nulla. Murphy, un genio, il primo a declinare l’horror su miniserie, aveva promesso un seguito, ma le settimane erano diventate mesi, e questi anni. Due, nello specifico, conclusasi – e per fortuna – giovedì 19 settembre. La scorsa settimana, Netflix ha reso disponibile, per intero, il secondo capitolo di Monsters. Sottotitolo: La storia di Lyle ed Erik Menendez.Lyle ed Erik Menendez, nella serie interpretati da Nicholas Chavez e Cooper Koch, sono saliti alla ribalta nell’agosto del 1989. Sulle prime, la comunità di Beverly Hills li ha compatiti. Erano giovani e orfani, vittime di una tragedia che aveva portato alla morte di entrambi i genitori. José e Mary Louise «Kitty» Menendez, cui nello show prestano il volto Javier Bardem e Chloë Sevigny, sono stati uccisi il 20 agosto 1989 con ferocia inaudita. L’arma, un fucile. Sedici proiettili si sono abbattuti sui coniugi. Sei hanno colpito il padre, dieci la madre. Strisciava a terra, piangeva e implorava, quando l’ultimo le ha frantumato il viso, portandole via i connotati e la vita. Lyle ed Erik, allora, hanno raccontato alla polizia di essere sfuggiti ad una mattanza che appariva priva di logica e movente. Guardavano un film, mentre i genitori morivano. Le autorità hanno creduto a quella versione e cercato i responsabili degli omicidi fra la malavita di Los Angeles, negli ambienti collusi alla mafia. I residenti si sono stretti attorno ai giovani, cui è rimasta la casa e la liquidità di quei facoltosi genitori. Ed è rimasta pure la voglia di togliersi qualche sfizio.Lyle ed Erik hanno cominciato a spendere, a spandere. Ci sono state automobil e orologi, viaggi intercontinentali, attività imprenditoriali e attività ludiche. I fratelli si sono concessi tutto, dopo la morte dei genitori. Le stime parlano di spese per circa settecento mila dollari, dilazionate in due anni appena. Troppo, per gli inquirenti, che hanno cominciato a sospettare i decessi fossero da imputarsi ai due, mossi da movente finanziario. La famiglia residua dei ragazzi, all’epoca, si è opposta a questa ipotesi, sostenendo le abitudini di spesa dei Menendez non fossero mutate nel tempo. Erano rampolli ricchi, avvezzi alle cose belle della vita. Ma una donna ha sostenuto altro, l’amante dello psicologo che al tempo aveva in cura Erik. Questa, ferita dalla decisione del dottore di rompere la relazione adultera, ha raccontato alla polizia come l’uomo avesse violato il segreto professionale per raccontarle la confessione del giovane Menendez. Aveva ucciso i genitori insieme al fratello, e questo è bastato perché le autorità procedessero con l’arresto dei due.Nel corso del processo, i fratelli hanno confessato di aver ammazzato i genitori e sostenuto, però, di averlo fatto per una sorta di legittima difesa. Il padre sarebbe stato un pedofilo pervertito, e per anni avrebbe sottoposto i figli ad abusi, vuoi sessuali, vuoi psicologici. La madre, di contro, sarebbe stata una psicolabile affetta da svariate dipendenze, menefreghista nei confronti dei figli e del marito, cui avrebbe perdonato tutto. Erik e Lyle avrebbero cercato di rompere quello schema di devianza, minacciando di denunciare il padre alle autorità competenti. Questi si sarebbe arrabbiato al punto da portare i figli a temere per la propria vita. Di qui, la decisione di ucciderlo prima che potesse far loro del male. Due giurie sono state chiamate a pronunciarsi sulla verità dei fratelli. Una si è arenata. L’altra, nonostante le testimonianze di alcuni parenti, ha giudicato i due mossi da movente finanziario e li ha condannati all’ergastolo senza possibilità di libertà vigilata.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)